Il colore delle ciliegie

Giulia Gaveglio
Sintomi
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10 min readAug 28, 2018

«Perché sì», rispondeva la mamma quando le domandavo perché le femmine dovessero portare la gonna. Avevo sette anni e mi pareva che nelle sue parole si nascondesse un compito già stabilito, una forma di dovere. Sono sempre stata così: una scorza dura e ruvida, un disperato bisogno di essere amata e un’assoluta incapacità di prendere le parole con leggerezza.

All’epoca vivevamo in un piccolo appartamento nella periferia di Torino. Secondo mia madre, un posto “poco chic”, ma all’epoca era quanto ci potevamo permettere con lo stipendio da impiegato di papà. Elisa arrivò a Torino all’inizio della quarta elementare, quando suo padre si dovette trasferire dalla Sicilia per lavoro. Il primo giorno di scuola lo trascorse in un angolo della classe, guardandoci di soppiatto con i suoi grandi occhi grigi, senza parlare con nessuno. La sua timidezza m’irritava, ma ero affascinata dai suoi capelli biondi e dalla pelle bianchissima.

Io ero il maschiaccio della classe: unghie sporche e ginocchia sbucciate, passavo le giornate a cercare di picchiare i miei compagni, il cui passatempo prediletto era prendermi in giro. Secondo la mia personale idea di giustizia, era l’adeguato contrappasso per il loro tentativo costante di farmi sentire diversa. Ridevano di me per i modi un po’ ruvidi, perché nell’ora di ginnastica correvo più veloce dei maschi e perché avevo sempre i quaderni macchiati di cioccolata. A causa dei denti davanti, un po’ grandi e sporgenti, mi avevano soprannominato “faccia da coniglio”, un nomignolo che ripetevano come una cantilena, fra risate e schiamazzi. Io rispondevo cercando di prenderli a botte e la conclusione era sempre la stessa: la mia rabbia sembrava eccitarli ancora di più e l’unico risultato che ottenevo era di guadagnarmi una nota dalla maestra. Sopportavo stoicamente nel mio banco dell’ultima fila, la faccia buia e rabbiosa, fino a quando il suono della campanella non arrivava ad avvisarci della fine delle lezioni. Solo a casa, nascosta sotto le coperte, mi permettevo di versare qualche lacrima silenziosa; non avrei mai accettato che qualcuno mi vedesse piangere.

Fu a febbraio che le cose cambiarono. La scuola organizzava una festa di Carnevale per il pomeriggio del martedì grasso. Da settimane le altre bambine non parlavano d’altro, eccitate dalla prospettiva di bugie ripiene e stelle filanti.

«Io mi vestirò da principessa Sissi» diceva confidenzialmente una di loro durante l’intervallo.

«La mamma mi ha promesso che quel pomeriggio mi potrò mettere il rossetto» commentava un’altra.

«La mia invece ha detto che mi farà i boccoli!»

Elisa pareva l’unica a non interessarsi particolarmente alla questione, limitandosi ad ascoltare i discorsi delle compagne; io me ne stavo in disparte, disgustata dal loro continuo blaterare di fiocchi e rossetti. Mia madre purtroppo non la pensava affatto come me: erano mesi che lavorava al mio costume, vestitino da fata in perfetto stile principesco. Un tripudio di tulle e nastrini d’argento, in cui il pomeriggio della festa m’infilò a forza.

«Sei semplicemente perfetta!» commentò poi con un sorriso a trentadue denti. Io annuii forzatamente da dentro quella nuvola di lustrini che non mi lasciava respirare, cercando disperatamente di tirare le mani fuori dalle maniche quel tanto che bastava per potermi muovere.

«Ma è troppo stretto!» piagnucolai.

«Chi bella vuol apparire, un po’ deve soffrire» cinguettò in risposta mia madre, cieca e sorda di fronte al mio evidente disagio. Poi mi prese per mano e insieme ci avviammo verso la palestra della scuola, dove si teneva la festa.

Appena varcammo la porta si materializzarono una lunga serie di fatine, regine e principessine, ognuna con la propria coroncina sulla testa e le gonnelline svolazzanti. I maschi, vestiti chi da cowboy, chi da Zorro, chi da moschettiere, facevano comunella attorno al tavolo dei viveri, divorando patatine e trangugiando aranciata.

«Forza Elsa, vai a giocare con i tuoi amici» disse mia madre mettendomi la mano dietro alla schiena e spingendomi avanti con decisione. Io avanzai silenziosa, l’espressione di una condannata a morte dipinta in faccia.

«Guarda, faccia da coniglio si è vestita da femmina!» urlarono in coro i bambini non appena mi videro.

«Ehi faccia da coniglio!»

Cercai di ignorarli, concentrandomi sulle fette di crostata al cioccolato disposte in un vassoio colorato sul tavolo. Fossi stata in classe, pensai, gli avrei dato una bella lezione; ma gli occhi di tutte le mamme erano puntati su di noi. Inoltre il costume mi impediva di alzare le braccia, bloccandomi le spalle verso il pavimento. Presi un biscotto e cercai di portarlo alla bocca. Mentre mangiavo svogliatamente, notai che anche Elisa era arrivata alla festa e sedeva in un angolo, in mano un tramezzino. La guardai meglio, domandandomi quale fosse il suo costume di Carnevale. Ci misi un po’ a capire che era vestita da margherita: portava una tutina verde e un collarino di grandi petali bianchi. In testa, un buffo cappuccio verde completava il travestimento. Piuttosto stupido come costume, pensai.

Presto giunse l’ora dei temuti giochi di gruppo. Cercai di defilarmi, gironzolando con noncuranza dietro al tavolo delle bevande, ma le maestre radunarono tutti i bambini e io, dopo aver finto ripetutamente di non sentire il mio nome, fui individuata e trascinata in mezzo alla stanza, sotto lo sguardo furente e imbarazzato di mia madre. Giocammo al gioco delle sedie e quando la musica terminò all’improvviso, forte della mia abilità di corridore, mi lanciai verso una di esse, sedendomi con sguardo soddisfatto mentre le altre bambine erano ancora in piedi. Il suono di uno strappo offuscò all’improvviso il mio momento di gloria: nello scatto avevo lacerato entrambe le maniche del vestito, che ora penzolavano inerti dalle mie spalle. Lo strappo lungo la schiena arrivava fino al sedere. Avvampai, mentre attorno a me scoppiava un coro di risate e la voce di mia madre, carica di rimprovero, giungeva distante alle mie orecchie. Per un attimo pensai di alzarmi e prenderli tutti a pugni, finché la rabbia accumulata in tutte quelle odiose giornate di scuola non si sciolse dentro di me, scivolando fino in fondo allo stomaco. Scoppiai in un pianto dirotto e corsi via, nascondendo le lacrime con le mani strette a pugno. Raggomitolata in un angolo del bagno, piansi fino a ad avere gli occhi rossi e il viso impiastricciato.

Ero ancora sdraiata sul pavimento quando la porta del bagno si aprì silenziosamente e una vocina accanto alle mie orecchie sussurrò sommessamente: «A me comunque piace di più così».

Tirai su con il naso e alzai la testa dall’incavo delle braccia. Elisa si richiuse la porta alle spalle.

«Il vestito, intendo. Mi sembra molto più alla moda adesso».

Si mise a girare vorticosamente su se stessa, per far sollevare i petali bianchi del colletto da margherita nella buffa imitazione di una sfilata di moda. Poi mi guardò negli occhi: scoppiammo entrambe a ridere, senza poterci fermare. Elisa si chinò, mi prese per mano e mi aiutò ad alzarmi. Quando tornammo in palestra gli altri bambini presero ad additarci e a fingere di piangere, strofinandosi gli occhi con le nocche. Tuttavia, mentre tenevo la mano di Elisa, non mi importava nulla di loro. Per la prima volta nella mia turbolenta infanzia, mi sentivo pervasa da uno sconosciuto senso di calma. Da quel giorno, io ed Elisa diventammo amiche.

Alle medie finimmo nella stessa sezione. In classe eravamo inseparabili: quando non riuscivamo a sederci l’una accanto all’altra trascorrevamo la lezione a mandarci bigliettini, facendoci rimproverare continuamente. Quasi ogni pomeriggio, dopo la scuola, ci trovavamo per fare insieme i compiti. Con la bella stagione, andavamo a studiare nel giardino della famiglia di Elisa, che aveva una bella villetta in zona Vanchiglia. Mia madre, felice di vedermi finalmente insieme ad un’amica, veniva a prenderci dopo le lezioni e ci accompagnava in auto. Talvolta invece prendevamo insieme il tram numero 4, che fermava proprio di fronte alla scuola: salivamo sulla vettura tenendoci per mano e ridendo, io con i capelli spettinati, Elisa con la lunga treccia bionda che le accarezzava le spalle. Guardandola, sentivo il cuore allargarsi nel petto, come se fosse riuscita a sciogliere l’inverno che mi circondava. Forse –pensavo- non c’era nulla da temere. Era sufficiente essere se stessi.

«Credo che tu sia la mia persona preferita» mi disse Elisa un giorno caldo di fine giugno. Mi aveva invitata a trascorrere la giornata a casa della nonna materna, in campagna. Arrampicate su un ciliegio, entrambe accoccolate nello spazio piatto fra i rami, ne divoravamo i frutti rossi, macchiandoci le labbra di succo.

«Anche tu sei la mia migliore amica» le risposi sorridendo.

« Se dovessi scegliere una persona con cui restare a mangiare ciliegie per tutto il resto della vita, sceglierei te». Abbassò gli occhi, intimidita. Appoggiò un ciuffo di ciliegie dietro il lobo, come se fosse un orecchino.

«Ma non possiamo mica passare la vita sugli alberi a mangiare ciliegie» risi io.

«Forse no. Però se fossimo grandi, potremmo. I grandi possono fare tutto quello che vogliono, no?»

«Sì, penso di sì»

«Io ne sono sicura. Se fossimo grandi, lo faresti?» chiese, guardandomi a un tratto dritto negli occhi.

«Cosa?»

«Passeresti la vita qui con me a raccogliere ciliegie?»

«Io e te qui per sempre?» chiesi.

«Già. Per sempre» rispose Elisa.

«Come se fossimo sposate?» Ci guardammo e scoppiammo a ridere, fino ad avere le lacrime agli occhi.

«Sarebbe un bel problema. Chi farebbe lo sposo e chi la sposa?» commentò lei asciugandosi gli occhi. Poi, un barlume vivace le attraversò lo sguardo: aggrappandosi ai rami più bassi scese di corsa dall’albero, dirigendosi verso la cascina. Rimasi per qualche minuto ad attenderla, incerta sul da farsi; poi la vidi correre fra i campi verso di me, in mano un pezzo di stoffa bianca che doveva essere appartenuto a una zanzariera. Poi si arrampicò tenendo alta la mano destra, fino a raggiungere il nostro nascondiglio.

«Ecco» commentò soddisfatta dopo essersi seduta, le ginocchia piene di polvere. Prese il pezzo di stoffa sporco e logoro e lo spiegò; poi mi si avvicinò e me lo appoggiò con delicatezza sopra ai capelli.

«Ora sei una sposa perfetta. Manca soltanto qualcuno che celebri la cerimonia e potremo vivere per sempre nel paese delle ciliegie». L’espressione seria del volto era tradita soltanto dal luccicare divertito degli occhi.

«E i fiori? Il vestito?»

«Ma no» sbuffò lei «basta che ci sia un testimone. E qualcuno di importante che dica le parole giuste…Tipo il prete, il sindaco…il capitano di una nave di pirati».

Mi schiarii la voce e assunsi un’aria seria, mentre con le mani strappavo il picciolo dal centro di una ciliegia e lo annodavo per creare un piccolo anello. La guardai, scandendo bene le parole.

«Vuoi tu, Elisa Stasi, prendere la qui presente Elsa Corsi come tua legittima sposa, per amarla e onorarla per il resto dei vostri giorni, finché morte non vi separi?»

«Sì, lo voglio» rise Elisa, le guance del colore dei papaveri. Presi l’anello e glielo infilai all’anulare della mano sinistra.

Poi, dopo aver a sua volta annodato un picciolo, fu il suo turno: «Vuoi tu, Corsi Elsa, prendere come tua legittima sposa la qui presente Stasi Elisa, per amarla e onorarla per il resto dei vostri giorni, finché morte non vi separi?»

«Lo voglio» risposi senza esitazione, allungando la mano per ricevere a mia volta la fede nuziale.

«Vi dichiaro marito e moglie!» esultò Elisa con uno sbuffo, scoppiando a ridere. Risi con lei, e mi parve di non essere mai stata tanto leggera. Quando la risata si spense, Elisa si fece più seria, più adulta. Mi resi conto con sgomento di quanto fosse bella nel suo vestito a fiori estivo, i capelli color grano che le sfuggivano dalla morsa della treccia. Mi si avvicinò.

«Manca ancora un ultimo passaggio», disse. Il volto davanti al mio, potevo sentire il calore del suo respiro sulle guance. «Ora lo sposo può baciare la sposa» mi sussurrò all’orecchio. Poi, in un istante, posò la bocca sulle mie labbra. Le schiusi leggermente, assaporando il sentore di sale della sua pelle. Qualcosa si ruppe in me. Chiusi gli occhi per un istante prima di scattare e allontanarla da me con uno strattone.

«Ma che schifo! Sei pazza?» gridai.

«Scusa, credevo che anche tu…» si schermì lei, lo sguardo di nuovo basso e timido. Scesi di corsa dall’albero. Elisa, mortificata e impietrita, mi guardò scappare via.

Una volta tornata a casa, dissi ai miei genitori che io ed Elisa avevamo litigato e che non avremmo più fatto i compiti insieme. La notte, nascosta sotto le coperte, ripensai al bacio di quel pomeriggio e un calore traditore mi avvolse le membra. Nascosta al resto del mondo, lasciai che le lacrime mi rigassero il volto.

Non l’ho più cercata, non ho voluto farlo. Eppure, non avevo tenuto conto delle mire del destino. Anche il tempo, talvolta, non può nulla contro di lui. Così, l’ho incontrata qualche giorno fa. Ci siamo imbattute l’una nell’altra alla GAM, la Galleria d’Arte Moderna di Torino. C’ero andata per visitare una mostra su Monet. Quando ho incontrato Elisa, ero immobile di fronte a al ritratto di una giovane donna: posta di spalle in un campo di grano, il soggetto del quadro pareva osservare trasognato il panorama. Una voce morbida mi ha salutato.

«Ciao Elsa, ti ricordi di me?»

Era identica, come se i suoi tratti di quattordicenne fossero stati rapiti dal corpo di una donna ormai adulta. L’ho salutata e abbiamo parlato per un po’. Lavora alle scuole elementari, è diventata una maestra. Vive ancora a Torino e ha appena ristrutturato la casa dei suoi genitori in Vanchiglia.

Esauriti gli argomenti di conversazione, siamo rimaste in silenzio davanti al quadro. Attorno a noi, i visitatori si fermavano per qualche istante, osservando distrattamente le opere in mostra.

«Ti chiedi mai a cosa pensasse?» mi ha chiesto a un certo punto Elisa, mordicchiandosi il labbro inferiore.

«Chi Monet?» domandai io.

«No lei. La ragazza del quadro» ha risposto «A cosa stava pensando mentre lui la dipingeva?» Sono rimasta in silenzio, incapace di trovare una risposta.

«Mi ricorda te, sai. Quando eravamo ragazzine. Non sono mai stata capace di capire cosa ti passasse per la testa». Ha sorriso.

Era ancora così bella. Per un assurdo istante, è stato come se gli anni non fossero passati, e ho creduto che ci fosse ancora una possibilità per noi. Le avrei spiegato cosa pensava quella bambina spaventata, mi sarei fatta perdonare di essere scomparsa. Mi sarei giustificata e le avrei raccontato di come allora avessi soltanto quattordici anni, di come avessi paura di spiegare a mia madre chi ero e cosa desideravo. Di come, crescendo, avessi continuato a nascondermi e ogni mia relazione con un uomo si fosse ovviamente rivelata triste e inconcludente. Lei forse mi avrebbe sorriso e mi avrebbe preso per mano. Tutto sarebbe andato di nuovo bene.

«Mamma, mamma! Hai visto quel quadro tutto arancione?»

Una bimba trafelata si è lanciata alle ginocchia di Elisa, stringendole con forza. Dietro di lei, una donna dai capelli scuri le si è avvicinata.

«Ecco dov’eri finita» le ha detto, baciandola con dolcezza.

«Elsa, la mia compagna Irene. E questa è mia figlia Sara» mi ha detto Elisa. Ho sorriso, ho fatto un cenno di saluto con la testa.

«Ora devo proprio scappare» ho detto.

«È stato bello rivederti» mi ha detto Elisa, sorridendo. Ho annuito, incapace di parlare. Lei mi ha guardato negli occhi, mi ha preso la mano. Per un istante l’ha stretta, poi l’ha lasciata andare.

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Giulia Gaveglio
Sintomi
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26 anni, una laurea in filosofia, una ricerca spasmodica del dubbio, un amore per i gatti, per i ponti, per tutto quello che sta sul filo del rasoio.