Lo Stagno Nero

 Nessuna città ha il nome che ha per caso.

Marco Rinaldi
12 min readJan 29, 2014

Nessuna città ha il nome che ha per caso. Era questo il mio primo pensiero mentre finalmente montavo la nuova scrivania. Tre mesi a scrivere su quel cazzo di letto sono stati interminabili. Avevo la schiena a pezzi, ultima malandata componente di un lungo, patetico elenco che di domenica pomeriggio mi sembrava sempre infinito come infinite erano le tue prediche.
Avrei dovuto andare al lavoro, questo nuovo lavoro inutile che avevo trovato su internet e che per ora dovevo tenermi stretto nonostante lo odiassi con tutto me stesso. Ero troppo indietro con i conti, l’elettricità andava e veniva, l’acqua non si riscaldava più e a Dublino questo poteva essere un grande problema il diciotto di ottobre.
Vivevo da 5 anni qui e l’estate non aveva mai avuto la compiacenza di mostrarsi. Deve essere il governo, suggerivano i miei amici strani frutto di una lunga, meticolosa ricerca. Forse l’amministrazione pubblica vuole tenere gli irlandesi in questa banalità metereologica per stabilizzare i loro umori e lasciarli ipnotizzati, più facilmente manipolabili. Io annuivo e non escludevo niente a priori. Avevo visto cose più strane accadere, soprattutto da quando vivevo a Dublino.
Dublino. Posso descriverla come un recinto di psicolabili delimitato da scie di birra e statue di scrittori morti da decenni protette da inferriate dorate. Gli scrittori passeggiano sulla riva del Liffey con i loro cappelli neri pesanti e cercano spunti tra i vigili e i senzatetto. Bande di ragazzini vagano a piede libero per la città, sono agli arresti domiciliari ma il domicilio che hanno comunicato alle autorità è la strada. Rubacchiano e si ubriacano, bestemmiano nel loro incomprensibile slang e si sentono capaci di fare tutto e forse è veramente così. Gli scrittori, però, li lasciano in pace, hanno questa specie di regola non scritta e la rispettano. Lasciare sempre in pace gli scrittori, che nemmeno le tasse pare paghino in Irlanda.
Questi ragazzi, in ogni caso, indossano tutti la stessa divisa: pantaloni della tuta grigi e cappello pesante sulla testa. Ogni tanto mentre tornavo nel mio appartamento a Dublino nord mi capitava di incontrarne un po’, ricevendo qualche spinta e a tratti qualche sputo. La cosa finora era sempre finita lì. Più passava il tempo più mi rendevo conto di prendere le cose con filosofia, mi stupiva rendermene conto ma era così. Stavo invecchiando nel modo in cui invecchiano i professori di lettere al liceo, sopravanzati dalla routine delle parafrasi e degli immobili programmi scolastici che avanzano dentro le loro coscienze come l’edera e di esse si nutrono fameliche.
Erano passati sei giorni dalle Grandi Apparizioni e quelle luci ancora erano lì, ferme nell’aria a sovrastare i cieli di Dublino, Barcellona, Budapest, Liverpool e Milano. Erano enormi e bellissime, in alto nei cieli come nella migliore tradizione cattolica ma ben visibili, loro sì, a qualsiasi miscredente che avesse la fortuna di trovarsi da quelle parti in questi tempi indefinibili.
Il giorno in cui Dublino si svegliò con l’astronave lo ricordo bene. Lo ricordo bene anche perché era il giorno della morte di Lou Reed. Mi ero alzato per fare colazione ma dalla cucina sentivo vicino il rumore dei clacson, più forte del solito. Uscii per strada e c’era un enorme ingorgo e centinaia e centinaia di teste all’insù. Era apparsa all’improvviso su in cielo, mi hanno poi raccontato. Era come se fino ad ora fosse stata sempre lì, ferma e invisibile, ed ora avesse deciso di mostrarsi. Qualsiasi tipo di interazione con essa da parte delle forze armate, degli uccelli e dei preti si era rivelato improduttivo. Da allora erano passati sei giorni e non era cambiato nulla: erano sempre lì, ferme, immobili come le vite dei miei colleghi e, sì, lo ammetto, come la mia.
I giorni passavano e pian piano ci stavamo convincendo che queste enormi navi spaziali fossero innocue. Gli umani non riuscivano a comunicare con loro. Si era provato di tutto, compresa una di quelle cose alla Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, con musica e suoni vari. Ma niente.
I cani abbaiavano di continuo alle navicelle mentre io cercavo di sbarcare il lunario con questi contratti a termine. I giovani teppisti in tuta grigia studiavano per diventare alcolizzati, l’acqua veniva razionata nei giorni dispari e ogni tanto qualche musicista dalla lunga inspiegabile esistenza passava a miglior vita.
La vita, appunto, quella sembrava proseguire in questo modo, affannata e inerte. L’unico elemento di curiosità, di vita vera, erano queste astronavi. Avevo bisogno di credere nella bontà di questi visitatori e lo facevo in silenzio, senza darlo a vedere, anche perché il sentimento generale era come al solito l’inquietudine e la paura, come sempre accade quando qualcosa di ignoto spazza la polvere sulle nostre palpebre.
Andai a comprare una grande mappa del mondo e passai le notti a studiarla. Andai a vedere le posizione delle città sovrastate dalle Astronavi. Scoprii che Milano era equidistante da Barcellona e Budapest. 930 chilometri le divide una città forma una linea chiarissima e sopra di essa Dublino e Liverpool ne formano un’altra più breve. Il tutto andava a costituire un rudimentale quadrilatero, più o meno quello che sui libri chiamano un quadrilatero ciclico, con ad ogni vertice un’astronave aliena a galleggiare in aria.

*** Io da tempo non credevo più negli uomini. Nelle camere basse e in quelle alte, nei sit-in di protesta e nelle raccolte fondi. Avevo più paura dei fantasmi che apparivano in televisione che di queste astronavi sopra la mia testa. Chiunque capace di un viaggio tanto lungo non può non aver maturato una qualche interstellare forma di saggezza al suo interno.
Non potevano farci del male anche loro, o comunque non così male come certi umani con la cravatta. Non volevo crederlo.

***
Il giorno dopo nella mia cassetta della posta c’era una busta. Era color verde scuro, non ci era scritto nulla sopra. C’era solo un’etichetta gialla a forma di quadrilatero ciclico.

Ho aperto la busta con ferocia. L’ho strappata. Ho letto il contenuto, ed è giusto lo leggiate anche voi.

37°23’10” N
122°04’00” W
PT — 1976/2004

Sono corso al pc e ho inserito queste coordinate.
Quello che è uscito ha aumentato il mio grado di straniamento. Il punto in questione indicava una città di cui non avevo mai sentito parlare, una città lontana e per me insignificante.
La città di San José, California, USA.
Corsi ad accendere la tv e quello che sospettavo era accaduto: una enorme astronave era comparsa sul cielo della California. Vedevo la luce del sole riflettersi docile sulla sua lucida carrozzeria, migliaia e migliaia di uomini e donne con il mento all’insù senza sapere cosa pensare.
Era chiaro che la posizione geografica di San José — nel bel mezzo della Silicon Valley, un oceano di distanza — difficilmente si andava ad inserire anche nella più ambiziosa figura geometrica. E quindi a cosa serviva questa fottuta astronave sui cieli di San José ? Il criterio, il criterio non lo riuscivo a comprendere ed ero deluso, perché era così ordinario non riuscire a comprendere le cose per me che almeno in questa occasione speravo accadesse qualcosa di eccezionale e che capissi subito, al volo.
Restai tutta la notte a fissare quella mappa, ogni tanto mi affacciavo alla finestra e la vedevo, la sagoma dell’astronave circondata da elicotteri e caschi blu dell’ONU utili come lo sono stati a Srebrenica, niente di più, niente di meno.
E poi c’era questa sigla.

PT — 1976/2004

L’ennesimo elemento del mosaico che non riuscivo a mettere a posto. Misi la busta nella mia borsa e andai a lavorare in una fabbrica munita di solidi e non trasparenti tetti, e venni risucchiato dalla routine dei miei meccanismi automatici, delle mie 9-ore-9 di pulito vuoto pneumatico in cui dimenticavo sempre tutto, parenti amici alieni e altri misteri. Poi arrivava la sera, a ufficializzare il buio che non sapevo tirare fuori. E quando arrivava io pensavo alla busta. A tutte quelle città e alla strana sigla scritta in basso che dovevo decifrare.
Era un totale di 6,588,400 abitanti. La città più popolosa, Budapest. La più calda, Barcellona. La più piccola, Liverpool. Dove si trovasse la chiave, non lo sapevo. In ogni caso, tanti erano i privilegiati a cui era consentito vedere la Astronavi. A Dublino, poi, io mi sentivo particolarmente fortunato di avere questo esotico diversivo. Era come se gli alieni avessero voluto lanciarmi una corda per tirarmi fuori dallo Stagno Nero in cui mi sentivo invischiato. Dublino, questo nome gaelico che pare significhi proprio “Stagno Nero”. Nessuna città ha il nome che ha per caso.
Dovevo fare ordine dentro me stesso, e questo lo sapevo da tempo. Avrei iniziato dalla busta, e dal contenuto che ancora non ero riuscito a decifrare.

***
PT — 1976/2004
Doveva essere qualcosa collegato a San José.
Provai a cercare informazioni su Wikipedia, scoprendo che SJ è la città superiore a 500.000 abitanti più sicura d’America. Vanta anche tre squadre nelle principali leghe professionistiche statunitensi, decine di aziende high-tech con almeno mille dipendenti e un costo della vita tra i più alti di tutti gli Stati Uniti.
Tutte informazioni che mi tornavano utili più o meno come un’omelia. Andai allora più nello specifico e in Google digitai “San José 1976-2004”.
La stragrande maggioranza dei risultati mi conduceva indiscutibilmente allo stesso nome e cognome.
Pat Tillman.

***
Per quanto ne sapessi, nessun altro aveva ricevuto questo strano tipo di buste. Nessuno nel mio quartiere, quantomeno. E poi un minuto dopo, guarda caso, è andata a spuntare un’altra Astronave proprio nel punto indicato dalle coordinate.
Come tutti coloro che ricevono della corrispondenza, mi sentivo destinatario di un messaggio che era solo mio e veniva da lontano, un posto più lontano dell’orizzonte che riusciamo a guardare. Che sia Piacenza o Urano poco importa, sono tutti luoghi egualmente invisibili e dunque misteriosi e dunque affascinanti.
Pat Tillman, dunque. Lui era la chiave per la comprensione del mio messaggio alieno. Cercai sul web tutto quello che potesse riguardare questo Tillman e lo stampai. Dopo un paio d’ore avevo un dossier di decine e decine di pagine da leggere stanotte, e nel frattempo il Presidente USA stava parlando alla nazione. Prometteva che le loro forze armate avrebbero messo KO quello sporco disco volante ed annunciava per l’alba il lancio di un missile nucleare contro l’Astronave. San José fu fatta evacuare e il conto alla rovescia per l’attacco partì. All’alba di domani mattina, venticinque dicembre, ci sarebbe stato il primo attacco.
Io ero sicuro che quel missile non avrebbe nemmeno scalfito l’Astronave. Ma loro, non sapendo che altro fare, volevano provarci. Era mezzanotte ed io avevo dunque la notte a disposizione per leggere il dossier Tillman prima di capire cosa sarebbe accaduto al cielo sopra San José.

***
Il mio dossier diceva che Pat Tillman era un atleta. Era nato il sei novembre del settantasei e giocava a football americano. Gli piaceva la storia. Era riuscito a farsi selezionare come ultima scelta dagli Arizona Cardinals e il giorno del suo ingresso in squadra aveva promesso all’allenatore che sarebbe diventato fondamentale per la squadra. Aveva uno sguardo fiero e pulito, uno sguardo tipicamente americano — nel senso buono del termine — ed era umile e determinato come le formiche, ma molto più forzuto. Tutte queste cose le ho capite benissimo dalle mie carte anche senza averlo conosciuto. In ogni caso, Pat Tillman era riuscito davvero a diventare un giocatore fondamentale per gli Arizona Cardinals. Placcaggi e rincorse si accumulavano e lui diventava famoso. Nel solo anno 2000 disputò 60 gare Fece 155 tackle, 1,5 sack, 2 fumble forzati, 1 intercetto da 30 yard e tanti altri vocaboli a me incomprensibili. Molte ricche squadre dell’NFL iniziarono a seguirlo. Riceve un’offerta di nove milioni di dollari dalla squadra di St. Louis e la rifiuta subito per lealtà verso i Cardinals, l’unico team che ha creduto in lui quando ancora non esisteva negli almanacchi e lo conosceva solo la madre. Continua a giocare a casa, con i Cardinals.
Poi Pat Tillman va a sbattere contro l’11 settembre.
Come in ogni trauma interno, da fuori tutto sembra normale. Pat prosegue nella sua carriera, lanciato verso fama, gloria e ricchezza. È una stella e i Cardinals gli offrono un contratto di 3 anni a 3,6 milioni di dollari l’anno.
Ma Pat Tillman rifiuta e, nel maggio 2002, si arruola nell’esercito americano.
Pare che PT volesse andare in Afghanistan perché era il suo modo di aiutare il paese che amava e che vedeva in pericolo. Pare anche che si sentisse inutile passando la vita a giocare a football. Voleva dare il suo contributo. Chi sono io per non rispettare quello in cui crede. Ricordo che ho invidiato subito la sua capacità di prendere in mano la vita e di darle una sterzata secca. I cambi di direzione. Le folate improvvise. Mi sembrava uno dei pochi modi corretti di vivere.
Dopo un po’ Pat viene mandato in Iraq, a combattere una guerra che non condivideva affatto ed in cui vi rimane invischiato. Mentre leggevo del suo carattere, delle imprese e delle sorprese, capivo che non poteva essere una storia a lieto fine. Che i ragazzi come Pat Tillman durano poco in questo ecosistema ostile ai generosi e ai buoni d’animo. Quelli così muoiono. PT, infatti, morì nel 2004 sulle alture dell’Iraq ucciso dal fuoco amico, questo strano, incredibile modo di chiamare certi tipi di omicidi che accadono quando si fa la guerra. Aveva ventotto anni come ventotto anni avevo io quella notte, e la differenza tra noi due era profonda come quella notte a Dublino con gli occhi stanchi e le Astronavi sopra la testa.
Ero rimasto poggiato sul tavolo della cucina, senza poter dire nulla che non fosse superfluo. Triste ma al tempo stesso ansioso di affrontare la mia tristezza con i nuovi strumenti che avevo sviluppato nella notte che stava finendo in quei minuti.
Ed ecco arrivare la luce dell’alba. Ho battuto le palpebre e mi è sembrato di avere una visione più chiara, più nitida di quanto fosse mai stata prima. Adesso riuscivo a vedere la mia prudente vita precedente, difesa e contropiede e pochi sprazzi di luce. Mi pareva di aver vissuto ogni giorno cercando di riparare i miei cedimenti strutturali con il nastro isolante. Tutti i miei inutili isterismi, la mia idiota rassegnazione di fronte a qualcosa che andava semplicemente affrontato a viso e occhi aperti come i placcaggi di PT sui prati verdi dell’Arizona e le piramidi interiori costruite in una notte. Era l’alba del giorno di Natale e mi trovavo a sorridere di Pat Tillman, sorridere a me stesso, rinfrancato di fronte all’evidenza di tutte le cose che potevo ancora fare, ancora. Potevo costruire un treno notturno e condurlo da solo la notte di ferragosto dividendo l’America a metà. Potevo aprire un negozio di animali a Siracusa e chiuderlo tre giorni dopo perché mi stancavo di aspettare i traghetti a Villa San Giovanni. Potevo persino continuare nel mio arrancare quotidiano con un lavoro insoddisfacente, utile giusto per sbarcare il lunar…No. Non potevo più farlo. Non dopo quest’ultima notte. Adesso sarei andato avanti. Dritto per dritto, testa bassa denti stretti cuore aperto. Non c’era più tempo per fare cose che non mi andavano, e scusate tutti, parenti e conoscenti, se non vi vengo a trovare prima delle feste. Occorreva essere felici da adesso, dal secondo stesso in cui lo pensavi, pensavo in piedi nel mio soggiorno, le palpebre a pulsarmi feroci.

***
La tivù inquadrava dei caccia decollare da una portaerei nel cielo della California ed a me non faceva alcun effetto perché avevo capito il nesso. Questi amici alieni erano venuti per mostrarmi la via e per farlo avevano usato la semplice corrispondenza e l’esempio sulla Terra di quello che potrei definire un loro collega extraterrestre, una di quelle persone che sta bene su tutti i pianeti tranne il nostro. Io ridevo dopo mesi di torpore emotivo e lo facevo grazie a Pat Tillman ed in quel preciso istante l’Astronave di San José aveva assolto la sua funzione e svaniva per sempre e i piloti dei caccia se ne tornavano mogi sulle loro portaerei mortali con addosso il loro carico di mortale inquietudine al plutonio.

***
Il giorno dopo la scomparsa della Sacr’Astronave di San José ho lasciato il mio inutile lavoro, fatto le valigie e abbandonato Dublino, lo Stagno Nero in cui non sarei mai più tornato.
Ho dato uno sguardo alla mia mappa e al famoso quadrilatero ciclico, scartato Liverpool Milano Budapest e scelto il sole di Barcellona, in attesa di raccogliere i soldi necessari per sbarcare a San José. La città con il più basso tasso di criminalità degli Stati Uniti, certo, ma più che altro la città di Pat Tillman, colui che mi aveva fatto tornare la fiducia nei miei simili. Sarei andato a San José per lui e perché credo nei messaggi alieni spediti per corrispondenza. Tendo a crederci, non posso farci niente nonna se gli UFO non mi spaventano. Credo nel destino delle persone che conosco per caso sui tram e dei nomi che mi mandano gli extraterrestri per posta. Avrei creduto in San José, California.
Il mio nome di battesimo, per l’appunto, è proprio Giuseppe. Come ho già scritto, nessuna città ha il nome che ha per caso.

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