Who lives, Who dies, Who tells your story

Marco Montanari
Citizen MMo
Published in
7 min readNov 17, 2020

La memoria come atto politico

Hamilton

Con il brano “Who lives, Who dies, Who tells your story” si conclude Hamilton, musical del 2016 tornato alle cronache durante il lockdown perchè rilasciato il 4 luglio dalla piattaforma di streaming Disney+. Il musical narra della storia di Alexander Hamilton, un oscuro padre fondatore americano nato a Charlestown, un villaggio di Saint Kitts e Nevis, nei Caraibi da famiglia povera e morto a 47 anni a New York in duello per mano dell’allora vicepresidente degli Stati Uniti Aaron Burr, dopo aver fondato la guardia costiera, il New York Post e Wall Street e definito la politica economica di una nazione che sarebbe diventata di lì a pochissimo una superpotenza mondiale.

Nello specifico, il tema del brano è il modo con cui l’America ha gestito la memoria di Hamilton, raccontando come la moglie, nonostante un tradimento e la morte di un figlio abbia deciso di rientrare nella narrazione della storia del marito e dei suoi compagni di avventura. Nel farlo ha raccolto i fondi per il monumento a George Washington nell’omonima capitale, ha fatto in modo che i testi del molto prolifico marito fossero raccolti dal figlio e ha raccolto le testimonianze dei compagni di battaglia di Hamilton. Poi il tempo ha comunque fatto dimenticare questo padre fondatore sul quale non si narrano leggende di tagli di alberi e di impossibilità di mentire, come per Washington. Rimane, giusto, l’oscuro padre fondatore il cui volto si trova sulla banconota da 10$. Questo fino al 2016 quando una proposta del ministero del tesoro statunitense propone di cambiare il volto con quello di una donna significativa per la storia americana, Harriet Tubman. Prima i Tony Award vinti dal musical quello stesso anno, poi l’elezione di Donald Trump hanno spostato e poi eliminato il possibilità di sostituzione.

Ma la memoria collettiva è mostruosamente importante. E’ importante come insegnamento, è importante come esempio ed è importante come contesto culturale. Chi siamo noi se non la somma, la raccolta di tutte le memorie di quello che siamo, siamo stati e di quanto ci è stato distillato dagli altri, attorno a noi, in racconti, libri, film, documentari? E la nostra memoria personale quanto è parte del concetto più grande di Memoria collettiva?

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Siamo da anni, oramai, nell’era del “pics or didn’t happen”, Le immagini pubblicate sono oramai l’elemento di documentazione primario della realtà, come se la narrazione non fosse più sufficiente. D’altra parte non è strano: statistiche di inizio 2020 ci dicono che ognuno di noi produce 1.7 MB di dati ogni secondo. Ogni giorno vengono mandate 308 miliardi di e-mail e 5 milioni di tweet. Il totale di spazio di tutto quello che è stato prodotto in forma digitale su internet occupa un totale di 44 zettabyte, che sono 44 mila miliardi di gigabyte, solo per la memoria digitale dagli anni ’80 ad oggi. E in quegli zettabyte abbiamo meteore, come i siti web di moltissime delle dotcom degli anni ’90, e archivi digitali enormi che hanno rischiato di essere eliminati e dimenticati, come Geocities, o il primo myspace, fortunatamente tenuti dall’Internet Archive come reliquie di un passato non troppo remoto. Tragicamente abbiamo, però, perso anche tantissimo, i primi social nati e scomparsi nel nulla, archivi delle amministrazioni che hanno avuto una breve vita on-line o che spesso erano non interconnesse in un’era non

Piattaforme come l’Internet Archive (Archive.org) fanno da biblioteca di Alessandria del mondo digitale, accumulando, replicando e permettendo a chiunque di ritrovare le tracce di come eravamo, cosa guardavamo, cosa giocavamo, quali fossero i nostri criteri di “bellezza” nel passato nemmeno troppo remoto. Eppure non basta. Non basta sapere che il passato è salvato da qualche parte. La Memoria è un processo, un atto privato e collettivo, la rielaborazione di fatti passati in un’ottica nuova e la rielabroazione di fatti presenti in un’ottica passata. L’azione di ricordo ci spinge a ricontestualizzare per vedere similarità e differenze.

Così, quando guardiamo gli anni dell’inizio delle DotCom, come nella recente serie “The valley of the Boom”, vediamo con sguardo ormai cinico certi atteggiamenti naif degli investitori, riconduciamo certe affermazioni a stralci di notizie della fine degli anni ’90 e percepiamo già i passi falsi o le promesse di crescita incredibili. E, viceversa, vediamo come i principi dell’epoca siano stati reinterpretati, reinventati e rivisti oggi dai colossi in ottica nuova in un mondo polarizzato e totalmente diverso.

Come dicevamo, l’importante non è solo l’archivio, ma soprattutto la narrazione. Così come un report non sono solo delle tabelle di numeri ma un racconto che ci faccia capire come sono interconnessi i numeri, come una guerra non è raccontata solo dalla sequenza di battaglie e di morti, sconfitte e successi, così come, paradossalmente, un bilancio non è solo un fotogramma a fine anno di una sequenza di spese e di guadagni, anche la memoria non è la sola sequenza di date e fatti ma la narrazione delle connessioni, delle scelte e degli errori dei protagonisti.

Ma questo non rende la memoria parziale? Certo, ogni narrazione ha, per definizione, un narratore, un punto di vista, che in base alla sua lente di interpretazione dei fatti e delle informazioni dell’archivio potrà narrarci una memoria diversa. Non è un caso che uno degli atti politici più importanti dell’illuminismo sia stato fatto non da politici o statisti, ma da intellettuali. La prima metà del 1700 è costellata da progetti che mirino a narrare il mondo presente sotto forma di quella che Diderot e D’Alambert chiamarono Encyclopedie, decidendo a tavolino cosa fosse degno di essere conosciuto, mandato ai posteri, trasformato da fatto in memoria a, nuovamente, fatto. L’atto stesso di scelta di un argomento da mettere o meno nell’encyclopedie è un atto che ha una serie di motivazioni più o meno importanti, più o meno ragionate, più o meno politiche. E l’enciclopedizzazione del presente diventa quindi uno strumento di comunicazione potentissimo. Non è un caso che l’enciclopedia Treccani, in Italia, sia nata nel 1925 a Roma su volontà di Giovanni Treccani, mecenate, e Giovanni Gentile, già ministro della pubblica istruzione sotto il governo Mussolini. La motivazione di un progetto di questo tipo, in un regime politico come quello fascista, andava nella direzione di “brand awareness”, come la chiameremmo oggi, del marchio “Italia fascista”. Una enciclopedia narra al mondo quale sia l’immagine e di conseguenza la memoria che una data situazione sociale e politica vuole dare di se’.

Gli antichi si ponevano, evidentemente, lo stesso problema, guardando ai fatti del loro, più breve (ma di poco, rispetto all’età dell’universo), passato. Gli antichi popoli della terra, alla vista di fatti inequivocabili, come la presenza di enormi femori di quelli che oggi sappiamo essere dinosauri, avevano elaborato una narrazione legata ai miti dei giganti, avevano associato la complessità di fenomeni oggi interpretati come scientifici a entità magiche, mistiche e religiose che a tuttora sono presenti in angoli remoti della cultura. La memoria del passato, quando composta più di narrazione che di fatti, diventa mitologia e leggenda. D’altra parte è la stessa mitologia che ci porta a guardare affascinati Salvate il Soldato Ryan e La sottile linea rossa al cinema: La creazione di una mitologia collettiva a partire da un passato fatto di fatti documentati.

Questo rito di mitologizzazione del passato è un elemento integrale della parte di ricostruzione di una memoria anche personale. Per proteggere il nostro presente, andremo quasi sempre a selezionare solo ed esclusivamente i ricordi che narrativamente corrispondono a quello che in un dato momento vogliamo provare, entro certi limiti, mentre di ricordi più fastidiosi, o con elementi più discutibili, il nostro processo di ricostruzione andrà a selezionare solo le parti che effettivamente si allineano con la narrativa che noi in primis vogliamo dare a e di noi stessi. Questo porta a due effetti: la commercializzazione della nostalgia e la Cancel Culture.

La Cancel Culture rappresenta l’eliminazione di ogni aspetto grigio nella narrazione del passato perchè non rispetta i dettami della narrazione che oggi vogliamo dare di noi stessi. Washington è stato forse uno dei più intelligenti statisti americani, è un simbolo di una nazione costruita con le proprie forze. Ma non è un uomo perfetto, è stato uno schiavista come quasi tutti i suoi contemporanei bianchi. Persino Jefferson, autore della dichiarazione di indipendenza e intellettuale di altissimo livello sui due lati dell’Atlantico (le sue posizioni egualitarie sono ben evidenti nel documento dei diritti dell’uomo, firmato a Parigi) considerava gli schiavi meno umani di lui. Ironico, oggi, che uno dei suoi eredi sia di colore, ovviamente. Il fatto che nel loro contesto storico fossero allineati con il sistema sociale non li rende personaggi peggiori, rimangono comunque statisti e intellettuali di altissimo livello. Non possiamo giudicare il passato in funzione di un presente con valori e riferimenti totalmente diversi, possiamo al massimo capirlo, astrarlo ed accettarlo. Sicuramente non possiamo decontestualizzarlo.

Questo, infine, ci riporta all’inizio. La memoria, personale e collettiva, non può essere un fardello da cui farci schiacciare per un futuro, ma deve essere una scala per consentirci di guardare il futuro da un punto più alto, sapendo cosa è stato, cosa abbiamo sbagliato, quali fossero le condizioni dalle quali eravamo partiti e quali situazioni analoghe ci potremmo trovare davanti. Ed è proprio la narrazione di un evento collettivo, un uragano violentissimo che colpì i caraibi nel 1772 circa, fatta dall’allora giovanissimo Alexander Hamilton e talmente vivida da essere pubblicata nel Royal Danish American Gazette a trasformarsi in evento sufficientemente significativo da portare gli altri isolani a mandare il giovane prodigio a studiare al King’s College di New York. Royal College che lui stesso, solo 5 anni ma molti incontri, successi ed errori dopo, sarà tra i rifondatori con il nome moderno di Columbia University.

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Marco Montanari
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Software Architect who lives for AI, Software Design, Software Philosophy and Art as well as everything around them, spanning from History to Archaeology…