Di necessità virtù

Sara Ferrari
Social Mustard
Published in
4 min readOct 4, 2015

J. è una ragazza belga che ho avuto il piacere di conoscere in Erasmus nel palazzo in cui vivevo, popolato da altri studenti internazionali e non.

Spesso nella cucina comune, io e la mia coinquilina organizzavamo cene italiane, molto apprezzate da tutti. Una sera proprio mentre mi stavo dedicando alla preparazione di una tipica pasta al sugo, J. mi confessò di essere intollerante al glutine. La notizia mi mandò abbastanza in paranoia in quanto quella sera ero in procinto di organizzare una sorta di“Fiera del Carboidrato”. Ero desolata, ma lei sorridendo gentilmente alla mia reazione sbigottita mi spiegò che aveva già messo in conto l’eventualità di mangiare diverso da noi e si presentò con pane, pasta e dessert che fossero adatti a lei.

Mi feci allora spiegare come avesse scoperto questo disturbo e come lo vivesse. Vi risparmio la parte delle analisi mediche e affini. La parte che intendo sottolineare è questa: mi confessò di sentirsi spesso a disagio alle cene con amici, a mensa e al ristorante, tanto da dover spesso declinare alcuni inviti. Inoltre si riteneva parecchio “frustrata” dal dover rinunciare ad alcuni cibi particolarmente golosi che non avevano un sostituto “gluten free”. Parlammo a lungo di tutto ciò e cercai di consolarla promettendole di stare più attenta le volte seguenti. Nei mesi a venire infatti spesso le cucinai piatti gluten free altrettanto sfiziosi.

Quello che però attirò la mia attenzione fu un atteggiamento del tutto diverso nella sua bacheca Facebook e nella sua pagina Instagram.

Fonte: Instagram

Quasi ogni giorno, tutt’ora, J. pubblica post, quasi sempre foto, di ricche colazioni, pranzi e merende idilliache con amici a base di cibo “gluten-free”. Nessuna traccia di quell’imbarazzo, quel disagio e rabbia verso la sua intolleranza per il quale spesso si sfogava con me. Ormai sono due anni che non vedo più J. di persona ma il risvolto che i suoi profili social hanno preso sono particolarmente interessanti. Non solo il suo numero di followers è aumentato parecchio ma J. ha ormai da qualche mese aperto un blog dedicato al cibo senza glutine, nel quale fornisce consigli su ricette, ristoranti da provare, libri e siti web per chi come lei deve “combattere” con questa intolleranza. Circa un mese fa ha postato un video che la ritraeva ospite in un programma televisivo di un’emittente belga nel quale racconta la sua esperienza (l’intervista è in olandese ma dalla descrizione ho potuto constatare che si trattasse di una serie di domande sul disturbo e sul suo blog di successo). Inoltre, tra gli ultimi post compare una foto del suo primo giorno di lavoro che, udite udite, pare essere presso un’azienda che si occupa di prodotti alimentari senza glutine.

Insomma, che dire? Brava J. che hai fatto del tuo disagio un argomento da approfondire e da rendere non un problema ma un’opportunità per aiutare gli altri e per fare carriera.

Quello che però è rilevante ai fini di una ricerca psicologica sociale è che, come afferma Sonia Utz in un articolo dell’aprile del 2015, dal titolo:

“The function of self-disclosure on social network sites: Not only intimate, but also positive and entertaining self-disclosures increase the feeling of connection”

I post che noi andiamo a pubblicare sui social difficilmente sono messaggi davvero intimi, sono piuttosto legati ad una rappresentazione che vogliamo dare di noi e sono quasi sempre positivi. I social, in questo caso, Instagram e Facebook sono ambienti in cui la comunicazione pubblica e privata rimane sfuocata e i contesti sociali che vi sono nella realtà crollano. Ed ecco che l’immagine che diamo sul web spesso e volentieri modifica l’idea che gli altri hanno di noi, ma noi vogliamo dare un’immagine positiva e serena di noi stessi agli altri perchè vogliamo essere in armonia con il mondo che ci circonda, altrimenti non sorrideremmo neanche nelle foto.

J. ha trovato lavoro in quell’ azienda grazie all’ immagine che ha dato di lei sul blog e suoi social. Citando James ci si potrebbe chiedere qual è la J. materiale, quella sociale e la J. spirituale.

E ancora facendo riferimento a Mead, la realtà è mediata dai significati condivisi e noi “siamo” in quanto attraverso il processo di oggettivazione siamo “altro per gli altri”.

J. non è più la ragazza timida e insicura che ho conosciuto io ma una persona di successo e soddisfatta, almeno online. Lo sarà anche nella realtà?

Fonte: Facebook

--

--

Sara Ferrari
Social Mustard

Communication student settled in Milan. I love art in all its sides, cooking cakes and travelling. Erasmus in Belgium is still in my heart.Instagram:@lesnuggets