Aello imprigionata

Mi manca l’aria.
Da quando Ulisse ha incastonato il mio corpo nella profondità basaltica di queste rocce, non ho unico pensiero che risalire in superficie e avere la mia vendetta.
Non capirò mai perché mi ha segregata qui, viva, nel cuore freddo della terra.
Dove le ore passano uguali: un’atra notte senza inizio né fine.

Mi manca l’aria.
E la luce, librare il mio corpo alato sulla pochezza dell’uomo.
Sognavo forte, ad occhi chiusi, la libertà, la sognavo colorata di cremisi.
Per mesi, anni interi… o erano attimi?
Sognavo così forte la mia rinascita dal ventre buio, risputata nel vento: tornavo a vivere la mia seconda doppia vita, l’uccello come la donna di nuovo insieme; ad affilare nella pietra gli artigli per non spezzarmi le unghie, il ricordo intatto di una femminilità anteriore.
Anteriore ad un’altra notte senza inizio né fine.

Mi manca l’aria.
Era solo un sogno, di cui resta un ricordo intatto, come quelli in cui piangi e ti svegli col volto salato, rigato di lacrime.
Sarà un sogno, lo era, è: un sogno che afferra e penetra la realtà.

Scalfisce la pietra, scava a denti stretti, ancora e ancora.
Un alito tra le penne sporche, una carezza improvvisa, mi coglie impreparata.
Un sussurro dolce sulle guance, poi un altro sulle labbra, un altro ancora, e ancora.
Graffio con le mani, le zampe, i denti, con tutta me stessa.
Bacio ardentemente la mia prigione di cristallo nero, mordo l’aria, l’aria bacia me, mi afferra, mi penetra, è un magma che canta fino ad esplodere; e in me grida incandescente il rapace, gode e imporpora la donna, brucio in un fuoco eterno di orgasmi multipli.

*****

In un mattino d’inverno, il vulcano vomitò un volto fiammante, dal corpo gassoso di fenice.
L’eruzione continuò senza sosta per giorni.
E il mondo divenne una sfera infuocata; presto gli mancò l’aria.