40 anni di Diritti Umani — Siamo ancora nel deserto

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5 min readMar 31, 2017

Teoria in attesa di Pratica

di Robert Van Voren

Immagine di vil.sandi tratta da Flickr in CC

Quando Mosè condusse il popolo ebraico fuori da Israele, gli era stato detto di tenerli nel deserto per 40 anni prima di raggiungere la Terra Promessa. La ragione era chiara e semplice: occorrevano generazioni per liberarsi dalla schiavitù e diventare uomini liberi. Così mentre vagavano per 4 decenni nel deserto, incontrando difficoltà dopo difficoltà, le vecchie generazioni morivano e quando Mosè riuscì a condurli alla Terra Promessa erano rimasti solo giovani e seguaci incontaminati.

Il 2017 è per me un anno significativo: sono ormai 40 anni che ho inziato il mio lavoro di attivista dei diritti umani, dall’età di 17 anni, quando ho preso questa decisione che ha determinato il corso della mia vita e ha cambiato le mie percezioni per sempre. Era il 1977, quando decisi di diventare un attivista per i prigionieri politici nella allora URSS. Il mio primo caso riguardava il sergente Adamovich Kovalyov e ricordo bene che andavo di porta in porta nel mio quartiere a Rotterdam in cerca di firme per una petizione che chiedeva il rilascio di Leonid Brezhnev. Molti di coloro che osarono firmare, in realtà misero solo una X sotto la petizione, per il terrore di essere scovati e catturati un giorno dalle truppe sovietiche che avrebbero invaso la loro città.

Successivamente, in poco tempo ho avviato una commissione europea per la difesa di Aleksandr Podrabinek, che era stato arrestato e condannato in primo grado, e nello stesso periodo il poi famoso dissentente sovietico e prigioniero politico Vladimir Bukovsky mi prese sotto le sue ali.

Il risultato è che ora, dopo 40 anni, io sono ancora coinvolto nella difesa di prigionieri politici nel centro della URSS, Russia, (che presto si ristabilirà come la stessa Urss, comunque) lottando contro il ritorno dell’uso della psichiatria per il prigionieri politici in Russia e nelle Ex repubbliche sovietiche.

Mentre guardo al passato mi domando quanto sia cambiato.
Abbiamo ottenuto qualcosa o questi anni — decenni — sono in realtà stati un dispendio di energia e di impegno, e noi siamo tornati al punto di partenza?

Fin dal principio, il mio interesse si è rivolto ai prigionieri politici che erano stati rinchiusi all’interno degli ospedali pscihiatrici. Questa pratica si era conclusa con successo al termine del periodo sovietico, sebbene io mi chieda ancora se la vecchia volpe di Eduard Shevardnadze abbia fatto davvero qualcosa in più per far finire questa pratica rispetto ai nostri anni di campagna.

Come conseguenza, mi sono impegnato totalmente nella riforma dei servizi di salute mentale nella ex Unione Sovietica. Con gradualità, il lavoro della mia organizzazione, l’Iniziativa Globale per la Psichiatria (GIP) ha ampliato il proprio raggio di azione nell’Europa Centrale e dell’Est, e successivamente anche in alcuni paesi africani, in Sri Lanka e in Indocina.

Letteralmente centinaia di professionisti di altissimo livello si sono uniti al nostro lavoro, hanno messo a disposizione la propria esperienza, hanno lavorato su centinaia di progetti, supportato pazienti e loro familiari e professionisti con una mentalità innovative e dovunque, abbiamo lottato contro il vecchio sistema di imprigionamento di persone affette da disagio mentale all’interno di enormi e disumane istituzioni.

Questi progetti, sia grandi che piccoli e la conoscenza di così tante fantastiche persone che hanno dedicato tempo ed energia ad un comune obiettivo hanno fatto volare il tempo e 40 anni sono passati in un attimo. Solo guardandomi allo specchio mi convinco che non sono più l’attivista dei diritti umani degli anni 80 coi capelli lunghi, vestito con un cappotto di pelo nero o con un giacchino che mi ha fatto guadagnare la nomea di essere uno della ala destra della sinistra radicale.

Molto resta ancora da fare. Così tanto che uno potrebbe quasi deprimersi, se non fosse per il fatto che ci sono ancora persone che si uniscono ai nostri ranghi, che credono nelle stesse cose, e sono motivati a dedicarci il proprio tempo e la propria energia.
In moltissimi dei paesi in cui abbiamo lavorato — o continuiamo a farlo — la situazione è profondamente diversa, e sicuramente in meglio, nonostante la maggior parte di nostri obiettivi — forse troppo ottimistici — non siano stati raggiunti.

La situazione è più triste quando penso al mio primo luogo di attenzione, la URSS o, come ora si chiama, la Russia. Deliberatamente accosto i due nomi, URSS e Russia, perchè nell’ultimo decennio l’URSS è stata ristabilita dall’erede fedele di Yuri Andropov, il capo del KGB tra il 1967 e il 1982, che è stato il mio principale avversario (senza saperlo, ovviamente).

Sotto la guida del fidato pupillo di Andropov, Vladimr Putin, la Russia è scivolata indietro dentro il modello del vecchio Soviet, è diventata una versione cinese della URSS, dove si può fare affari ed essere uno spietato capitalista finchè si tiene la bocca chiusa e non si diventa parte della “quinta colonna” e un “nemico del popolo”.

Putin ha messo insieme il peggio del capitalismo con il peggio dello Stalinismo, e ha scaltramente usato tutte le capacità della FSB per sovvertire la democrazia occidentale. Lui ha anche rintrodotto l’uso della psichiatra a scopi politici, sebbene non sia ancora diventato uno strumento sistematico di repressione come lo era nell’URSS.

Quando guardo indietro a questi 40 anni, sono preoccupato perchè la situazione ora è di gran lunga più pericolosa di quella di quando ho iniziato a lavorare come attivista dei diritti umani.

In tutta onestà ho molta paura per il future ma non per me stesso. Ho paura del fututo per i miei figli e le persone amate, ho paura per il futuro dei paesi che ho imparato ad amare, le ex repubbliche sovietiche che sono riuscite a liberarsi dalla dominazione russa e chi più chi meno, si sono staccate dalle catene del Sovietismo.
Durante questi 40 anni sono emigrato nell’ex URSS, emozionalmente e poi anche psicologicamente, e sono diventato parte di quella regione che ora chiamo casa mia.
Questo ha avuto delle conseguenze.
Quando il presidente Adamkus mi ha onorato conferendomi la cittadinanza lituana nel 2003, ho pienamente compreso che la cittadinanza mi dava sì dei dirtti, ma anche dei doveri.
Questo comporta mettere le proprie impronte su questioni dolorose, quali ad esempio le pagine nere dell’Olocausto, ma anche difendere il paese contro il desiderio irrefrenabile di alcuni russi di considerare la Lituania cosa loro — ossia parte dell’impero russo.

Lo stesso impegno sento per altri paesi della regione che chiamo la mia, e con lo stesso tipo di responsabilità — a supportare, difendere, a criticare e ad aiutare il cambiamento della società post — sovietica verso qualcosa che noi tendiamo a chiamare società civile basata sul rispetto della legge.

40 anni sono volati via in un attimo, e questo è stupendo. Ma non c’è tempo di sedersi e rilassarsi. Putin in Russia, Trump negli Stai Uniti, la possibilità di Le Pen in Francia e Winlders in Olanda, questo è abbastanza per stimolare un mezzo cadavere all’ azione.
Pensando cioè ai pericoli che avanzano, sento la stessa energia che avevo 40 anni fa, quando ero solo all’inizio di una lunga e tortuosa strada, senza conoscere ancora la direzione finale.

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