Il mio Ramadan

marco
Siria — un diario in tempo di pace
3 min readJun 6, 2017

Il testo che segue è tratto dall’ebook Siria — un diario in tempo di pace (Delos Digital)

È un mondo, questo dove ora mi trovo a vivere, fatto ancora di bottiglie di latte in vetro, di carretti trainati da cavalli in pieno centro, di sacchi di juta per le spezie, di odori forti e sentimenti intensi, dove gli uomini si tengono per mano nelle loro passeggiate mentre uscire con una ragazza due o tre volte, pur senza nemmeno toccarla, potrebbe significare l’inizio di un fidanzamento. Un modo assoluto, nel bene come nel male, ma che si può comprendere solo vivendolo quotidianamente, dall’interno.

Però, una volta entrati, è difficile uscirne: qui tradizioni e consuetudini sono talmente inveterate, talmente collettive, talmente presenti in ogni gesto e in ogni momento, che risulta difficile non esserne in qualche modo coinvolti, se non investiti, non sentirle in qualche modo anche proprie come un patrimonio ancestrale ritrovato dopo tanto tempo, dopo averlo perduto chissà quando, chissà dove. Così è per il senso di ospitalità di questa gente, fortissimo ma mai morboso, così è per gli sguardi delle donne, fugaci ma incredibilmente penetranti. Così è per il Ramadan, il mese del digiuno. Inizierà il 26 ottobre, quest’anno, ma già se ne parla ovunque: alla radio, alla televisione, per le strade, la parola ramadan compare più spesso di prima, tutti si stanno preparando al mese “benedetto”. Anche in questo caso, solo stando qui si riesce a percepire la portata di un tale evento, a comprendere almeno in parte cosa significhi, per i musulmani, astenersi sistematicamente da acqua, cibo e tabacco fino al tramonto, quando il richiamo del muezzin libererà tutti dall’onere/onore e si celebrerà la cerimonia dell’iftar, il pasto serale. Solo stando qui si comprende come questo digiuno sia un cemento sociale notevole, un compartecipare a un sentimento collettivo di grande portata: è la condivisione di qualcosa di forte e primigenio, la fame, insieme a tutta la comunità; così come, alla sera, condividere il pasto, il piacere del bisogno saziato, sempre insieme agli altri, e la preghiera collettiva, Allah uakbar.

Ci si accorge che questa religione è qualcosa di incredibilmente potente, di veramente forte, un pilastro monolitico che si erge nell’anima e riempie ogni vuoto, ogni crepa, ogni fessura del tuo io. Una religione senza effigi o icone, essenziale e mistica nel senso più arcaico del termine, dove il rapporto con l’assoluto è diretto, senza intermediari, totale. Di un impatto interiore devastante, sconvolgente.

Come mi sono sentito stupido e inadeguato, lo scorso Ramadan, con le mie pretese di voler afferrare con le pinze di una razionalità incompleta ciò che può essere solo sentito nel profondo, che fa dell’assenza una presenza, del vuoto un pieno, dell’intangibile un qualcosa di concreto, che non hai bisogno di toccare perché è lui a farlo, a esserti dentro, a invaderti completamente. Il Ramadan è proprio questo: coltivare dentro di sé il vuoto per far germogliare il sentimento dell’assoluto, di Dio. Avvicinarsi al Tutto per mezzo del Nulla, riempirsi di vuoto e non sentirlo più tale, o meglio sentirsene parte integrante.

Non parlo di irrazionalità e fanatismo, tutt’altro: qui ho compreso che la razionalità è completa solo se integrata al profondo sentimento dell’Assoluto; da sola, resta amputata, incapace di andare oltre un limite che limite in verità non è, ma che essa vede come tale. Il sentimento dell’assoluto dilata lo spazio del ristretto orizzonte razionale, lo amplia, elimina il limite e, invece di annullare, esalta la razionalità, ne fa strumento essenziale di interpretazione, parte indissolubile di sé.

Una combinazione davvero singolare, difficile da assorbire per chi come me è nato in un Occidente in cui si ergono continuamente confini e limiti per poi abbatterli, e sentirsi forti. Ma non fabbrichiamo che deserto, demoliamo idoli senza edificare nulla di duraturo e vero. Qui il deserto c’è, è ovunque, ma niente sembra più pieno ed eterno di lui, più solido, sicuro e rassicurante. Noi, occidentali sazi e satolli, non possiamo comprendere tutto ciò dai nostri salotti, dalle nostre tv che rigurgitano informazioni superficiali e parziali, dai nostri stomaci e dai nostri corpi capaci ormai di riempirsi e saziarsi solo di cibo. Noi che abbiamo paura del deserto, e del vuoto. Di tutto ciò che è più grande di noi. In definitiva, di tutto.

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marco
Siria — un diario in tempo di pace

redattore editoriale, scrivo di tecnologie applicate alla didattica.