2. Teresa

Metilparaben
Sense: il romanzo
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4 min readDec 27, 2015

«Ventuno? Come sarebbe a dire, ventuno? E adesso dov’è, quella pazza?»
Erano le otto del mattino. L’ingegner Braschi era in piedi davanti al letto, in mutande, e guardava la moglie dall’alto del suo metro e sessantadue.
«Ma che ne so, io mi sono svegliata cinque minuti fa e ho trovato un messaggio, non so altro». La signora Braschi era ancora a letto, avvolta nelle coperte. Dall’ammasso emergevano solo un ciuffo di capelli tinti di biondo, il braccio destro, la relativa mano e un morphone che agitava qua e là alla cieca, a mo’ di prova documentale dell’accaduto.
«Cristo di un dio, diciottomila euro. Diciottomila, ne ho spesi, per l’app di diritto internazionale. E lei che fa? Prende ventuno, la stronza! Che ha nostra figlia che non va, me lo spieghi tu?»
Braschi aveva un corpicino secco e rugoso, con tutte le giunture in rilievo come nodi nel ramo di un albero. Tanto grottesco pareva in quel momento, quanto era autorevole e temuto nel ruolo di leader dell’azienda di costruzioni edilizie che guidava con successo da trent’anni. L’azienda che era stata di suo nonno, poi di suo padre e infine sua. L’azienda che di lì a qualche anno avrebbe avuto come unica erede “quella pazza”.
«Te l’ha detto mille volte che ha, Fausto. Ha che non la vuole, quella roba nella testa. Voleva studiare altro e voleva studiare normalmente».
La mole della signora Braschi uscì dalle coperte in tutta la sua imponenza burrosa, la permanente arruffata e un’espressione a metà tra noia e nausea dipinta sul viso. Anche ieri sera ci ha dato dentro di brutto col gin, pensò l’ingegnere guardandola. La trovava ripugnante.
«Normalmente? Normalmente? Ma che cazzo vuol dire “normalmente”? Siamo nel 2036, mannaggia alla morte, la normalità…»
«…è funzione dell’epoca in cui si vive, grazie tante per la solita lezione di relativismo. Gesù, questa scena l’ho già vista venti volte, per carità non riattaccare…»
«Brava Flaminia, difendila pure. Intanto io pago. E le figure di merda al circolo le faccio io, che sono rimasto l’unico con una figlia che studia ancora come i morti di fame. E sono io che mi sveglio di notte pensando al disastro che succederà quando non ci sarò più e non mi riaddormento. Ma giuro che stavolta le cambio i codici, le cambio, e non glieli do più quantèveriddio».
«Ommadonnasanta, di nuovo… Non puoi, lo sai che non puoi. È maggiorenne…»
«E io me ne frego, hai capito? Non avrò diritto, come padre…»
«…e comunque anche se non le vendesse, le app, potrebbe andare a fare gli esami e sbagliare apposta le risposte…»
«Ahhhhh ecco, vedi che la verità viene sempre fuori? Allora lo sapevi! L’ha fatto di nuovo, eh? Pure questa, si è venduta?»
«Santiddio, no che non lo so, Fausto. Può essere. Del resto dal momento dell’installazione…»
«…sono legalmente sue. Lo so, grazie tante. Non c’è bisogno che tu me lo ripeta ogni volta».
Braschi si sedette sul bordo del letto. Era paonazzo. Cercò di prendere fiato spingendo in fuori lo sterno affilato e sporgente che pareva la chiglia di una canoa. La scenetta si ripeteva più o meno uguale da tre anni, cioè da quando la figlia aveva iniziato l’università, salvo alcune varianti: tra le quali fu notevole la volta in cui nell’acme dell’ira scivolò sul tappetino del bagno, batté la testa sul lavandino e gli dovettero dare quattro punti di sutura. Quando gli parve di essersi calmato si girò di nuovo verso la moglie.
«Ti prego, parlaci tu».
«No, guarda, te lo scordi. Ci ho parlato non so quante volte. Non vuole saperne. E sai cosa?»
«Eh».
«Per come la vedo io non ha manco tutti i torti».
Braschi rimase in silenzio. La fissò per qualche secondo. Quando aprì bocca le parole gli uscirono lievi, quasi in un sussurro: «Sei una vecchia troia obesa e alcolizzata».
Poi si voltò e uscì lentamente dalla stanza.

Teresa era sola, seduta su un muretto del gianicolo. Guardava Roma tenendo in mano il bicchierino di plastica dell’ultimo caffè. Il cielo ancora brumoso, le macchine come puntini colorati, qua e là i cantieri aperti della metro D. Non dormiva da tre notti. Era l’effetto collaterale più fastidioso del “metti e leva”, come si diceva in gergo: le disinstallazioni ripetute nel tempo producevano un’insonnia endemica, e quella di tre giorni prima le aveva lasciato degli strascichi particolarmente ostinati. Tirò fuori dallo zainetto il morphone, se lo portò vicino al viso, biascicò “bitcoin, saldo”, diede un’occhiata veloce al display.
Il pagamento era arrivato. Ora c’erano da fare i soliti giri per passare i tremila euro sul secondo wallet e farli arrivare all’organizzazione attraverso Sergio.
Sorrise. Il vento fresco le passava tra i capelli neri tagliati a spazzola, placando il dolore sordo che le pulsava nelle tempie.
Si sentiva stremata. E pulita.

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