Salvo, io

[Sogni sulle sedie]

Salzbox
Sogni sulle sedie

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Salvo, io

Il giorno che mi partorì, mia madre aveva trentanove anni. Molti anni, forse, a quell’epoca di ragazzine madri e di nonne trentenni.

Fu per questo o non per questo che io venni al mondo già morto agli occhi di tutti. Viola. Zitto e fermo, freddo come un pesce al mercato. Viola e trasparente, con il sangue ingorgato ma gonfio. Così dicono le storie di famiglia. E dicono che il medico e la signora levatrice avevano dato rassegnazione a tutti: il bambino è nato ma non vive.

Mi salvò lo sguardo attento e fisso, forse disperato, ma fisso e fissato come solo la malinconia ti fa stare, lo sguardo bloccato di mio padre. Si fosse messo a piangere, e magari gli occhi lo annebbiavano, o fosse uscito per strada o sul balcone a fumare dalla rabbia, se mio padre che già a quel tempo ingrassava per depressione e tristezza siciliana non m’avesse guardato così a lungo, così dolcemente smarrito, nessuno avrebbe visto mai che quel pezzo di carne viola aveva mosso, appena appena, le labbra. Una cosa da poco, come la debole spinta di una foglia nuova in primavera. Un’apertura da niente. Un piccolo sforzo per chiamare l’aria.

Che cosa avrà gridato mio padre? Qualcosa come: “È vivo!”. Aggiungendo una bestemmia, forse, fate voi. “Dottore, dottore, non è morto!”. E forse qui la bestemmia ce l’ha messa. “È un miracolo!”. E tutti a passare dal pianto alla speranza. “È salvo! È salvo!”.

Le storie di famiglia dicono poi che per svegliarmi e smarinarmi e farmi vivere davvero e del tutto mi presero a schiaffi e mi tuffarono nell’acqua, fredda o calda non lo ricordo.

Però mi sbagliarono il nome. Ero stato salvato, ero salvo, ma le pigre abitudini siciliane fecero sì che in ricordo di quel miracolo il nome che a tutti venne in mente fosse Salvatore. L’Oggetto diventò Soggetto. Il contrario, tutto al contrario.

Poi qualcuno andò a prendere una sedia.

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