Mario Luzi e il poetry slam

Chiara Lugaro
SLAMwork
Published in
3 min readNov 15, 2018

“Sì, bello, però la poesia è un’altra cosa”

Quante volte abbiamo sentito pronunciare questa frase in riferimento alla slam poetry con intenti più o meno denigratori? Quante volte ci siamo impelagati in conversazioni più o meno sterili sul perché la poesia è morta, su cosa può significare fare poesia oggi, e soprattutto sulla slam poetry e in generale sugli slam?

Di sicuro tante, troppe volte, eppure spesso da questa polemica infinita non è facile tirare fuori idee e spunti che vadano effettivamente oltre il luogo comune. Per questo, e anche per fare un altro po’ di polemica (diciamolo, ci sta sempre) vi proponiamo un pezzo del nostro Paolo Agrati, il quale ci dice la sua sul perché, in sostanza, non ha alcun senso opporre poesia e slam poetry.

Buona lettura e buona polemica!

“Mario Luzi non vincerebbe mai un poetry slam e nemmeno Montale e nemmeno Sereni. Pare che non lo vincerebbe nemmeno Saba.”

E questa affermazione che cosa cazzo mai vorrà dire?

Luzi non lo vincerebbe mai un poetry slam perché ascoltare Luzi era (ed è) soporifero. Coinvolgente come un karaoke di musica Birmana. Luzi che legge è di una noia mortale, è come un film nordcoreano su Pulgasari.

Ognuno del resto fa quello che è capace di fare. Leggetelo Luzi, ma non ascoltatelo mai. A meno che non soffriate di insonnia.

Proporre quest’idea per sminuire il poetry slam è una scempiaggine. Affermazioni di questo tipo dimostrano che chi le fa non sa cosa sia uno slam o non ne ha proprio capito il senso.

Vi dirò un segreto: il poetry slam non si propone di trovare e individuare il miglior poeta in circolazione.

Si propone di diffondere poesia orale, di sperimentare la voce, il corpo e la voglia di mettersi in gioco, di mettere l’opera del poeta alla mercé di chiunque, di avvicinare il linguaggio a quello di chi ascolta, di trovare nuovi lettori. Cosa che l’Accademia non riesce a fare.

Certo si rischia di essere votati da un mentecatto, da uno che di poesia non ne sa nulla. Ma fa così tanta paura? Ed è sempre necessario essere eruditi per godere di una poesia?

Conosco molta gente che non sa perdere, altra che non sa giocare o inorridisce al solo pensiero che la poesia possa essere associata al gioco. Si rischia, vi dirò, di incontrare una voce affine che non per forza è tra i vincitori, si rischia addirittura di appassionarsi alla poesia.

Il poetry slam non è LA risposta alla domanda di poesia.

È una delle risposte. E chi non lo riesce a vedere come tale non è in grado di comprendere che semplicemente sono molte le risposte che si possono dare ad una domanda.

Se non hai voce, se non sai usare il tuo corpo, se non hai capito che il senso di questi incontri non è quello di vincere, non resta che non partecipare. Il mondo è pieno di occasioni per leggere le proprie cose, di strumenti per diffondere la poesia e fortunatamente non tutti con la puzza sotto al naso.

C’è da dire che se la gara fosse intesa nella sua forma più abbietta, non creerebbe vincitori ma una schiera di perdenti. Ci sono molti modi però per intendere una competizione. E di fatto lo slam cerca di ridurne al minimo i meccanismi. Il voto del pubblico riporta il poeta tra il pubblico, tra i lettori che mancano; certo non è uno strumento perfetto, ma personalmente di strumenti perfetti non ne ho ancora conosciuti, ne ho conosciuti solo di migliorabili. E la mediocrità non è una prerogativa di chi costruisce poesia orale, è bensì una costante trasversale.

Le scelte che può fare uno scrittore sono diverse, molte con piena dignità. Togliere la dignità alla scelta che non si vuole comprendere è però l’unica che non mi sento di sostenere.

NB: Giuseppe Ungaretti, per esempio, lo vincerebbe un poetry slam, e non solo secondo me.

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