Gionatan Squillace
Segnale Rumore
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6 min readJan 22, 2017

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The Last Of Us

Perché i Gamers puristi non si sentono a loro agio nell’era delle ESPERIENZE VIDEOLUDICHE 🎮

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Lì giocavi, punto. Non eri condizionato da fonti esterne come film, telefilm o menate varie. Eri negli anni 90. Quelli del gioco puro.”

C’è un nesso incontrovertibile tra queste parole che un mite ragazzo occhialuto e con un paio di Tiger bianche-sporco dell’erba dei boschi di Stranger Things mi ha detto con una punta di orgoglio nostalgico qualche giorno fa.

C’è un nesso inestricabile tra queste parole e i funghi steroidei di Super Mario Bros, le piste pulitissime da fare invidia al comune di Bolzano di Daytona e i polsi sovrannaturalmente tesi dell’evaso del primo Wolfestein 3D.

In principio era Sega Megadrive. Con quel suo font cosi coatto da sembrare l’alettone metallizzato di una macchina di truzzoni (truzzoni anni 90 ovviamente). E in principio era pure il Super Nintendo. Con quella goletta sul dorso dove quando sentivi l’incastro dei circuiti eri un uomo realizzato, pronto a impugnare un joystick e partire in 2D verso una nuova avventura.

Questo è ciò che ho percepito al suono fonetico di ogni sillaba di questo mio amico apparentemente nerd e pieno di magliette da college americano che si possono trovare ancora da Oviesse. Tutt’attorno, camerette con tapparella abbassata e sudore di ascelle, musica in 8bit ossessiva e la pastosità degli Oro Saiwa deflagrati nel latte.

Una forma di disgusto prende il sopravvento verso tutti i meccanismi di innovazione in campo videoludico. La purezza dei giochi dei ‘90 ha lasciato spazio a fighetterie varie. Trame e sottotrame. Alcune fin troppo elaborate. Troppa sperimentazione e troppa ricerca di qualcosa alternativo. Questo il suo parere.

Non sono mai stato un nerdone e nemmeno un gamer. Ma questo non toglie che sono dannatamente curioso verso qualsiasi forma di espressione. E il gioco nelle sue infinite sfaccetatture ne fa parte appieno. E come ogni forma espressiva, anche il “game” muta, si evolve e cambia percorso, imboccando nuovi sentieri, battendo nuovi tragitti e usando nuovi strumenti per poter creare feedback nel mondo attorno a sè.

Cosa è cambiato allora in questo universo da un decennio pressappoco? Sostanzialmente è cambiato il concetto di gioco.

Partiamo per gradi. Giusto per contestualizzare.

Viviamo in un momento artistico che definirei Crossover. Questo perché non credo esista più la possibilità di etichettare un genere musicale, un film, un telefilm o addirittura un gioco. È sempre più labile il confine tra essi tutti. Il caso più eclatante lo rappresenta a mio avviso, l’evoluzione che ha fatto la televisione. Negli ultimi anni sono state prodotte delle serie da competere col cinema in tutto e per tutto per quanto riguarda originalità della trama (Lost) profonda caratterizzazione dei personaggi (True Detective) e versatilità di registro narrativo (Black Mirror). La serie televisiva non è più subalterna al cinema ma a volte arriva ad essere qualitativamente migliore dello stesso. Attinge a piene mani dalla settima arte e dimostra di saperne abbastanza. E negli ultimi anni forse è stato il cinema stesso a imparare dalle seasons televisive.

I generi stessi si sono evoluti. Non esiste più il classicismo nel cinema. Non esiste più la commedia e il drammatico e il resto. Esiste la dramedy. Esiste il film che parte con un registro e cambia improvvisamente quando meno te l’aspetti (10 Cloverfield Lane). Tutto questo è puro crossover.

Nulla di tutto ciò che sto scrivendo vi è nuovo, certo. Ho solo aggiunto qualche riflessione personale ma alla fine nulla di cui ignoravate l’esistenza.

La cosa curiosa è ad ogni modo la totale desolazione di una discreta branca di guys cresciuti a fine ‘80 inizio ‘90 che si sente disadattata all’innovazione profonda che l’esperienza videoludica sta vivendo. Giochi debitori sempre più al cinema e alla fiction per la struttura complessa delle trame come il bellissimo Heavy Rain, dove i profili dei personaggi sono molto elaborati. Opere di giocabilità volte alla scenografia e alla spettacolarizzazione come la piccola pietra miliare della Nauthy Dog, The Last Of Us, vero e proprio film d’azione post-apocalittico senza negare i sentimenti dei personaggi.

Piccoli sottofiloni come il cosiddetto thriller ambientale, dove ci si muove in un contesto di totale assenza umana in cui bisogna interagire con gli oggetti e gli ambienti per portare avanti la storia, trovare il bandolo della matassa di enigmi e misteri. Gone Home ed Everybody’s gone to the rapture a mio avviso ne sono un’ottima rappresentanza.

Heavy Rain

E non trascurando anche l’universo indie della produzione videoludica. Ok, verissimo. Oramai la parola indie vuol dire tutto e niente in qualsiasi contesto. Anzi, si usa per «modaiolanizzare» certe cose. Ma in questo caso la connotazione che voglio dare è di un videogioco prodotto da uno studio piccolo e con pochi mezzi e magari promosso seguendo il passaparola su internet o con due lire.

Un esempio originale e imperdibile è The Stanley Parable, gioco a finali alternativi dove il paradosso è che tu, protagonista, dovrai fare esattamente l’opposto di ciò che ti dice di fare la voce fuori campo di un ipotetico narratore, arrivando persino a fargli perdere le staffe.

Insomma il videogioco non è più un insieme di livelli contenuti all’interno di una cartuccia o un Cd-rom con contenuti minimalisti. E forse è anche cambiato l’approccio di giocabilità. Un tempo tutto era in funzione del giocante. Lui stabiliva le regole della partita. Adesso molti giochi permettono solo poche mosse al giocante, continuando la narrazione come fosse una puntata di Netflix. Si guardi per esempio il gioco Virginia, dove il giocatore interagisce con pochi comandi, passivo alla storia che procede.

E il ragazzo con la maglia di Mega man, la passione per il wrestling ed i Goonies, la paga precaria e i 30-e-passa anni sul groppone? Beh, dipende da quale angolazione vedrà questo cambiamento di prospettiva dell’industria del gioco, ma sarà dura dal momento che vige nel suo DNA una sola, rigida regola. Nostalgia ai moduli tradizionali del gioco. Quel gioco dove tu tiravi le somme di tutto e procedevi senza cadere in trame e sottotrame, senza eccessiva definizione del tuo personaggio (a volte nessuna, manco lo si vedeva in viso), senza chissà quali stravolgimenti.

Magari solo un percorso. E via. Eri il re del livello, il padrone dei tuoi movimenti. Ti godevi il momento.

Non è facile trovarsi a spaziare da una cartuccia di vent’anni fa ad un cd alta definizione per PS4 come se niente fosse. C’è un gap per chi ha vissuto splendidi anni in cui il gioco era purezza e niente contaminazione. Eppure, nessuno ha colpe. Nessuno può dire che si stava meglio con i non giocanti al loro posto piuttosto che continuamente attivi nella storia. È questione di decorso del tempo e sempre più parentela tra le arti. È questione di continua crescita e progressione tecnologica. È questione di voglia di complicarsi la vita anche nelle trame digitali. È questione che la questione è: siamo una razza veramente strana. E se non cambiano le cose repentinamente ci stufiamo. Ci lamentiamo. Eppure siamo gli stessi che ci lamentiamo perchè le cose cambiano repentinamente.

Tanto tutti noi arriveremo ad un momento della nostra vita in cui non faremo altro che inneggiare alla nostra generazione o a quello che abbiamo vissuto come se l’indomani non avesse nulla da proporre. Ed è lì che cominceremo ad invecchiare. Definendo la dance anni ‘90 la migliore dance mai prodotta, Mad Max la migliore trilogia cinematografica e Crash Bandicoot il miglior platform-game mai sviluppato.

Tutto il resto sarà noia. A parte Inside. Quel gioco mette ancora tutti d’accordo.

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Gionatan Squillace
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Le mie ossessioni compulsive sono la pellicola di celluloide, la buona tavola e la carta su cui sputarci scaracchi d'inchiostro. Per il resto esiste il Prozac+