Perché (di nuovo) Android?

Marco Castellani
Segnale Rumore
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5 min readAug 18, 2015

Sì, ci sto pensando. Lo confesso. Sto progressivamente iniziando a gravitare intorno a questa possibilità. Ritornare ad Android, dopo anni di militanza iOS (dal 7 gennaio 2013, momento storico del mio ingresso nel mondo Apple, con l’allora nuovo fiammante iPhone 5).

In effetti, per essere sinceri, non c’è un meglio o un peggio una volta per tutte stabiliti e stabili. La situazione è piuttosto fluida ed articolata, legata com’è ad una grande quantità di fattori. Siccome poi ogni racconto qui è all’incirca una storia e non una fredda disamina dei citati fattori, non posso evitare di passare attraverso questa, attraverso la mia storia. Per capire i come e i perché, nella consapevolezza che questa sia appena una storia, e che — restando invariato il mero dato tecnico — altri potrebbero percorrere questi dati dal lato opposto, diciamo. Al limite, approdando a conclusioni squisitamente speculari. O comunque immaginando altri possibili percorsi, perpendicolari, obliqui, ondivaghi, o quant’altro.

Insomma qui la tecnica ci interessa nella misura in cui si aliena da sé. Per quanto si impasta di umanità, propriamente parlando.

Rocca di Mezzo (AQ), agosto 2015. Elaborazione automatica di Google Photos.
Rocca di Mezzo (AQ), agosto 2015. Elaborazione automatica di Google Photos. Qui lo scatto originale.

Orbene, fatte le doverose premesse, posso finalmente tracciare a sommi capi la mia storia. Quando passai da Android a iOS, appunto nel gennaio del 2013 (appena poco più di due anni e mezzo fa) le cose sono cambiate molto. Moltissimo.

D’altra, parte due anni e mezzo — informaticamente parlando — è una tonnellata di tempo.

Dunque cosa mi attraeva di iOS, tanto da sobbarcarmi un pesante acquisto rateale spalmato su un periodo smodatamente lungo? Intanto, l’omogeneità delle applicazioni. Proprio quello. iOS sembrava potermi offrire un approdo definitivo per quanto riguarda la gestione dei media. Foto, musica, video. Per ogni cosa c’è un posto e — si suppone — ogni cosa è attrezzata in modo da dialogare con le altre, se serve. Un ambiente fluido, omogeneo e coerente. Diciamolo, un ecosistema.

Di converso, nel mondo Android — parliamo appunto dell’inizio 2013 — c’erano certo un bel mucchio di applicazioni per fare tutto. Ma era un mondo frammentario e frammentato. Miriadi di applicazioni ognuna con una sua logica. Mancava qualcosa di unificante. Mancava una visione.

Tante cose sono cambiate. Su tutte, Google è andata avanti nell’ottica di offrire una controparte valida e credibile ai diversi servizi iOS. E devo dire che c’è riuscita abbastanza. A volte, potrebbero dire taluni, meglio di Apple.

Iniziamo dalle note (dolenti e non). Google Music, ti permette di caricare TUTTA la tua collezione musicale online, senza pagare nulla. iTunes te lo fa fare solo con abbonamento Music Match. Su ogni dispositivo, decidi cosa tenere offline e cosa no, in maniera semplice e trasparente. Ci sono anche playlist automatiche più o meno azzeccate, se hai voglia di sentire qualcosa puoi lasciar fare a lui. iTunes è certo enormemente flessibile ma un po’ caotico, a mio avviso. Inoltre la rincorsa al minimalismo gli ha fatto abbandonare cose splendide, gioielli di arte grafica come il cover flow delle copertine. Così levando levando, ad un certo punto non capisci perché stai usando iTunes e non un qualsiasi altro programma.

Google Foto, ancora giovane ma molto promettente, ti fa caricare tutte le foto sula tua area privata, accessibili da ogni dispositivo (Android e iOS). A dire la verità, Google Foto ha anche addosso quel po’ di intelligenza artificiale che gli consente di farti sorprese a volte anche azzeccate, e sopratutto squisitamente automatiche. Collage di foto relative ad un evento, elaborazioni artistiche di foto che gli hai sottoposto (senza chiedere nulla, l’ha deciso lui), e cose così. Ogni tanto te ne propone una, ti raggiunge una notifica del tipo vedi cosa ho disegnato? Se ti piace, l’aggiungi alla collezione. Se non ti piace, la butti via (non si offende, dopo un po’ te ne propone un’altra).

Inoltre, cavar via una foto da Google (nel senso proprio di scaricare il file) è — non so se avete notato — immensamente più facile che dalle app fotografiche di default della mela morsicata.

Particolari, se volete.

Sia pure.

Però alla fine mi accorgo che sto usando — ecco il punto — una bella porzione di software portato su iOS e sviluppato innanzitutto per Android. Così stando le cose, è lo stesso fattore che mi ha portato a scegliere iPhone (ovvero, il software) a cominciare a suggerirmi di guardare altrove. Anche in considerazione del fatto che per portarti a casa un iPhone 6 devi alleggerire il tuo portafoglio di cifre non proprio irrilevanti (…), laddove nel mondo Android trovi esemplari interessanti a cifre sensibilmente inferiori (devo dire che sto un po’ invidiando un Huawei g7, ultima acquisizione del parco tecnologico di famiglia — ma non mio).

Ci sono una serie di altri fatti, ma andremmo per le lunghe. Sono cose magari non propriamente tecniche, o perlomeno non soltanto. Cose che riguardano l’estetica, l’esperienza d’uso.

Accenno solo.

Sono entrato in iOS con la versione sei. Aveva innegabilmente spinose mancanze (accensione o spegnimento rapido del wireless? impossibile…) ma graficamente — fatemelo dire — era un capolavoro assoluto. ll suo paradigma di emulare gli oggetti del mondo reale era stato portato ad un grado di sopraffina perfezione: per dire, un libro sembrava un libro sul serio, con ombreggiatura della parte centrale delle pagine… era uno spettacolo. Una festa per l’occhio. Per giunta senza nessuna valida controparte in altri software. Perfino il blocco note, con i suoi “fogli” giallini a righe nere, sembrava un vero blocco note. Ti faceva piacere scriverci dentro, perfino cose come “passare a prendere il latte”.

Incomparabilmente più bello dei software che giravano sul robottino verde.

Dopodiché, lo sappiamo come è andata.

Qualcuno dentro Apple ha partorito la genialata (come altro definirla?), “ma basta con questa emulazione degli oggetti del mondo reale, il software ormai ha una dignità propria”. Sai quelle pensate tipicamente notturne che ti viene da commentare, invece se dormivi (diciamo) magari era meglio? Così è arrivato iOS versione 7 con le sue iconcine versione “seconda elementare” (con tutto il rispetto per i ragazzi di seconda). Piatte, semplici, sovrabbondanti nell’essenzialità. Le sfumature, le ombre, i gradienti…? Via, tutto sparito. E le app? Uguale (purtroppo). Aprire un testo su iBook era diventato come aprire un testo su un qualsiasi altro software. Colore pagina piatto, niente sfumature, niente effetto libro, niente di niente. Anche qui, ti scappa da dire, ma perché allora uso iBook?

Certo, dopo qualche oscillazione, sono anche riuscito a farmelo piacere. Ma non è uno stato stabile, mi sono accorto che facilmente decado nel rimpianto dei tempi (e degli stili grafici) andati. Che volete, sarà anche l’età.

Sarà anche il desiderio di novità, la voglia di cambiare. D’accordo.

Ma se iOS mi vuole ancora con sé, ora avrà da lottare duro. Certo, non nego che mosse estreme (tipo, ricevere in regalo da Tim Cook in persona di un iPhone 6 come incoraggiamento e premio fedeltà) potrebbero aiutare. Sarò pessimista, ma le reputo alquanto improbabili.

Vedremo.

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