John Fante — Aspetta primavera, Bandini

La naturalità della bestemmia come esigenza narrativa

Emanuele Secco
Sekken’s Digest
2 min readApr 8, 2018

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Avanzava, scalciando la neve profonda. Era un uomo disgustato. Si chiamava Svevo Bandini e abitava in quella strada, tre isolati piú avanti. Aveva freddo, e le scarpe sfondate. Quella mattina le aveva rattoppate con dei pezzi di cartone di una scatola di pasta. Pasta che non era stata pagata. Ci aveva pensato proprio mentre infilava il cartone nelle scarpe.
(p. 5)

La miseria, quella senza scampo. Questo è Aspetta primavera Bandini. Un libro che sa di povertà, di disperazione. Ogni pagina profuma di sudore acido, versato dalla schiena piegata dal peso della fatica e delle preoccupazioni quotidiane che una famiglia di immigrati italiani subisce a un passo dalla Grande Depressione americana.
Parola dopo parola trovano luogo l’invidia per la ricchezza, il disprezzo per le proprie origini, il sogno di un futuro migliore, l’emarginazione etnica autoinflitta.

Dio cane, Dio cane. Così diceva Svevo Bandini rivolto alla neve. Perché quella sera Svevo aveva perso dieci dollari a poker all’Imperial Poolhall? Era così povero, con tre figli a carico, e non aveva neppure pagato la pasta, per non parlare della casa che ospitava figli e pasta. Dio è un cane.
(p. 6)

Non sorprende, quindi, che un contesto simile porti alla bestemmia. Imprecazione che dona verosimiltà a quanto scritto. Un piccolo simulacro grazie al quale il lettore, tra una bracciata e l’altra, si perde nel mare della miseria umana, provando la vera pietà.

Caro lettore, sei di fronte al caso in cui la bestemmia, dedicata com’è alla funzione narrativa, insieme perde e acquista significato. Lo perde in quanto mero mezzo descrittivo, ma ne acquista in termini di sensazioni.
Perché non c’è niente di meglio quando si dona veridicità massima alla propria scrittura.
Una lezione niente male. Grazie, John.

E.

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Emanuele Secco
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