Le Rose di Rose

Marco Rinaldi
Short Stories from Southern Europe
23 min readJan 30, 2014

--

Ci sono cose che cambiano e altre che devono restare uguali.
La terra doveva essere innaffiata due volte al giorno. Una la mattina, una la sera. Però mai troppa acqua né troppo sole né i cani del vicino nei dintorni. Era importante anche spruzzare ogni tanto uno di quei spray anti parassiti.
Rose tutto questo lo sapeva molto bene.
Viveva in una villetta di mattoni rossi che prima era appartenuta ai genitori e prima ancora ai nonni. Aveva passato tutta la vita in quella cittadina lavorando con il padre nei campi, consultando gli album di famiglia la domenica e ricamando. Era tutto quello che voleva dalla vita. E’ forse un reato non ambire alla segreteria del Partito? Rose credeva di no.
La casa era esattamente come ai tempi dei suoi nonni. Identica. A Rose piaceva questa sensazione di immutabilità, le piaceva illudersi con le abitudini e faceva di tutto per riuscirci.
Chi erano gli altri per impedirglielo.
Suo marito era l’unico elemento di novità, di divergenza dalla routine familiare, che si era concesso. L’aveva amato, ma sempre in un modo parallelo alla famiglia. Non gli aveva mai scritto una poesia né detto che era la persona più importante della sua vita semplicemente perché non era vero. Lui era importante, anche molto, ma non più dei suoi familiari tutti, che non riusciva a distinguere. Ne parlava come si parla delle neve o degli eserciti, senza distinguere tra i singoli fiocchi e i vari soldati perché era inutile.
Ad ogni modo, suo marito era morto sei anni fa. Faceva l’esattore delle imposte. Un giorno aveva bussato alla porta di un creditore e in tutta risposta aveva ricevuto due fucilate da dietro la porta.
Era finito così il matrimonio di Rose. Da quel momento aveva deciso di non uscire più di casa. Iniziava ad aver paura della gente e, seppur non sono certo che tutti nel mondo siano così folli da sparare a qualcuno da dietro la porta di casa anche se quel qualcuno fosse l’esattore delle imposte, non le si poteva dar completamente torto. Dal supermarket le portavano la spesa a domicilio, nipoti e amiche passavano a salutarla e fare quattro chiacchiere . le seconde più dei primi, come è nell’ordine naturale dell’universo) e il suo amato televisore a tratti riusciva a regalarle sinceri momenti di svago e distrazione con storie di arteriosclerotiche vecchiette che risolvono intricati casi di omicidio.
Un pomeriggio un giovane venditore di aspirapolveri aveva bussato alla porta di Rose. Era di quella marca tedesca bianca e verde che pare abbia suonato alle porte di ogni casa del pianeta. Più dei Testimoni. Dopo aver realizzato di non conoscerlo, Rose aveva iniziato a urlargli contro e, un attimo dopo, aveva lanciato dalla finestra una fiala scacciaestranei di quelle dal sapore nauseabondo che i bambini lanciano nei corridoi delle scuole. Era una guerra, quella contro gli estranei, e Rose si difendeva con tutti i mezzi.
Eh si, era una guerra. Una di quelle guerre interiori che non sai quando esattamente sono iniziate e quando finiranno. Non lo sa nessuno, tranne Rose perché lei sapeva che da quando suo marito era morto la solitudine aveva preso il suo posto. E Rose materializzava i pensieri d’amore per il marito morto elaborando nuovi e sempre più complessi sistemi di autodifesa da questo mondo estraneo che colpisce e stordisce.
E poi c’erano le rose.
Rose si alzava sempre molto presto. Lucidava il pavimento, poi prendeva l’Agenda Erre ed andava di corsa nel giardino dalle sue rose. Tutte emanavano una luce più o meno forte. Scintillii fluorescenti fuoriuscivano dai petali e partivano in ogni direzione in una casualità simile al caos del mondo di fuori, quello che Rose disprezzava sempre. Alcune rose, ad ogni modo, erano così fluorescenti che l’Agenda Erre suggeriva di ricorrere a determinate misure di sicurezza per non rimediare danni agli occhi. Così Rose ogni volta che entrava in giardino indossava, oltre al solito paio guanti da giardiniere, dei vecchi occhiali da saldatore di suo marito.
Non c’era molta manutenzione da fare alle rose, ma solo piccoli accorgimenti che le avevano insegnato i suoi avi, che a loro volta l’avevano appreso dai loro parenti fino ad arrivare all’antenato 0, che aveva appreso tutto dall’Agenda Erre.
Queste rose, dunque, crescevano e prosperavano da decenni interi. Alcune di esse pare che avessero quasi un secolo. Al riguardo, Rose era sempre stata educata a non porsi domande sulla loro natura. Doveva eseguire le indicazioni dell’Agenda Erre e far prosperare e crescere le Rose fino a quando non era scritto che dovessero morire. Nient’altro.
Ce n’erano alcune che brillavano fortissimo e poi si spegnevano d’un colpo come i tentati colpi di stato in nord africa. Altre brillavano da un tempo che Rose nemmeno ricordava. La cosa che più dava alla testa era il numero. Erano tantissime. Rose ne era soddisfatta.
Poche settimane fa, mentre dormiva, venne svegliata da un calore improvviso e fortissimo. Pensando a un incendio, si era precipitata in giardino e, nonostante gli occhiali, aveva subito avvertito un forte bruciore agli occhi e uno stupore ancora maggiore. Era accaduto ancora una volta. Era spuntata un’altra rosa.
Solo che questa volta la rosa era enorme, ed era bianca. era alta un paio di metri ed emanava una luce fortissima, che Rose nemmeno si azzardava a guardare direttamente. Era la prima rosa bianca mai spuntata nel suo giardino.
Era corsa nel baule a prendere l’Agenda Erre per annotarci la data.

Il 18 settembre 2013.

***
Il presidente iracheno, in effetti, era un bel farabutto. Ma quello russo lo era di più. Il ritrovamento delle due spie USA a Mosca poi aveva fatto letteralmente esplodere la situazione. Bei coglioni, questi americani. Non sapevano più fare le cose come ai bei tempi. Un tempo facevano fuori i presidenti in Sud America in scioltezza. Oggi si fanno beccare come pivelli dietro il Cremlino. E, cosa ancor più importante, a momenti fanno scoppiare la Terza Guerra Mondiale.
Eh si, perché accadeva che lo scorso 18 settembre un impavido addetto alla sicurezza di sua maestà Vladimir Putin non aveva solo scoperto le due spie americane. Le aveva pure uccise. E poi, sapete com’è, Obama-se-n’è-andato-e-non-ritorna-più e i repubblicani sono tornati con le loro croci e le loro armi più feroci che mai. Non è che a loro si possa dire: “Aspetta, aspetta, ragioniamo”. No.
A questo punto gli USA avevano portato le loro truppe in Afghanistan ed era iniziato un conflitto incredibile che, per ora, vedeva escluse solamente le armi nucleari.
C’era un nuovo spirito di guerra nel popolo americano in quel periodo. Era qualcosa che veniva da lontano, dagli anni di crisi nera, dalle case che un giorno valevano 100 e quello dopo 1. Era qualcosa che veniva anche da prima, forse, da quel maledetto undici settembre che da allora tutto era cambiato, tutto si era rivelato un piano inclinato verso un abisso da cui gli americani credevano di potersi rialzare a modo loro, con l’industria bellica che era più o meno tutto quello che restava loro, debiti a parte.
Per queste ragioni il giorno dell’invasione americana in Afghanistan l’intera opinione pubblica statunitense appoggiava la decisione di entrare in guerra presa dall’amministrazione Sandler.
Sì, Adam Sandler.
Non era il primo attore a diventare Presidente USA, questo lo sanno tutti, ma sottolinearlo sembrava naturale lo stesso. Adesso Sandler diceva che sarebbe stata una guerra lampo, ma molti miei amici non gli credevano. Se lo ricordavano ancora troppo bene in quei film in cui si imbucava ai matrimoni per prenderlo sul serio. E poi, un blitz krieg ai russi guidato da un ex attore Disney suonava improbabile.
In definitiva, c’erano tutti i presupposti per una disfatta. Molti avrebbero voluto andare a rifugiarsi nella Biblioteca del Congresso a piangere sulle pagine antiche, ma anche quello era ormai impossibile: la Biblioteca era stata chiusa tempo fa per mancanza di fondi, il tutto mentre costantemente un gruppo di manifestanti prosegue nel suo improduttivo sin-in in nome della sua riapertura. Dei corvi, quegli animali semoventi che a tratti gracchiavano ma senza riuscire a distrarre le nostre coscienze di consumatori e lavoratori, questo mi ricordavano.
Come è nella tradizione delle cose, l’amministrazione Sandler commise l’errore di credere che la guerra vera e proprio sarebbe durata poco. Era accaduto, invece, che da guerra di movimento si passò ancora una volta al lurido pantano che ogni conflitto regolarmente disegna. I morti erano già migliaia. Migliaia di fantasmi. Migliaia di corvi che di notte andavano a fargli visita, perso com’era nella sua insonnia cronica e disperata senza un copione da mandare a memoria.

***
Rose aveva 94 anni ma era perfettamente lucida ed autosufficiente. Considerato che la casa era in ordine, il frigorifero pieno e il giardino perfettamente curato, poteva dire che le cose per lei andavano alla grande. Era sempre stato quello il suo metro di valutazione: nulla aveva più importanza del rispetto delle tradizioni di famiglia. E, tra queste, c’era una che in realtà un po’ di apprensione gliela metteva: ogni anno le matriarche della sua famiglia realizzavano una coperta di lana. La completavano nella terza settimana di ottobre ed era fatta lì anche per quell’anno.
Adesso invece era ancora in alto mare e mancavano dieci giorni al 20 ottobre. Non avrebbe certo iniziato quest’anno a rompere con le tradizioni di famiglia. Né, tantomeno, avrebbe potuto uscire ed andare in uno dei tanti circoli di ricamo presenti in questo ameno villaggio. Sarebbe stato troppo pericoloso, pensava. Se qualcuno aveva sparato a suo marito solo per aver suonato un campanello qualcosa di ugualmente tragico poteva accadere anche a lei, di nuovo.
Per questo si convinse a chiamare la giovane figlia della vicina di casa. Ogni tanto le aveva portato la spesa a casa e, secondo quanto le raccontavano le amiche del circolo di ricamo, questa ragazza molto silenziosa pareva non facesse altro che lavorare a maglia. Era la sua passione, dicevano le sue amiche più romantiche. Era dislessica, insinuavano le più ciniche, inutili vecchie con l’ossigeno nella borsa a lucidare piante e cotonarsi i capelli.
In ogni caso, dislessia e rapidità nel ricamo erano esattamente le due caratteristiche che Rose stava cercando. A questo pensava mentre fuori dalla finestra, migliaia di chilometri più in là, Snowden e Assange imperversavano sulla deperita sagoma degli Stati Uniti e lei, lei sorrideva a denti stretti al pallido, afono sole gallese, il paese del Drago Rosso in campo verde e bianco.

***
Ho dimenticato di scrivere il nome della ragazza.
La ragazza si chiamava Pilar, ed era attesa per le 4.
Rose non avrebbe tollerato un minuto di ritardo, e non perché abitasse proprio nella casa di fianco, ma perché se avesse voluto avere a che fare con ritardi, incomprensioni, malfunzionamenti, tornate elettorali e carte di credito clonate non si sarebbe segregata in casa per tutto questo tempo. Né si sarebbe dedicata alle rose e a nient’altro, alla loro perfezione triste e appuntita. Non riusciva a capire cosa accadeva di fuori, aveva rinunciato a capirlo dal giorno in cui era rimasta vedova. Da allora tutto ciò che aveva era la sua casa ed il suo giardino, dove vigevano le regole della sua tradizione e nient’altro, in una bellissima e polverosa (e)stasi che nessuno doveva rompere.
Fortunatamente Pilar arrivò puntuale.
Buonasera, Rose.
Che significa Pilar?
Significa Pilastro.
Bene. Iniziamo.
Questo primo scambio di battute aveva fatto capire subito a Pilar la prima regola della casa: non erano qui per fare conversazione. C’erano i pub, in Galles, per quello. Rose le spiegò che questo era un lavoro da finire in fretta. Secondo i suoi calcoli, se Pilar era davvero brava come le dicevano, sarebbero serviti meno di sette giorni. Purtroppo, nonostante fosse una femmina, la ragazza di mattina doveva andare anche a scuola, questa scocciatura da ventesimo secolo che Rose trovava, aveva sempre trovato e sempre troverà inutile.

***
Il Presidente Sandler aveva solo voglia di rassegnare le dimissioni. Ma anche questa ormai era una decisione fuori dalla sua portata, lontana da uno dei possibili bivi che questa crisi poteva imboccare.
Mai come in quei giorni se innescavi una crisi fermarla era impossibile. I computer avevano preso possesso dell’intera vicenda. Tutto si verificava ovunque e nello stesso momento. Internet diffondeva il minimo starnuto sovietico nella più remota soffitta in Nebraska e viceversa, in un circolo di twit e retwit inesorabili, inarrestabili flussi di informazioni che gli americani non potevano più controllare. Viceversa, erano le informazioni a controllare gli americani. L’errore ultimo, al culmine di una escalation di momenti di crisi iniziata con l’uccisione delle due spie americane a Mosca e culminata con le pressioni di popolo, militari e affaristi a mostrare i muscoli al nemico russo, era stato mandare le truppe sul confine kazako. In pochi giorni la situazione era esplosa. Le truppe americane — supportate da Gran Bretagna e Francia — avevano sfondato il confine russo e marciavano claudicanti verso Mosca. Le perdite erano ogni giorno spaventose e pian piano la popolazione iniziava a dimenticare le due spie e a marciare per strada. Cariche della polizia ogni giorno. Feriti. Arrestati. Il Papa e Bono Vox a turno mandavano messaggi di speranza ai loro milioni di fedeli.
Nonostante questi illustri tentativi, l’uso delle armi nucleari non poteva però essere più vicino. In USA tornarono in voga i bunker antiatomici che i ricchi allestivano sotto le cucine delle loro ville. I senzatetto americani andavano a comprarsi un cartone extra di vino da cucina, bando al risparmio, mentre quelli russi puntavano sempre sulla cara, vecchia vodka. Nelle altre parti del mondo si pregava non solo di domenica e al tempo stesso si cercava di fare la vita di sempre, quella vita ridicola e scontata da cui fino all’altro giorno voleva evadere come Clint Eastwood in quel film da Alcatraz ed ora invece era diventata l’unico desiderio dell’intero popolo della Terra.

***
Intanto, in Galles, si ricamava.
Lo facevano in silenzio perché Rose aveva scoperto che tutto quello che si diceva di Pilar era vero. Non parlava molto, anche se le aveva viste quelle occhiate curiose al suo giardino di notte, quando quella sorta di luce al neon entrava dalla finestra di casa fin quasi ai suoi piedi.
Ma Pilar non faceva domande. Non ancora, almeno. E ricamava veloce. La mattina andava a scuola e il pomeriggio veniva subito da Rose e ci rimaneva fino a tardi. Spesso nemmeno passava per casa sua. La ragazza pareva aver preso sul serio il rispetto delle tradizioni di Rose e a lei piaceva molto questo, anche se ovviamente non glielo faceva vedere. Era soddisfatta di quella ragazza, si sorprendeva a pensare Rose mentre lavorava la sua nuova coperta. Provava un certo fastidio, doveva ammetterlo, nel riconoscere in un’agente esterno una qualche funzione positiva per il mantenimento dell’ordine e dello status quo. Solitamente questi esseri umani non erano altro che virus, elementi portatori di disordine e spaesamento, con le loro parole vuote e stupide, i loro discorsi prettamente incentrati sui propri personali bisogni primari e soprattutto quegli slanci generosi verso l’altro che non si spiegava. Questi elementi sembravano assenti nella ragazza, pensava mentre la lana si intrecciava docile e quella strana luce dal giardino entrava gradualmente in cucina e nella coscienza di Pilar.

***
Una sera Pilar aveva lavorato particolarmente bene. Erano a gonfie vele con la coperta, mancava poco ormai. Per premiarla Rose decise che era giunto il momento di mostrarle i prodotti finiti degli anni passati. Seguimi, le aveva detto, per poi condurla in una piccola stanza nel retro del salotto, una di quelle dove di solito la gente ripone gli oggetti usati ma che non riesce ancora a buttare.
Il baule era chiuso con un lucchetto piuttosto grosso, una precauzione che ancora non aveva gli elementi per comprendere a pieno.
Non avvicinarti, te le passo io, disse mentre pian piano le sfilava dal fondo del baule. Erano piccole e colorate: più che coperte sembravano scialli, non di più. Non erano malvagi, ma nemmeno stupendi. Nulla di più anonimo. Era deludente, ed era anche sorprendente che non puzzassero di chiuso, segno che il baule veniva aperto spesso.
Poi lo aveva visto. Sul fondo. Qualcosa di scuro e rettangolare. Un libro, o un’agenda forse, con una R stampata in copertina.
Cos’è quel libro? chiese Pilar quasi all’istante.
NON TI AVVICINARE HO DETTO! Non c’è nessun libro! esclamava Rose con gli occhi spiritati e le guance che iniziavano ad arrossirsi. Torniamo a lavorare piuttosto, aveva aggiunto un attimo dopo, e passando dalla cucina Pilar finalmente poté guardare il giardino illuminato a giorno da quelle strane luci incandescenti. Quei fiori emettevano un fascio di luce così forte che Pilar dovette ripararsi come durante un’eclissi. Era uno spettacolo unico, difficile da raccontare per chiunque, figuriamoci per una dislessica. Meraviglioso e al tempo stesso spaventoso perché del tutto privo di spiegazioni. Pilar non poté far altro che guardare Rose, a bocca aperta, e sentirle dire solo quattro parole:

Sono le mie rose.

***
Pilar non riusciva a resistere.
Per la prima volta nella sua vita ricamava male.
Pensava a quella fluorescenza atomica che proveniva dal giardino della casa di Rose.
A quel libro e alla sua reazione quando le aveva chiesto cosa fosse.
Rose era sempre molto chiara nelle intenzioni e ogni giorno, al termine della seduta di ricamo, illustrava a Pilar il programma del giorno seguente. Il giorno dopo era sabato. Lei sarebbe uscita di scuola alle 12.30 e avrebbe subito raggiunto Rose per ultimare la coperta. Secondo i suoi calcoli avrebbero finito per le 7.30, in tempo per la cena. Poi Rose le avrebbe dato quanto pattuito e lei sarebbe uscita per sempre da quella casa e con essa da quel giardino.
Il calcolo era presto fatto: aveva solo la giornata di domani per capire qualcosa su quello che stava succedendo. Doveva trovare il modo di entrare in quel giardino. L’avrebbe trovato, era certo come certo era che il suo nome significava Pilastro.

***
Sabato 19 ottobre. Ore 18.42.
Del sorriso del Presidente Adam Sandler non erano rimaste che sbiadite evidenze su celluloide e su qualche Blockbuster scontato a 2 euro nei reparti audiovideo dei centri commerciali.
Le proteste ormai si erano calmate. Non era più tempo di protestare, non c’era abbastanza vita in giro. Pareva che tutti avessero di meglio da fare e così era. Gli americani morivano nell’inverno russo e da un momento all’altro avrebbe potuto innescarsi l’escalation nucleare. Inutili erano gli appelli di ogni sorta di autorità religiosa, sovranazionale o quant’altro. Era ormai chiaro che nemmeno Sandler potesse più farci niente. Si era infilato in una situazione ingarbugliata come in quelle pessime commedie degli equivoci che interpretava, solo che qui non c’era da relazionarsi con diciottenni ninfomani e telecomandi magici. Qui c’erano i russi.
Il Presidente era sempre lo stesso. Vladimir Putin. Tre giorni prima aveva inviato un ultimatum agli americani. Avevano tempo fino alle 23.59 di sabato 19 ottobre per ritirare le truppe dal territorio russo e interrompere quel bagno di sangue. Scoccata la mezzanotte, il Presidente Putin aveva assicurato che avrebbe fatto partire “terribili misure di autodifesa”.
Questa mossa aveva messo il Presidente Sandler in un vicolo cieco. Ritirarsi ora sarebbe stata una disfatta colossale, e persino lui aveva capito che non ci si poteva fidare molto di un normale Vladimir Putin in versione domestica, figuriamoci quando qualche settimana prima hai sfondato il confine kazako e sei entrato in casa sua. Per questo il presidente Sandler piangeva, terrorizzato all’idea di una distruzione di massa sul suolo americano, all’idea di poter essere ricordato come l’Ultimo Presidente Americano. Lui stesso riconosceva che iniziare con George Washington e finire con Adam Sandler non fosse propriamente un percorso virtuoso. Ma d’altronde una sera il subcomandante Marcos in una skype call durante la sua campagna elettorale glielo aveva ricordato: Sandler, la storia non è necessariamente un processo ascendente e il regresso è dietro l’angolo se si smette di lottare.
Adesso che l’angolo era bello che svoltato, il comico Sandler piangeva seduto nella scrivania di legno pregiato dello Studio Ovale mentre gli operai rimuovevano con cura le preziose tele, i mobili e i cimeli tutti per trasferirli nel bunker antiatomico. Qualche secondo dopo era risuonata l’ultima frase mai pronunciata nello Studio Ovale. Era di Jim, l’operaio, e diceva più o meno così:
Signor Presidente, mi scusi. Dobbiamo portare di sotto la scrivania.

***
Alle 12,45 di sabato 19 ottobre Pilar entrava in casa di Rose.
Buongiorno, Rose. Oggi è il giorno.
Vedremo. Iniziamo subito a lavorare.
Pilar si accorse subito dei suoi occhi. Erano completamente iniettati di sangue. Cosa hai fatto agli occhi, le chiese.
Solo un po’ di freddo, sto bene.
Ma stava male davvero. Passava ore a fissare quella enorme rosa bianca, troppo grande, troppo luminosa per gli occhiali antidiluviani che usava di solito. Doveva essersi lesionato qualcosa sul fondo dell’occhio. Lacrimava in continuazione. Ma intanto erano le 14 e nessun altro giorno per completare la tradizione di famiglia. Avrebbe stretto i denti, si diceva mentre a fatica riuscire a mettere a fuoco le semplici trame di una vecchia coperta di lana, percorsi ben più comprensibili di ogni umana relazione sociale.
All’incirca verso le 17 la coperta era ormai ultimata, mancavano solo gli ultimi accorgimenti quando Rose iniziò a non vederci più con l’occhio sinistro. Si alzò di scatto barcollando e questa volta non rifiutò affatto l’aiuto di Pilar. Accompagnami a letto e portami la borsa del ghiaccio, per favore. Devo riposare gli occhi per un po’. Riesci a finire da sola la coperta? Manca poco.
Certo, non si preoccupi, aveva risposto Rose tutt’altro che malvolentieri.
Aveva la sua occasione.

***
Pilar era una fatalista.
Credeva che certe cose se accadono in un certo modo è perché così devono accadere. Ed ora Rose era a letto, fuori combattimento, mentre in giardino era arrivato il buio e un mucchio di assurdi fiori brillavano senza che lei ne capisse la natura. Poteva vedere dall’altra camera le luci delle rose di Rose come quando vedeva la luce del televisore superare la cucina ed entrare nel corridoio di casa sua. Come quando sentiva piangere la madre nell’altra stanza per la sua solitudine e lei entrava sempre abbracciandola e la madre si avventurava in fantasiose ipotesi su come lasciare quel pantano in cui erano sprofondate. Queste rose, ne era attratta e al tempo stesso sapeva dentro di sé qualcosa sulla loro natura maligna, ne era sicura come era sicura come sicura era che il suo nome significava Pilastro.
Il libro di Rose era presente e con la lettera R dorata come le era parso di vedere l’altro giorno.
Pilar lo prese e lo aprì.
Sulla prima pagina c’era la foto di una donna. Volto severo e affaticato, testa alta, vestito nero. Doveva essere qualche antenata di Rose. Le somigliava.
Sotto era scritto: Registro.
C’erano un mucchio di date scritte una dopo l’altra, quasi tutte con piccole annotazioni a margine.

6 novembre 1917
17 luglio 1936 ———- 1 aprile 1939
7 luglio 1937 ———— 2 settembre 1945
1 settembre 1939 ———-30 aprile 1945
1 novembre 1953 ———- 19 marzo 1962
1 gennaio 1960 ———— 30 aprile 1975
2 agosto 1990 ———— 28 febbraio 1991
6 aprile 1994 ———— 30 luglio 1994
6 luglio 1995 ——— 25 luglio 1995
26 agosto 1999 — 16 aprile 2009
11 settembre 2001
20 marzo 2003 ——- 15 dicembre 2011
15 marzo 2011

Queste erano solo alcune delle date presenti nel Registro. Ce n’erano anche di molto antiche. Andavano lontano nei secoli passati. Ad ogni data era associato un disegno e, per le date più recenti, la foto di una rosa. Alcune rose avevano segnata la data in cui erano comparse e quella in cui erano state recise. Altre avevano solo la data di nascita.
Pilar non capiva, anche se alcune di queste date più recenti le conosceva, le conoscevano tutti.
Iniziò a pensare. Se lo ricordava, l’11 settembre. Ricordava l’invasione dell’Iraq del 2003, proprio il giorno del suo compleanno. La voce 1 settembre 1939 e tutto quello che era accaduto dopo. Il giorno della morte di Hitler. A margine era scritto, in elegante calligrafia: tagliata il 30.04.1045.
Sembrava ci fosse solo una spiegazione. Quello che si andava prefigurando sembrava tutto terribile, tutto così spaventosamente impossibile ma lei sapeva che era così. Per sicurezza prese il suo smartphone e controllò qualche altra data tra quelle presenti nel Registro.
Rwanda. Cecenia. Algeri. Belfast. Beslàn. Ogni singola data confermava la sua terribile paura.
Ad ogni rosa spuntata in questo giardino corrispondeva l’inizio di un’era di sofferenza per gli abitanti di una precisa zona del mondo. Poi, ad un certo punto, il conflitto terminava e la rosa moriva, oppure viceversa. Non poteva essere certa di nulla. Aveva di fronte una sorta di giardino di dolori e sofferenze, questa era l’unica cosa che sembrava sicura.
D’un tratto si ricordò della crisi tra americani e russi di queste settimane ed iniziò a girarle la testa. Spalancò la bocca e abbassò lo sguardo, scorrendo l’elenco terrorizzata sperando di non trovare quello che sapeva ci sarebbe stato:
Mosca, 12/10/2013

E di fianco, naturalmente, la foto della Rosa Bianca, fluorescente come i neon dei grandi supermercati di Cardiff.

***
Pilar aveva naturalmente paura. Ma, al tempo stesso, nella sua breve vita aveva sempre dovuto rendere onore al significato del nome che portava. Resistere all’indifferenza del padre e ai dolori materni, a questa sensazione di far parte della Grande Famiglia dei Loser che già la dominava nonostante la sua giovane età. C’era un intero universo dentro Pilar, un universo di oblio a cui credeva di doversi abituare fin da subito. Ma ora credeva di poter fare qualcosa di straordinario per il mondo intero.
Per questa ragione prese le cesoie, indossò gli antiquati occhiali di Rose e uscì in giardino con il Registro in mano.
Mentre avanzava, Pilar faceva attenzione a non guardare la grande rosa bianca. Teneva gli occhi bassi e leggeva il Registro mentre iniziava ad associare ad ogni rosa un preciso bagno di sangue in una precisa area del mondo. Le avrebbe tagliate tutte. Ma sentiva che doveva prima pensare alla Grande Rosa Bianca. La rosa più alta e luminosa. La Rosa della Terza Guerra Mondiale.

***
Rose aveva iniziato a battere le anziane palpebre e muoversi dopo, all’incirca, un’ora abbondante dal suo malore. Ora ci vedeva di nuovo, ma sentiva l’occhio pulsare ritmicamente. Si sentiva come se qualcuno stesse cercando di piantarle un chiodo nell’occhio
I suoi primi due pensieri non appena sveglia furono:
Ma dov’è Pilar?
Il cassettone è aperto.
Mentre si precipitava a rovistare tra le coperte e realizzava che la sua Agenda Erre era scomparsa, uno strano panico over ottanta si diffondeva nel suo corpo. Una paura del genere aveva su di lei un effetto corroborante. Tutte le poche energie che le rimanevano venivano convogliate sull’obiettivo ed una strana lucidità si fece strada dentro di sé. Avrebbe trovato il Registro e con esso Pilar, e quest’ultima sarebbe stata punita, si disse in cucina mentre prendeva un coltello affilato, di quelli per tagliare la carne.

***
Come tutti al mondo — ad eccezione di Rose — Pilar sapeva dell’ultimatum russo e che il Presidente Adam Sandler, l’irreprensibile Sandler, non avrebbe mollato di un centimetro. Pilar sentiva che se avesse reciso quella rosa la cosa sarebbe finita.
Intere legioni di morti viventi, blitz krieg e armistizi, cannoni e scudi umani, tutto veniva ridimensionato da questa luce accecante.
Hiroshima.
Quel video ricorrente in cui una casa viene investita dall’onda d’urto nucleare e non ne rimangono che le fondamenta, esattamente come quando soffi su un dente di leone e questo rapidamente si sfalda.
Srebrenica. Gli olandesi che dormivano a Srebrenica. Beslan. Le generazioni di ceceni nelle fosse comuni. E pensare che proprio di fronte a sé aveva la Rosa della Cecenia, con la sua luce fioca ma pur sempre luce era. Si abbassò meglio per leggere di nuovo, ma niente, il Registro non diceva quando sarebbe finita.
Tutto questo orrore la sopraffava e al tempo stesso la stimolava ad aggredire quei fiori. Avrebbe pensato anche alla Cecenia, certo. Ma ora voleva assolutamente impedire l’escalation nucleare russo americana.
La luce era troppo forte e la rallentava. Decise, per questo, di proseguire strisciando fino alla radice del fiore, in modo da limitare il più possibile l’esposizione alla luce bianca. proseguiva così, strisciando nella terra con il Registro nella mano sinistra, fino a quando non arrivò alla base dell’enorme rosa, la rosa del 18 settembre 2013, quella che lei ora avrebbe reso uno dei fiori meno longevi del giardino di Rose.

***
Sabato 19 ottobre, 21.47
Pilar poggiò a terra il Registro, prese in mano le cesoie e poi sentì l’urlo.
L’urlo di Rose mentre le piantava il coltello nella schiena con la precisione che hanno i vecchi quando devono fare qualcosa, con quell’incrocio tra la saggezza degli anni e il mero, innegabile e triste deperimento fisico.
Pilar si sentiva come se l’avesse colpita un fulmine. Il sangue iniziava a scivolarle via dal corpo e la Rosa Bianca era lì, fosforescente e brillante più di prima e mancava così poco allo scadere dell’ultimatum. Rose adesso la stava trascinando per i piedi verso casa. Non aveva la forza di pensare a nulla, persino Beslàn era finalmente lontana dai suoi pensieri.
Solo dolore e quel disgustoso sapore metallico dappertutto.
Un attimo dopo Rose dovette fermarsi a prendere fiato e lei riuscì ad aprire gli occhi.
E Pilar la riconobbe, quella rosa rossa che aveva incontrato nel Registro. Ricordava tutto. E all’improvviso, al pensiero di tutta quella gente, il dolore era scomparso. Con un calcio spinse Rose a terra, raccolse le cesoie e si inginocchiò davanti a quella rosa rossa.
NO! Riuscì solo a gridare la vecchia. Il volto stravolto dallo stupore.
E poi Pilar ci riuscì. La recise per sempre. La rosa rossa si dissolse in una nuvoletta di cenere nera e, un attimo dopo, su Pilar giungeva Rose con il suo coltello a darle la morte.

***
Un drago rosso in campo verde e bianco.
Un drago rosso che trionfa sul drago bianco e si prende il Galles intero. Era più o meno quello che stava accadendo nel giardino di Rose, il drago rosso vincitore che trascinava i resti del Drago Bianco al termine di una terribile battaglia tra vecchi e giovani.
Mentre si dissanguava, il Drago Bianco/Pilar poteva ancora vederla, la luce al neon di quella rosa bianca illuminare il volto posseduto del Drago Rosso/Rose mentre le sue urla terribili le arrivavano ovattate nel cervello e si sfumavano sempre più fino a quella totale assenza di stimoli ed emozioni, quella nera solitudine post mortem che un giorno tutti saremo tenuti a sperimentare ma che in questo preciso istante, nella cittadina di Bandon, Galles, toccava solo a Pilar scoprire.

***
Domenica 20 ottobre — 00.01
Un minuto dopo la mezzanotte il Presidente russo Vladimir Putin, constatando il mancato ok statunitense al suo ultimatum, autorizzò il lancio di un missile nucleare sulla città di New York. Un discreto omaggio alle origini del Presidente Adam Sandler, che era nato a Brooklyn, e Putin, come Owen Wilson, Ben Stiller e tutti gli altri attori di Hollywood, purtroppo lo sapeva benissimo. Nei giorni successivi anche Mosca veniva spazzata via e, con essa, il cadavere di Lenin ricevette la sua tardiva cremazione. Dolore e distruzione andavano diffondendosi nel mondo occidentale, in Russia, Africa e Sud America.
Nel culmine di questa catastrofe, il Presidente Sandler chiedeva di essere lasciato solo.
Si chiudeva a chiave nel bunker antiatomico e fissava il muro.
Poi saliva sulla scrivania. Si sfilava la cravatta. La legava al lampadario e creava un comodo cappio in cui un attimo dopo infilava la testa e si lanciava nel piccolo ma sufficientemente mortale vuoto, mentre fuori l’America presentava livelli mortali di radiazioni e le sirene preannunciavano tempi di cupa incertezza.

***
Può esistere un pianeta senza New York? E senza Mosca? E Praga, Toronto e San Pietroburgo?
Evidentemente sì, poteva esistere un mondo del genere. Con i capi di Stato a dirigere le rovine dei loro paesi da un bunker sicuro privo dell’inquinata luce naturale. E tutti i nostri satelliti galleggiavano spenti nello spazio come i corpi degli eritrei al largo della Sicilia.
La guerra era finita per sfinimento, nell’unico modo possibile per un conflitto di tale intensità: in pareggio. Una sorta di tragico, disastroso pareggio, un gioco a somma zero così terribile da risultare quasi comico. E ora tutti che, come al solito, si chiedevano come era potuto accadere. E nel frattempo centinaia di conflitti a bassa intensità bruciavano a fuoco lento e si accendevano al minimo soffio di vento in tutta Europa. Per la gioia di molti, la UE non esisteva più. Nuovi muri si vedevano costruire ovunque. Il dolore si era instaurato come componente base dell’esistenza umana e, per molto tempo, nessuno poteva farci nulla ormai.
Occorreva leccarsi le ferite e ricominciare.
Intanto nelle università i professori si arrovellavano per capire i perché. Perché Putin si era spinto fino a tanto. Perché Adam Sandler era riuscito ad essere eletto Presidente. Il perché dei suoi errori, delle sue scelte e, nelle facoltà di Cinema, il perché dei suoi film. Perché, nonostante gli insegnamenti del passato, l’ONU aveva continuato ad essere impotente e gli italiani avevano temporeggiato e cambiato idea le solite due o tre volte. Tutto questo, per quanto di stretta attualità, era qualcosa di già visto, in un certo senso. I professori lo sapevano ed erano piuttosto rassegnati a non trovare risposte a determinate domande.
Un solo interrogativo poteva dirsi di assoluta originalità e curiosità per gli accademici. Cosa era accaduto a Ramallah il giorno dell’atomica su New York?
In un giorno così concitato per il mondo intero, Israele aveva riconosciuto lo stato di Palestina, riconosciuto Gerusalemme “Capitale Spirituale dei Due Stati” e tolto ogni forma di embargo al popolo palestinese. Come era potuto accadere?
I professori non capivano e, per questo motivo, scomodavano equilibri di forze e spinte popolari. Ma, mai come in questo caso, ciò che importava era l’intera Ramallah in festa, l’unico paese nell’intero mondo con qualcosa da festeggiare. Ed era cosa buona e giusta, perché per troppo tempo era stato l’esatto contrario.

***
Lunedì 21 ottobre — 17.00
Ci sono cose che cambiano e altre che devono restare uguali. La terra doveva essere innaffiata due volte al giorno. Una volta la mattina, una la sera. Però mai troppa acqua né troppo sole né i cani del vicino nei dintorni. Era importante anche spruzzare ogni tanto uno di quei spray anti parassiti.
Rose non era interessata ai dibattiti storiografici. Aveva la sua coperta nuova e il giardino rigoglioso di tragici conflitti come sempre. Le portavano la spesa a domicilio e seguiva passo dopo passo le istruzioni dell’Agenda Erre che teneva nel solito, caro baule. Aveva provato anche a piantare una semplice rosa terrestre nel punto in cui aveva prosperato quella recisa da Pilar. Ma non era servito. Ogni volta che vedeva quel ciuffo di terra senza fiori era un dolore per lei. Allora aveva chiesto al ragazzino delle consegne di portarle, con la spesa, anche un nano da giardino.
Le piaceva Eolo da sempre, così come le piacevano i tramonti e le torte al limone.
Piazzò Eolo proprio sul luogo del fattaccio e subito si sentì meglio. Mentre si apprestava a rientrare in casa, aveva pensato che nel freddo e inospitale Galles il povero Eolo avrebbe potuto avere freddo: quindi corse nel baule, prese la coperta di Pilar e gliela appoggiò dolcemente sulle piccole spalle.
Mentre rientrava dentro, sorrideva. Aveva ancora così tante rose e, senza alcun dubbio, le amava tutte, così come amava quella casa, quel giardino e il suo caro, vecchio marito appassito da tempo, che il signore Iddio, nella sua immensa saggezza, lo abbia in gloria.

--

--