Due considerazioni sull’Islam
Il testo che segue è tratto dall’ebook Siria — un diario in tempo di pace (Delos Digital)
(…) Ancora gli anni ’60, penso io; ancora una volta ne sento parlare come anni di reale modernizzazione sociale e culturale: del resto, i vecchi film egiziani me lo potrebbero confermare ogni giorno, dal momento che vengono costantemente riproposti alla tv, con le loro donne sbracciate che fumano in pubblico, si baciano con i loro fidanzati, bevono alcolici nei locali notturni, tutti atteggiamenti che adesso sono impensabili. Ora vengo a sapere che anche l’eclissi era diversa, negli anni ’60. E di nuovo torno a chiedermi perché, che cosa è cambiato, da allora a oggi, nel mondo arabo.
Le teorie in proposito sono tante, le più svariate, e come sempre forse la verità è un insieme di molte concause, diverse fra loro per portata, entità, dimensione, impatto, conseguenze.
C’è chi preferisce interpretazioni, diciamo così, macropolitiche, e parla di regimi arabi filosocialisti malvisti dai paesi democratici occidentali, Usa in testa, i quali, per combatterli, avrebbero aiutato gli antagonisti più fieri di tali regimi, cioè i gruppi di matrice religiosa (e quindi islamica) più o meno estremisti.
Ma basterebbe questo a spiegare, per esempio, il numero di moschee a Damasco, che negli ultimi 25–30 anni è passato da qualche centinaio a 3000?
No di certo. C’è anche da considerare il vertiginoso aumento della popolazione (solo Damasco è passata da 500.000 abitanti negli anni ’60 ai 4 milioni di oggi), i flussi migratori interni, l’inurbamento che ha portato masse di contadini nella capitale con il conseguente aumento della povertà e dell’ignoranza. Una classe politica che non ha mai attuato una qualsivoglia politica sociale, col risultato di lasciare tutta questa massa di diseredati alle opere di carità sorte in seno alle moschee, sempre di più, tante quanti erano i poveri da assistere. Ma spesso anche da indottrinare e plasmare a proprio piacimento. Il governo era felice, perché vedeva in tutto ciò il modo migliore per controllare quelle masse di nullatenenti che, a loro volta, trovavano nella moschea e nell’istituzione religiosa in generale, un punto di riferimento costante, per moltissimi l’unico.
E intanto il mondo, come fa da secoli, cambiava, si trasformava, girava in maniera sempre più rapida e frenetica, incomprensibile ai loro occhi, che dal deserto o dalla campagna passavano alla contemplazione delle future gioie eterne di un Dio che rimaneva il solo ad ascoltarli e ad aiutarli.
Non voglio certo dire che è così che nasce il terrorismo islamico, che del resto non è l’argomento di cui stavo per parlare. Nascono però così le condizioni che hanno portato un paese come la Siria dalle lezioni di approfondimento sull’eclissi alla chiusura delle scuole; dalle canzoni che auspicavano un futuro pieno di speranze a un ritrarsi verso un passato sì di glorie e di splendori, ma cristallizzato in una dimensione più atemporale che reale, sigillato nelle teche di una storia che non potrà più ritornare e che si contempla come un miraggio perduto. E, su tutto questo, naturalmente, l’onnipresenza della religione, che del resto, bisogna ricordarlo, qui è l’elemento connettivo attorno al quale si è edificata l’identità di un intero popolo (“l’Islam, e solo l’Islam ha fatto di noi un grande popolo”). È chiaro perciò che la religione è la leva più facile da azionare quando si vuole mobilitare le coscienze, in qualsiasi modo questo accada.
In un presente senza più prospettive e uno stato che non pensa al futuro, l’unico punto cardinale verso cui rivolgersi è quello della Mecca, dove il glorioso passato islamico ha edificato i cinque pilastri della saggezza: questa è l’unica prospettiva rassicurante, e anche uno stato laico ha capito benissimo che è anche l’unico modo per placare le coscienze, evitare disordini, offrire l’unica prospettiva rassicurante per un popolo che non sa più sperare.
(…)
Infine, un’ultima considerazione che mi viene or ora mentre vedo alla tv araba una impressionante manifestazione a Beirut organizzata dal partito Hezbollah, il “partito di Dio”. Ecco, è tutto qui il punto, ma un punto troppo spesso trascurato da noi occidentali: qui Dio non è solo fede, non è solo l’unica via spirituale possibile per chi ha poco più di niente; Dio è anche, e soprattutto, potere, potere religioso e ancor più secolare, potere sulle coscienze così come potere di muovere folle, scatenare emozioni e pilotare decisioni. Questo non bisogna mai dimenticarlo, quando si parla di paesi islamici, e si tratta Allah solo come un “Dio sbagliato” e dell’Islam semplicemente come una religione fanatica. Colpire un simbolo religioso, perciò, [il riferimento in questo caso è alle vignette su Maometto del 2005, ndr] significa anche colpire le fondamenta di un intero sistema di potere che su quei simboli ha edificato e perpetuato la propria esistenza.
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