Costruire una comunità mediterranea ed euroafricana

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15 min readJan 31, 2017
Immagine di Álvaro Medina Ballester tratta da Flickr in CC.

La questione dei profughi è da tempo diventata centrale per l’Europa e per tutti noi; innanzitutto per una questione prepolitica, di elementare, umanità, che attiene alla nostra dignità: negando ai profughi la dignità che spetta a ogni essere umano la neghiamo anche a noi, o, come ha scritto il premio nobel Elfriede Jellinek, “trattando i profughi come feccia diventiamo feccia noi stessi”. Ma la questione dei profughi è centrale anche per altre ragioni:

Primo: la contrapposizione tra chi vuole respingerli e chi vuole accoglierli attraversa tutta l’Europa (e non solo l’Europa: l’ascesa di Trump negli Stati uniti ne è un altro esempio) e divide partiti e forze politiche, ma soprattutto le classi sociali, lungo confini che non sono quelli tradizionali. Di fatto, come hanno dimostrato le elezioni presidenziali in Austria, che rispecchiano situazioni sempre più diffuse anche altrove, siamo nel bel mezzo di una ricomposizione radicale degli schieramenti politici e sociali che apre spazi immensi all’iniziativa di chi sa cogliere il senso e le potenzialità di questa spaccatura. Per ora lo hanno fatto soprattutto le destre estreme che, facendo leva sulla richiesta di una politica incondizionata di respingimento, stanno avanzando in tutta Europa. In alcuni dei paesi membri dell’Unione sono già al governo. In altri ci potranno andare tra breve. Nella maggioranza dei casi condizionano comunque le politiche dei governi centristi o di centro sinistra, che ne adottano le misure, anche le più estreme, nel tentativo vano di non farsi portare via una parte consistente del loro elettorato. L’accordo con la Turchia, le barriere al Brennero, Ventimiglia, Idomeni, Calais, ne sono una prova. Ma per fare dell’Europa una fortezza verso l’esterno, riesca o no il progetto, si finisce inevitabilmente per trasformarla in una caserma e in una prigione verso l’interno: cioè nei nostri confronti. Le recenti svolte costituzionali, ma anche quelle in tema di lavoro, promosse in Francia e in Italia sono funzionali a questa trasformazione. Di fronte a questa offensiva lo schieramento delle forze favorevoli all’accoglienza è oggi sicuramente minoritario; per lo meno sulla scena politica. Si è visto ridotto a promuovere una politica di resistenza, che deve ancora individuare le gambe su cui camminare. Quelle “gambe” però ci sono: sono le decine di migliaia di volontari e di organizzazioni, soprattutto di giovani — quelli che ormai disertano quasi sempre le riunioni politiche — impegnate in attività di assistenza a chi sta cercando di raggiungere il suolo europeo o vi è già arrivato, senza peraltro trovare niente di ciò che andava cercando. Per ora sono un’avanguardia, attiva e numerosa, ma in gran parte senza voce, di uno schieramento che potrebbe essere immenso, soprattutto se si riuscisse a mettere pubblicamente in chiaro la posta di questa contrapposizione: cioè se si riuscisse a far capire a tutti che uscire sconfitti da questo confronto significa perdere anche in tutti gli altri.

In secondo luogo la questione dei profughi sta dissolvendo l’Unione europea. Se le politiche di austerità, anche nelle forme estreme assunte con l’attacco finanziario alla Grecia, avevano tenuto unito e in molti casi rafforzato un fronte comune tra tutti i governi europei, impegnato soprattutto a impoverire i propri cittadini, l’atteggiamento verso i profughi invece li divide in modo irreversibile: ciascuno cerca di scaricare sui vicini il peso di un flusso che ritiene insostenibile.

In terzo luogo, bisogna prendere atto del fatto che coloro che cercano una via di scampo in Europa stanno rivendicando il più elementare dei diritti umani: il diritto di vivere. Mentre i governi che cercano in ogni modo di respingerli stanno negando loro niente altro che questo diritto. Vita contro morte: questo è, e sarà sempre più nei prossimi decenni, il principale conflitto con cui ciascuno di noi e ogni governo si dovrà confrontare. Oggi i governi cercano di ricorrere alla falsa distinzione tra profughi di guerra, da accogliere perché lo impongono convenzioni internazionali sempre più disattese, e migranti economici, da respingere, perché non hanno diritto a una protezione internazionale, non sarebbero in pericolo, proverrebbero da Stati “sicuri”. Niente di più falso. Gli esseri umani arrivati in Europa negli ultimi anni e quelli che ci arriveranno nei prossimi provengono tutti da paesi attraversati da guerre e dittature, per lo più generate da crisi ambientali, provocate a loro volta dallo sfruttamento sfrenato delle loro risorse, in gran parte ad opera di multinazionali occidentali o cinesi, e da cambiamenti climatici già in corso; oppure da paesi dove l’ambiente è stato completamente devastato sia dalla guerra che dallo sfruttamento delle risorse. Per questo sono tutti profughi ambientali: una figura non prevista dalle convenzioni internazionali, ma destinata a dominare tutto il nostro futuro. L’Europa ha le risorse per accoglierli tutti; e per permettere a queste persone di costruirsi un futuro dignitoso, sia tra di noi, nei paesi di arrivo, che, in prospettiva, nei loro paesi di provenienza, quando e se quei paesi torneranno a essere vivibili. Ma questo solo a condizione di cambiare completamente politiche, abbandonando per sempre l’austerità, la subalternità alla finanza, la schiavitù del debito al proprio interno e la complicità con gli attori delle guerre in corso, quando non addirittura il suo impegno in esse, nei paesi che si trovano ai suoi confini diretti o indiretti. E innanzitutto finendo una volta per sempre di vendere loro armi; direttamente o attraverso qualche triangolazione. Per questo migrazioni ed esodi di profughi sospinti in larghissima maggioranza dalla guerra o dalla fame sono la questione principale intorno a cui si svilupperà il conflitto sociale, la lotta politica e il destino stesso dell’assetto istituzionale dell’Italia, dell’Europa e del mondo nei prossimi anni.

Le politiche di respingimento, sia quelle effettuate in maniera brutale, con barriere fisiche, o finanziando campi di concentramento “esternalizzati” (cioè fatti gestire da Stati terzi ridotti al rango di ascari), o lasciando annegare o morire di fame e di sete nel deserto un numero sempre più elevato di persone, sia quelle affidate ai cosiddetti “rimpatri” di persone che una patria non l’hanno più, sono tutte politiche che non hanno avvenire. Non perché non trovino appoggio da parte di un’”opinione pubblica” molto manipolata da forze e culture xenofobe, e anche da parte di popolazioni infastidite o incattivite da una presenza mal gestita dei nuovi arrivati. Bensì per una ragione molto concreta: perché, anche a prescindere dalle sue implicazioni etiche, dal cinismo che sempre lo accompagna, il respingimento non è una soluzione praticabile. Dove respingerli? Rigettarli tra le braccia dell’Isis, o di suoi molti emuli e affiliati, ormai presenti in quasi tutti i paesi da cui si originano quei flussi, accrescendo del pari le loro forze sia là che, per solidarietà, tra gli immigrati più radicalizzati dei paesi europei? Non farebbe che moltiplicare sia i fronti di guerra fuori e dentro i confini dell’Europa sia nuovi e ancor più massicci esodi. Stringere accordi con i governi dei paesi di origine perché li riaccolgano o li trattengono in patria? Molti di quei paesi sono già stati invitati e invogliati a farlo, ma non sono disposti o in grado di assecondare questa richiesta nemmeno a caro prezzo. Questa soluzione è sostanzialmente il cuore della proposta centrale del cosiddetto Migration compact proposto dal Governo Renzi; ma il prezzo di accordi del genere è comunque destinato a salire, e di molto, mentre i paesi europei meno esposti a quei flussi non sembrano assolutamente disposti a condividerne l’onere. Lo ha già dimostrato il vertice di La Valletta; ma lo dimostra anche la fragilità del cinico patto stretto dalla Commissione europea con la Turchia di Erdogan sotto la supervisione di Angela Merkel. Il cinismo, ma anche le difficoltà che la sua realizzazione sta evidenziando non lasciano prevedere un esito positivo neanche per una proposta che ne prevede l’estensione a tutti i paesi africani da cui si origina larga parte del più recente flusso dei profughi. Il prezzo da pagare dovrebbe essere destinato a finanziare misure di “sviluppo” di cui non sono noti i termini, ma che poco sembrano discostarsi dalle politiche neocoloniali che hanno precipitato quegli Stati nella condizione comatosa in cui si trovano oggi. Costruire e gestire più o meno direttamente (anche se sotto il velo di un coinvolgimento dei governi locali) dei campi di concentramento — e, in buna misura, di sterminio — in cui rinchiudere tutte le persone in fuga o sbandate che cercano di effettuare o stanno intraprendendo un viaggio verso l’Europa? Quei campi raggiungerebbero presto dimensioni smisurate, e sempre più difficili da gestire.

Come si è già detto, la prima conseguenza di misure come queste sarebbe comunque un irrigidimento autoritario e razzista delle politiche di tutti i governi dell’Unione europea, posto che questa sopravviva a scelte del genere. La seconda conseguenza sarebbe l’instaurazione di fatto di un controllo paramilitare dell’Unione, o di alcuni dei suoi Stati membri, su tutti o gran parte dei paesi di origine o di transito di quei flussi, per lo meno in Africa; il che, per l’Europa, vorrebbe dire portarsi la guerra in casa. Ma l’esito più probabile di una politica di respingimenti è quello di scaricarne l’onere sui paesi di primo accesso, chiudendo le frontiere interne del resto d’Europa nei loro confronti. Quali siano i terminali europei di questo gioco allo scaricabarile è ormai chiaro: Grecia, Italia e, forse, Spagna; gli unici paesi membri che con i loro 25mila chilometri di costa non hanno la possibilità di elevare muri e barriere fisiche (e amministrative) contro chi cerca rifugio in Europa. Coloro che vedono nel recupero di una sovranità a livello nazionale la strada di una emancipazione dai vincoli feroci imposti dalla governance europea alle politiche sociali ed economiche non tengono conto di questo: di fronte all’arrivo di sempre nuovi profughi, quella sovranità nazionale si trasformerebbe in una trappola per i paesi che si trovano sulla linea degli sbarchi. La lotta per l’accoglienza è un conflitto di livello europeo, per un’Europa diversa, da progettare e costruire insieme a quei milioni di profughi che cercano e cercheranno una via di salvezza in Europa, a quei milioni di migranti che sono già qui da tempo, e a tutte quelle comunità dell’Africa e del Medioriente che quei profughi hanno dovuto lasciare, da cui sono stati molto spesso incoraggiati e aiutati a intraprendere il loro pericolosissimo viaggio, e a cui molti di loro vorrebbero far ritorno appena possibile. È una lotta che si vince o si perde insieme. Condotta a livello nazionale è persa in partenza.

Inutile dire che la scelta dei respingimenti porterebbe rapidamente alla saturazione delle capacità di accoglienza (per quanto sommaria e mal gestita) di quei tre paesi. I rimpatri diventerebbero ben presto “affar loro” (cioè nostro), mentre gli altri paesi membri finirebbero per “lavarsene le mani”, come stanno già facendo con le ridotte quote di ricollocazioni stabilite dalla Commissione europea.
Ma questo è di fatto quello che sta già succedendo oggi con i cosiddetti decreti di “espulsione differita” a cui ricorrono sempre più spesso le autorità italiane: si abbandonano per strada senza soldi, senza documenti, senza riferimenti, senza la conoscenza della lingua, persone a cui è stato ingiunto di lasciare il paese entro una settimana, e a loro spese, perché non viene riconosciuto loro il diritto alla protezione internazionale. E’ come consegnarli direttamente alla clandestinità, alla criminalità, alla prostituzione, allo stupro, alla disperazione; nel migliore dei casi, al lavoro schiavo gestito dalle mafie. Ma se è stato possibile finora ricorrere a questo espediente con alcune migliaia di profughi, è evidente che non lo sarà più con le decine o le centinaia di migliaia che arriveranno.
Il Governo italiano, però, non ha mai posto il problema in sede Europea nella sua autentica dimensione e con la drammaticità che merita. Il Governo e le diverse forze politiche, ma anche la chiesa cattolica, comprese molte associazioni schierate a favore dell’accoglienza, o che si dichiarano comunque contrarie a respingimenti indiscriminati, continuano a sottovalutare le dimensioni del problema, limitandosi a un sommario confronto tra le cifre degli arrivi degli anni scorsi con quelle di oggi. Ma è il quadro complessivo ad essere completamente cambiato; ad essersi avvicinato di molte lunghezze a una dissoluzione di fatto dell’Unione europea che rischia di trascinare con sé tutte le sue istituzioni.

Possiamo e dobbiamo però guardare alle stesse cose in un’altra prospettiva, assai più positiva. Innanzitutto demografica: di qui al 2050 l’Europa, senza nuova immigrazione, avrà perso 100 milioni di abitanti: un quinto della sua popolazione attuale. Ma i 400 milioni restanti saranno sempre più vecchi, il che comporterà un peso insopportabile su chi ancora lavorerà e una drammatica stagnazione economica, che non ha niente a che fare con la cosiddetta decrescita felice. Va ricordato che il maggior dinamismo dell’economia statunitense è in gran parte riconducibile, più ancora che alle politiche economiche adottate, al continuo flusso di immigrati dall’America centrale e meridionale: in linea di principio tutti o quasi illegali, e perciò più facilmente sfruttabili; ma proprio per questo di fatto tollerati, per lo meno finora, sia a destra che a sinistra. Per colmare quel vuoto demografico l’Europa dovrebbe accogliere, di qui al 2050, tre milioni di immigrati all’anno: il triplo dei profughi arrivati nel 2015. Potrebbe anzi assorbirne anche il doppio senza subire alcun tracollo; ma cambiando ovviamente in modo radicale sia le sue politiche economiche che quelle sociali. Peraltro, fino al 2008, anno di inizio della crisi in corso, arrivava in Europa un milione di nuovi “migranti economici” all’anno, cioè quanti i profughi del 2015, che oggi vengono considerati “insostenibili”. Sono state le politiche di austerità che, oltre a creare in Europa milioni di nuovi disoccupati, hanno trasformato in un problema “insolubile” l’assorbimento di nuove forze di lavoro proveniente da altri paesi. D’altronde, tra il 1945 e la metà degli anni ’60 quattro paesi dell’Europa centrale, più il Regno Unito, pur in una fase di forte crescita demografica autoctona, avevano assorbito 20 milioni di profughi e immigrati: 10 milioni dall’Est e 10 milioni dai paesi mediterranei dell’Europa, dall’Africa e dal Maghreb o dal subcontinente indiano, realizzando con il loro contributo la ricostruzione postbellica e il cosiddetto “miracolo economico” di quegli anni. La minaccia di un sovraffollamento è dunque esclusivamente il frutto di politiche economiche restrittive e, sul lungo periodo, suicide.

Naturalmente, per accogliere una massa così grande di profughi e migranti i paesi europei dovrebbero attrezzarsi con politiche sociali ed economiche radicalmente diverse da quelle attuali; le stesse, peraltro, necessarie per assorbire la disoccupazione endogena e il disagio sociale, cioè la povertà, create dalle politiche di austerità. Ciò comporterebbe comunque una trasformazione radicale sia degli assetti sociali che della vita quotidiana di tutti i cittadini europei: una trasformazione che richiede anche una svolta nel modo di pensare il “diverso da noi” che la cultura dominante non è assolutamente in grado di produrre, ma che è compito di ciascuno di noi contribuire a elaborare, a mettere alla prova e a promuovere; soprattutto se non vogliamo accettare senza contrastarla, la deriva autoritaria, razzista, guerrafondaia e, in ultima analisi, votata allo sterminio, implicita nelle politiche di respingimento adottate da tutte le autorità europee, ancorché sotto varie quanto ipocrite coperture umanitarie. Anche per questo l’Europa ha bisogno di questi nuovi arrivati, perché ha urgente bisogno di abbandonare quella cultura della competitività universale che rende ciascuno di noi nemico di tutti gli altri e che è all’origine dell’attuale sclerosi morale e politica che ne blocca l’evoluzione. Solo un vero incontro con le culture, con le biografie e con le sofferenze di chi cerca la propria salvezza da noi può aiutarci a intraprendere questa svolta.

E’ comunque evidente che né il mercato né le misure che gli Stati possono adottare saranno da soli in grado di assorbire e includere un numero così alto di nuovi arrivati. Per questo bisogna ricorrere ad altri strumenti: non c’è solo da trovare casa e lavoro a milioni di persone; c’è soprattutto da promuovere il loro inserimento nel tessuto sociale con progetti personalizzati, in modo che non siano di peso per l’economia nel suo insieme, ma anzi vengano valorizzati come una risorsa aggiuntiva (e indispensabile) e non suscitino quei sentimenti di ripulsa che oggi la loro presenza, ma soprattutto la loro inattività e il loro isolamento, provocano tra la popolazione. Progetti personalizzati di questo tipo sono l’ambito privilegiato delle attività del terzo settore (quello che in Europa viene chiamata economia sociale e solidale). In Italia abbiamo ottimi esempi di questo lavoro, ma anche clamorose prove di molte sue degenerazioni in organizzazioni parassitarie o criminali (spesso meri strumenti o bracci operativi della corruzione e della criminalità che alligna nelle alte sfere della politica e dell’amministrazione pubblica). Occorre quindi mettere all’ordine del giorno il ruolo che l’economia sociale e solidale può e deve assumere nei confronti del problema dei profughi lanciando la proposta di un grande piano europeo per creare milioni di nuovi posti di lavoro. E questo è proprio ciò che oggi richiedono i settori che devono ricoprire un ruolo centrale nei processi di conversione ecologica indispensabili per contrastare i cambiamenti climatici in corso: agricoltura, edilizia, energie rinnovabili, mobilità, riassetto del territorio, assistenza alle persone. E’ un ruolo da affidare a imprese — esistenti o da costituire — dell’economia sociale e solidale, in modo che per tutti l’inserimento lavorativo venga accompagnato da programmi di inclusione sociale.

Purtroppo, per lo meno nell’ambito della cosiddetta sinistra, la centralità del problema dei profughi non viene ancora avvertita con l’urgenza che meriterebbe, mentre ovviamente le destre di ogni tipo rifiutano anche le premesse di una politica di accoglienza generalizzata. Ma proprio un piano del genere potrebbe avere un risvolto di grande interesse anche nell’ambito delle politiche cosiddette di rientro.
Non si tratta infatti di accettare come irreversibili i processi migratori verso l’Europa, anche se nel breve periodo non ci sono alternative all’accoglienza se non nella moltiplicazione delle stragi affidate al mare, alla fame, alle intemperie, alle malattie. La prospettiva di creare le condizioni per ridurre le spinte all’emigrazione dai paesi colpiti dalla miseria e dalla guerra non deve essere abbandonata. Questo vuol dire innanzitutto battersi e mobilitarsi per evitare il moltiplicarsi delle guerre, “umanitarie” o no, nei paesi che oggi ne sono investiti e in quelli che rischiano di esserlo domani. Ma il problema centrale è quello di creare dei circuiti in base ai quali agli arrivi possano corrispondere, anche se in misura minore, ma non irrilevante, dei ritorni volontari e delle motivazioni forti per farlo.

Per questo occorre considerare l’Europa e i paesi africani e mediorientali da cui provengono i profughi e i migranti di oggi come un’unica grande area che possa essere attraversata da interscambi non solo economici (necessariamente squilibrati per molto tempo ancora), ma anche culturali, sociali e civici (cioè tra città “gemellate”). I confini dell’Europa, che l’Unione sta cercando di allargare riducendo i paesi di origine dei flussi migratori in avamposti della sua trasformazione in fortezza, occorre invece farli percepire e vivere, innanzitutto nella coscienza dei cittadini europei, dei profughi e dei migranti di prima, seconda e terza generazione, come il perimetro di una nuova comunità euromediterranea ed euroafricana. Ma come?
Dire che occorre prima bonificare l’Africa per fermare quei flussi è sbagliato. Pe questo possiamo interpretare lo slogan “Aiutiamoli a casa loro” in tre modi diversi. Il primo è quello delle politiche di cooperazione allo sviluppo attuali, peraltro sempre meno finanziate (non solo da parte italiana) e destinate in larghissima parte (non solo da parte italiana) a far ingrassare imprese europee con finalità predatorie, a corrompere le classi dominanti locali (o addirittura a crearle e farle esistere come classi “compradore”, come si diceva una volta) e a disperdere il resto in mille rivoli scarsamente efficaci. Anche quando sono ben fatti e ben condotti (non è la maggioranza dei casi, ma ci sono anche quelli; e a volte le ragioni del loro fallimento vanno ricercate nelle scelte di chi li finanzia, aprendo e chiudendo senza alcuna logica che non sia l’interesse personale i rubinetti delle risorse finanziarie), i progetti di cooperazione sono comunque sempre iniziative di nicchia, che non incidono sulla dimensione effettiva dei problemi che stanno alla radice dell’esodo e, soprattutto, non si confrontano con la dimensione del disastro ecologico che i cambiamenti climatici stanno già provocando in molti paesi dell’Africa e del Medioriente. Il secondo modo di interpretare quel detto è quello adottato da molte destre (ma, di fatto, anche da molti governanti, prima tra tutti, Angela Merkel) per cui stanziamenti anche molto più consistenti, posto che si trovino, vanno destinati prioritariamente a trattenere (e internare) profughi e migranti in strutture appositamente costituite nei paesi di origine o di transito dei flussi. Che ciò significhi nient’altro che dichiarare guerra ai migranti si è già detto. Il terzo modo è tutto da costruire perché mira a rendere le comunità espatriate in Europa, cioè i profughi e i migranti (di prima, ma anche seconda e terza generazione) protagonisti di una politica di ricostruzione di un tessuto sociale ed economico in grado di offrire delle prospettive anche agli abitanti dei paesi di origine. Si tratta in gran parte della componente in genere più istruita, più giovane, più intraprendente (quelli che hanno avuto la forza e l’iniziativa di affrontare un viaggio così pericoloso) della popolazione da cui provengono: un apporto che l’economia, la cultura e le società dell’Europa potrebbero valorizzare molto, mentre oggi lo svalutano, lo disprezzano e lo degradano. Ma soprattutto si tratta di una risorsa strategica per la costruzione di una grande comunità euroafricana ed euromediterranea. Sono tutte persone che ancora intrattengono forti legami con le loro comunità di origine, o che possono facilmente riattivarli; che in Europa possono costruirsi o affinare delle competenze, delle conoscenze, delle professionalità, delle esperienze da mettere a disposizione dei loro paesi di origine con grande vantaggio per tutti, qualora se ne creino le condizioni. Non solo per reinserirsi e occupare posizioni già esistenti, ma anche per creare opportunità e modalità di produzione di reddito e di ricchezza completamente nuove.

Condizione indispensabile perché ciò avvenga è che le comunità nazionali espatriate presenti in Europa possano organizzarsi, anche politicamente, siano libere di muoversi, siano aiutate a fare esperienza non solo di lavoro, ma anche di relazioni sociali nuove nei paesi e nei territori che le ospitano. Perché solo così si può innescare un circuito che renda desiderabile e praticabile un ritorno in patria anche mentre nuove leve la abbandonano per mettersi anche loro alla prova dell’emigrazione. Prima ancora di pensare ai finanziamenti, o anche a progetti di cooperazione allo sviluppo — oggi in gran parte pensati e diretti dall’esterno — occorre lavorare con le comunità di profughi e migranti nella prospettiva di farne gli attori di un nuovo processo di integrazione delle economie e delle società dei paesi di origine e di quelli di arrivo. Non credo che esistano alternative a una prospettiva del genere che non siano quelle indicate nella prima parte di queste note, cioè una catastrofe per tutti; anche se tradurre in pratica una strategia del genere, soprattutto in un clima di ostilità crescente nei confronti degli immigrati, sarà sempre più difficile. Comunque sia, l’invito ad “accoglierli tutti” si regge interamente su questa prospettiva.

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