Correlazione fra povertà e disturbi mentali e sue implicazioni su esiti ed erogazione della cura
di Benedetto Saraceno
Direttore scientifico SOUQ — Centro Studi Sofferenza Urbana
“Il benessere mentale o psicologico è influenzato non solo da caratteristiche e peculiarità individuali, ma anche dalle circostanze socioeconomiche nelle quali le persone si trovano e dal contesto generale in cui vivono” (WHO, 2012)
In una prospettiva epidemiologica, povertà significa essenzialmente uno status socioeconomico (SES) basso, ovvero redditi eccessivamente ridotti, disoccupazione, livello di istruzione e status familiare bassi.
Negli ultimi 25 anni, diversi studi hanno evidenziato una stretta correlazione fra povertà e disturbi/malattie mentali.
Come chiaramente mostrato da Patel e Araya (1999) e Patel e Kleinman (2003), i cosiddetti disturbi mentali comuni sono circa due volte più frequenti fra le persone indigenti rispetto a quelle agiate: la depressione, per esempio, in qualsiasi popolazione presa in esame mostra tassi di prevalenza 1,5/2 volte maggiori nel gruppo dal reddito inferiore.
Fame, indigenza, sovraffollamento abitativo e debiti costituiscono significativi fattori di rischio per i disturbi mentali comuni.
Anche istruzione e occupazione sono fattori che giocano un ruolo importante nell’associazione fra povertà e disturbi psichiatrici: è infatti ormai assodato che bassi livelli di istruzione e disoccupazione sono fattori di rischio per le malattie mentali (Araya e Lewis, 2003); e che la disoccupazione è associata a un uso più intensivo dell’assistenza sanitaria e a tassi di mortalità più alti. Tale correlazione è valida anche in senso inverso, ovvero la malattia mentale è un significativo predittore di disoccupazione (WHO, 2012).
Schizofrenia
Come evidenziato dallo studio critico di Saraceno, Levav e Kohn (Saraceno et al., 2005), le persone con SES più basso corrono un rischio relativo di sviluppare schizofrenia 8 volte maggiore rispetto a quelli con SES più alto (Holzer et al., 1986). Inoltre, rispetto alle persone senza disturbi mentali, quelle che soffrono di schizofrenia hanno 4 volte più probabilità di essere disoccupate (Robins et al., 1991), un terzo più probabilità di non essere in possesso di un diploma di scuola superiore e tre volte più probabilità di essere divorziate (Cohen, 1993).
Già all’inizio degli anni settanta, Bruce Dohrenwed ha dimostrato come il SES sia inversamente proporzionale ai tassi di prevalenza di disturbi psichiatrici quali schizofrenia e depressione maggiore (Dohrenwed et al., 1969, 1974).
La scoperta di percentuali più alte di disturbi mentali fra le persone con SES basso ha suggerito che quest’ultimo possa essere un significativo fattore di rischio per il manifestarsi di disturbi mentali, per via dell’associazione fra SES basso e più gravi avversità ambientali. Si tratta della cosiddetta “ipotesi di causazione sociale”. Tale interpretazione è stata seriamente messa in discussione da chi ha argomentato che le percentuali di malattie psichiche sono più alte nei gruppi a SES basso semplicemente perché le persone che ne soffrono tendono a scendere verso quei gruppi. Questa è invece la cosiddetta “ipotesi di selezione sociale”. Di fatto alcuni studi hanno fornito prove che, almeno per quanto riguarda la schizofrenia, le persone che ne soffrono possono effettivamente scendere verso gruppi con SES più basso, oppure, se già ne fanno parte, non riuscire a emanciparsi. Scrivono Dohrenwend, Levav et al.: “per quanto sia necessario confermare questi risultati in altri setting con gruppi etnici diversi, essi forniscono prove preliminare all’ipotesi di selezione sociale” (Dohrenwed, Levav et al., 1992). Studi epidemiologici sulla comunità condotti in vari Paesi e su lunghi periodi hanno costantemente rilevato una proporzione inversa fra SES e tassi di prevalenza della schizofrenia (Dohrenwed, 1993).
Depressione maggiore
Il SES è anche associato alla depressione maggiore (Kohn et al., 1998) e l’ipotesi della causazione sociale viene supportata dalla maggior parte, sebbene non tutti, i rilevamenti. Tale correlazione è stata riscontrata anche nei Paesi poveri, come mostra la disamina degli studi condotti in diversi Stati africani e asiatici, che ha identificato le variabili collegate a un SES basso come fattore di rischio per i disturbi mentali (Husain et al., 2002).
In altre parole, pare che il modello di selezione sociale possa applicarsi alla schizofrenia, mentre quello della causazione sociale alla depressione.
Ampliare il concetto di “povertà”
Studi più recenti hanno chiaramente messo in luce come il concetto di “povertà” non possa limitarsi alla variabile “reddito”.
Un’esaustiva disamina delle riviste specialistiche di lingua inglese pubblicate a partire dal 1990 e tre report globali sulla salute mentale hanno identificato 11 studi sulla comunità incentrati sulla correlazione fra povertà e disturbi mentali comuni in 6 Paesi a basso e medio reddito (Patel e Kleinman, 2003). La maggior parte degli studi ha rilevato diverse connessioni fra indicatori di povertà e rischio di disturbi psichici, la più costante delle quali è l’associazione con bassi livelli di istruzione. Secondo Patel e Kleinman, la disamina di articoli che esplorava il meccanismo che lega povertà e disturbi mentali ha fornito prove deboli di una specifica ed esclusiva correlazione con i livelli di reddito. “Fattori quali senso di insicurezza e impotenza, repentini cambiamenti sociali, rischio di violenza e malattie fisiche possono spiegare la maggior vulnerabilità delle persone indigenti ai disturbi mentali comuni” (Patel e Kleinman, 2003). Da una parte, studi condotti nei Paesi industrializzati hanno mostrato una chiara associazione fra reddito basso e depressione nelle donne (Kahn et al., 2000), dall’altra però questi dati sono stati contraddetti da studi che dimostravano una relazione debole fra disparità di reddito e disturbi mentali comuni (Sturm e Gresenz, 2002). In effetti la questione è molto più complessa e sono stati individuate anche altre correlazioni fra percentuali alte di disturbi mentali e, per esempio, senso di insicurezza, vergogna o umiliazione, analfabetismo, genere e mutamenti sociali.
Alcuni studi hanno mostrato che i disturbi mentali comuni potrebbero essere significativamente correlati con insicurezza economica e una drammatica diminuzione del reddito: Araya et al. hanno scoperto uno stretto legame fra un ingente calo di reddito avvenuto nei sei mesi precedenti e il rischio di disturbi mentali (Araya et al., 2003). Sundar (Sundar, 1999) ha studiato i casi di suicidio fra i contadini indiani e questo fenomeno (analizzato anche in altri Paesi come Sri Lanka, Cile e altri Stati dell’America Centrale) potrebbe essere visto come ulteriore prova di quanto pesi l’insicurezza economica sulla salute mentale. Come notato da Patel e Kleinman (2003), l’impatto psicologico del vivere in condizioni di indigenza è spesso mediato da senso di vergogna, stigma e umiliazione derivanti dalla povertà (Narayan et al., 2000).
Anche l’analfabetismo, o comunque bassi livelli di istruzione, sono significativi fattori di rischio per i disturbi mentali comuni e alcuni studi hanno persino dimostrato una relazione esposizione-risposta fra livello di istruzione e tale rischio (Araya et al., 2001). Non c’è dubbio che la mancanza di istruzione possa rappresentare un ostacolo grave all’accesso al mercato del lavoro e di conseguenza alle risorse economiche (Husain et al., 2002).
Infine, come affermato da Patel e Kleinman, “ricerche epidemiologiche in molti Paesi in via di sviluppo hanno addebitato le alte percentuali di disturbi mentali comuni a fattori come discriminazione, disoccupazione e vivere in un periodo di rapidi e imprevedibili rivolgimenti sociali” (Rumble et al., 1996).
In conclusione, tutte le disparità sociali, livelli di istruzione bassi e, più in generale, tutte le condizioni di esclusione e sofferenza sociale possono essere considerati aspetti di un concetto più ampio di povertà nelle sue associazioni con i disturbi mentali.
La povertà come fattore di prognosi per gli esiti della malattia mentale
Da un punto di vista sia epidemiologico sia clinico, si tratta quindi di capire se la povertà influisca anche sul decorso a lungo termine e sugli esiti dei disturbi mentali. È un punto centrale del dibattito, poiché l’associazione fra SES ed esiti implicherebbe il non poter più affrontare i disturbi mentali senza prendere direttamente in considerazione il contesto di povertà, inclusa la “povertà del sistema di assistenza psichiatrica e dei relativi servizi”. Secondo Saraceno e Barbui (Saraceno e Barbui, 1997), una correlazione fra SES ed esiti comporterebbe che disturbi psichici come depressione e schizofrenia non potrebbero più essere trattati prescindendo dal contesto ambientale di povertà e discriminazione. Saraceno (Saraceno, 2004) ha inoltre dichiarato che, parallelamente alle classiche ipotesi eziologiche biopsicosociali, è necessario un identico paradigma per gli interventi di salute mentale: “La dimensione sociale della malattia mentale dovrebbe costituire una componente intrinseca degli interventi e non semplicemente una concessione nel modello eziologico”. La dimensione sociale della malattia mentale richiede una dimensione sociale del trattamento; le neuroscienze hanno fornito un contributo straordinario alla comprensione del cervello ma ben poche soluzioni pratiche. Questa affermazione ha implicazioni drammatiche, poiché negli interventi, l’enfasi dovrebbe essere spostata dai sintomi al funzionamento e alla disabilità.
Quello che dovremmo chiederci è perché, nonostante tutto, la psichiatria sembri essere così fortemente condizionata dall’egemonia del modello biomedico. La ragione dovrebbe essere ricercata non in una resistenza teorica da parte degli psichiatri verso le innovazioni provocate da approcci più olistici, bensì in una resistenza culturale e sociale alle conseguenze che un approccio biopsicosociale apporta (o meglio, apporterebbe se realmente applicato) nell’erogazione dell’assistenza psichiatrica. Spostarsi da una prospettiva biomedica a una biopsicosociale, infatti, implicherebbe importanti cambiamenti in vari ambiti: formulazione delle politiche di salute mentale, pratica quotidiana dei servizi e ruolo e status sociale degli psichiatri. Tali cambiamenti comporterebbero l’empowerment delle professioni paramediche, degli utenti e delle loro famiglie, così come, ultimo ma non per importanza, il riconoscimento del ruolo sia della comunità in quanto partner di cura sia della cooperazione fra i vari settori interessati oltre a quello della sanità, settori come la previdenza e l’assistenza sociale e l’economia in genere. In altre parole, la dimensione biopsicosociale richiede una visione molto più complessa e orientata alla comunità. A questo punto è importante chiarire una volta per tutte che il conflitto fra i diversi approcci, biologico, psicologico e sociale, è in sé un falso conflitto. Oggi, alla luce degli sviluppi delle conoscenze in neurobiologia, neuropsicologia, psicodinamica e sociologia, sarebbe insensato proporre un modello salute/malattia non interattivo né complesso. Il vero conflitto è fra il paradigma biomedico e quello della sanità pubblica. Il primo (a parte le maggiori o minori concessioni ai contributi della psicologia e delle determinanti sociali) pervade la psichiatria e tenta di fare lo stesso nella cultura della salute mentale, ed è un paradigma fortemente influenzato dall’approccio biologico anche quando ammette o accetta alcune rivendicazioni degli approcci psicosociali.
Il paradigma biomedico è lineare (un danno al sistema nervoso centrale provoca una condizione di malattia e il trattamento ha lo scopo di riparare quel danno), individualistico (salute e malattia sono determinate dalle risorse dell’individuo e i trattamenti sono mirati esclusivamente all’individuo) e non contestuale (ignora le interazioni fra l’individuo e il suo ambiente). È quindi un modello semplice, rassicurante e veloce. Oltre a ciò, le scienze dure (come le neuroscienze) gli conferiscono maggior dignità rispetto ad altri modelli e sono anche comprensibili le ragioni storiche per cui oggi gli psichiatri vadano fieri di essere parte integrante del discorso scientifico, dato che in passato molto spesso ne sono stati esclusi. Tutto ciò, però, per quanto possa fornire possibili spiegazioni all’egemonia del modello biomedico nella pratica psichiatrica, non è una buona ragione per escludere un approccio più esauriente e articolato. Le scienze hanno provato la complessa interazione fra geni, cervello e ambiente. Probabilmente, il modo giusto di superare l’eterno, accademico conflitto fra approcci separati e autoesclusivi senza proporre un’integrazione puramente di rito, è affrontare il conflitto reale, che, come già accennato, non è fra due modelli esplicativi di malattia mentale quanto piuttosto fra due paradigmi operativi: quello medico da una parte e quello della sanità pubblica dall’altra. Per concludere, quindi, non ci sono due versanti opposti, ma un unico fenomeno complesso che è necessario comprendere (Saraceno, 2010).
I ricercatori oggi ipotizzano il carattere poligenico dei disturbi psichici, elaborando modelli poligenici additivi che includono influenze non genetiche. Come affermato da Steve Hyman, in passato direttore del NIMH, “nonostante i geni forniscano strumenti ‘bottom-up’ criticamente importanti per studiare i meccanismi che conducono alla malattia, non meno cruciali saranno gli strumenti ‘top-down’ prodotti dalle neuroscienze integrate e dalle scienze del comportamento” (Hyman, 2000).
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L’ipotesi della “selezione sociale” privilegia l’origine somatica delle malattie mentali — e delle psicosi in particolare — ed attribuisce il riscontro delle maggiori frequenze di infermità psichica negli strati economici più disagiati “al moto verso il basso e alla deriva”, conseguenza delle limitate capacità di adattamento sociale imposte agli individui dalla patologia psichica.
Differentemente, l’ipotesi della “causazione sociale” conferisce invece un ruolo etiologico fondamentale ai fattori sociali ed ambientali ed interpreta l’elevata presenza di patologia nei ceti più bassi come collegata alle disagiate e conflittuali condizioni di vita in essi ricorrenti.
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