Il mio #SalTo2019

Chiara Lugaro
SLAMwork
Published in
4 min readMay 14, 2019

Una principiante al Salone del Libro di Torino

Sono le 8:20, come sempre di mattina sono in ritardo, quindi scendo in velocità e corro a Milano Centrale. Arrivo con l’affanno (una signora mi chiede allarmata: “Ti senti male?”), salgo al volo sul treno che in un’oretta circa mi porterà al Salone Internazionale del Libro di Torino — che nome altisonante — e mi metto comoda.

A quel punto comincio giustamente a origliare i discorsi della gente seduta davanti o dietro di me. C’è chi parla dei libri che vuole comprare o degli incontri a cui partecipare, chi invece scambia con la vicina qualche pettegolezzo piccante sull’autore del momento (avete detto “scambismo”?). Si sente già una certa leggerezza nell’aria che promette bene e mi mette di buonumore (e pure il gossip fa la sua parte).

Arrivata agilmente a Torino Porta Nuova e poi con la metro al Lingotto, il buonumore svanisce così com’era arrivato: ma che code ci sono??? Quanto ci metterò a entrare? Per fortuna mi gioco la carta “Professionali” e passo facilmente, alla faccia dei comuni mortali che mi circondano. Sono finalmente dentro, mi guardo in giro, un po’ confusa, un po’ in estasi, cercando di scorgere le espressioni della gente e anche di capire in che padiglione sono, perché con tutti questi cristiani non è facile come sembra.

Ho passato due giorni al Salone, due giorni in cui ho macinato chilometri muovendomi solo tra i vari padiglioni, in cui ho consumato le scarpe a furia di fare code (le peggiori quelle per il bagno), in cui ho maledetto il bisogno di bere. Però la prima parola che mi viene in mente per descrivere il Salone è: bello. Sì, sarà generico, sarà banale, però per me è bello ritrovarmi circondata da una fiumana di gente a cui leggere piace davvero, che è disposta a farsi ore di coda per uno dei millemila eventi del fine settimana, che discute e si interessa alle case editrici e alla situazione dell’editoria, in barba alle statistiche di lettura. Perché quando ti ritrovi lì senti, per una volta, che siamo tantissimi, che siamo pure agguerriti, che “we care”.

Fuor di retorica, a noi importa stare dove stiamo, e quindi passiamo da una coda all’altra, da uno stand all’altro, cercando di domare la spinta a comprare ancora un libro, fallendo ancora e ancora (la prossima volta falliremo meglio, lo giuriamo). E sono tante le code che ho fatto senza riuscire a entrare, tanti i momenti in cui mi sono ritrovata stipata tra l’ascella di uno e il gomito di un’altra (maledetta bassezza), e tutto per sentire cosa aveva da dire Luca Briasco su Philip Roth o Alan Pauls sulla lettura. E cosa succede quando ascolti questi strani figuri? Succede che ti innamori ogni minuto di un libro diverso che vorresti avere già tra le mani, in un vortice di promiscuità libraria che farebbe inorridire le nostre nonne. Succede che sei felice di stare dove stai, solo che non vedi l’ora di andare in ostello (siamo sognatori e quindi poveri) e di metterti a leggere, finalmente. Succede che vuoi sempre qualcosa di più, che il tuo orizzonte si sposta sempre un passo avanti. Insoddisfatti nati, lettori nati.

E cosa dicono gli editori del Salone, molti dei quali piccoli piccoli così? Ne ho interrogati diversi, e mi hanno parlato di un’esperienza molto positiva con il pubblico. La gente si ferma, fa domande, ma la chiave è come sempre il rapporto umano che si riesce a creare con le persone (“Tu cosa leggi?”, e sei fregato). È questo che si respira al Salone, la voglia di fare parte di una comunità di persone che non si conoscono ma che hanno qualcosa in comune. Certo, ogni tanto una vocina sussurra che fuori fa freddo e che un po’ sembra che ce la cantiamo e ce la suoniamo, ma noi le rispondiamo che abbiamo anche dei difetti.

Le pecche ci sono, va detto: dagli editori lasciati un po’ defilati, ai padiglioni organizzati in maniera a tratti confusionaria, alla cartina che talvolta non corrisponde alla distribuzione reale degli stand (ad esempio ho cercato per mezz’ora Interno Poesia senza trovarla, poi ho rinunciato, guai a chiedere), alla grafica — a mio parere — pesantemente al di sotto degli standard soliti. Però si sa, la perfezione non esiste, e noi accettiamo il Salone così com’è (salvo poi lamentarcene nuovamente al prossimo giro).

Sono tornata a Milano domenica sera con un male tremendo ai muscoli delle cosce, ad una spalla (shopping bag del cavolo) e al tallone, me lo sono sbucciato (sono una trentenne solo per modo di dire). Sul treno ero seduta (alleluia!) bella comoda, la temperatura era ottimale e di spazio vitale ce n’era in quantità, però ero triste, come quando le cose belle finiscono. Un altro sabato del villaggio era andato, e io sentivo che mi mancava qualcosa. In breve però lo scontento è passato: mi è bastato aprire lo zaino, tirare fuori un libro e iniziare a leggerlo, sognandone, come sempre, un altro.

Un anno passa in fretta.

Alla prossima, #SalTo.

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