Il ruolo della psicologia nel mantenimento e nel contrasto alle disuguaglianze di salute: violenza strutturale, violenza simbolica e violenza tecnica

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23 min readMar 31, 2017

Pratica in attesa di Teoria

di Matteo Bessone

Immagine di Lis tratta da Flickr in CC.

Il 10 ottobre 2015 si è svolta a Torino una giornata di studio organizzata dal Gruppo Di Lavoro DUPP (Diritti Umani Psicologi Piemonte) dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte sul tema diritto alla salute. Un dato è parso particolarmente significativo: il bassissimo numero di psicologi chiamati ad intervenire se confrontati al gran numero di psichiatri o psicoterapeuti di formazione medica.

A partire da questa semplice, dolorosa, quanto incontrovertibile considerazione l’obiettivo che ci poniamo è triplice: il primo è proporre una riflessione sul posizionamento della psicologia italiana oggi, in particolare la psicologia clinica, rispetto al tema del diritto alla salute e delle disuguaglianze di salute, caratterizzato, ad una superficiale osservazione, da una rarefazione degli psicologi intorno a tale ambito. Il secondo obiettivo è quello di illustrare brevemente, a partire da quanto emerso durante il seminario (nonostante tutto promosso da un Gruppo di Lavoro dell’Ordine degli Psicologi), quei processi e quelle forze che modellano le condizioni in cui le persone nascono, crescono, invecchiano, hanno maggior o minor probabilità di ammalarsi e muoiono. Infine, alla luce di queste considerazioni, il terzo obiettivo, quello principale, sarà di tentare di delineare il ruolo che gli psicologi e la psicologia potrebbero rivestire nella tutela del diritto alla salute.

Quale informazione potremmo ricavare a partire dalla difficoltà nel reperire psicologi in grado di articolare con competenza, a partire dal proprio operato, una discorso circa il rapporto esistente tra diritto alla salute e psicologia? Benasayag, psicoanalista e filosofo, ci può orientare nella risposta domandosi se l’attuale declino della psicoanalisi non possa essere dovuto ad una difficoltà della disciplina nel recepire le sfide poste da quelle che egli chiama “le sofferenze dell’uomo moderno”. Egli parla di sfasamento rispetto all’epoca postmoderna della psicoanalisi, sostenendo che il risultato di tale sfasamento abbia costituito il fallimento di un obiettivo storico per la psicoanalisi a cui avrebbero contribuito da una parte la caduta della disciplina nella trappola individualistica, dall’altra la costruzione di un modello universale, sostanzializzato e reificato dell’apparato psichico. Tali considerazioni possono venirci in aiuto per rispondere alla nostra domanda?
E’ Freud ad orientarci ulteriormente verso una possibile risposta. Ne Il Disagio della civiltà (1971) egli osserva come il clinico sia portato a voltare la schiena ai grandi movimenti della Storia (nel suo caso il riferimento è alla Grande Guerra e alla Grande Depressione) tramite una recisione dei fili che legano l’individuo e il suo contesto. Tali osservazioni, seppur formulate in periodo storici molto differenti, sembrano essere più attuali che mai. Se da una parte, anche in seguito agli studi sui determinanti sociali della salute (OMS, 2008), crescono esponenzialmente le evidenze epidemiologiche rispetto al ruolo che le disuguaglianze rivestono nel plasmare le vite della popolazione e degli individui, dall’altra la psicologia sembra non essere ancora preparata, carente degli strumenti epistemologici, teorici, metodologici ed operativi per poter agire con autorevolezza in questo scenario, perciò di fatto spesso inefficace nella tutela del diritto alla salute.
Anche di fronte alle stringenti evidenze sul ruolo della salute mentale nel determinare uno stato di salute più generale (emblematico è il titolo di un articolo pubblicato su Lancet, 2007: Prince, Martin, et al. “No health without mental health), l’apparente disinteresse della psicologia per le disuguaglianze potrebbe trovare un’attenuante se riferito alle manifestazioni non psichiche della sofferenza, rispetto a cui è data per assodato l’impatto dei determinanti “distali” sulla diversa esposizione ai fattori di rischio, sulla vulnerabilità agli effetti sfavorevoli di tali fattori sulla salute, sull’iniqua vulnerabilità rispetto alle conseguenze sociali della malattia (Costa et al. 2014). Tale apparente indifferenza risulta tuttavia francamente bizzarra alla luce delle evidenze relative alla comorbidità delle patologie psichiatriche con patologie di altro tipo e della crescente mole di dati che sottolineano il ruolo cruciale delle disuguaglianze nell’etiopatogenesi delle malattie mentali (Compton et al. 2015; WHO, 2014). Tale scollamento dalla realtà del panorama epidemiologico condurrebbe qualche fanatico della classificazione a porre diagnosi di un quadro francamente psicotico.

Ma mentre queste evidenze epidemiologiche iniziano a proliferare e consolidarsi all’interno di un quadro coerente e preoccupante a livello internazionale, in ambito psicologico, laddove viene ribaduta a gran voce l’importanza di un approccio bio-psico-sociale, si assiste all’emergere di una molteplicità di teorie e pratiche che continuano a ruotare attorno ad un paradigma strettamente biomedico e in cui la sofferenza è rappresentata come fenomeno meramente individuale. Tutta questa produzione di saperi e di pratiche volta all’auspicato superamento di un rigido dualismo cartesiano che separava corpo e mente, continua tuttavia ad avere come unità di analisi e di intervento l’individuo. Importantissimo è stato il contributo della psiconeuroendocrinoimmunologia alle conoscenze relative alla risposta psico-biologica allo stress, dell’EMDR nel trattamento dei traumi oltre che della psicoterapia sensomotoria. Tuttavia non si può fare a meno di notare quanto tali dispositivi continuino a riflettere e consolidare uno specifico immaginario, pervasivamente colonizzato (per dirla con Habermas) dalla biomedicina e in cui la sofferenza individuale non può che essere medicalizzata (Illich, 1976): l’individuo che soffre è un individuo guasto, e nella costruzione delle realtà cliniche (Keinman, 1978) bio-psichiche l’obiettivo diventa quello di trattare l’individuo (o quello che eccede da questo) per riadattarlo al contesto, grazie a tecniche la cui efficacia è stata provata scientificamente.

Possiamo immaginare tale impianto, che si manifesta nella bramosa ricerca della tecnica con maggior solidità empirica, come probabilmente sorretto dal legittimo desiderio di riconoscimento della giovane disciplina. La psicologia sembra aver preferito attingere quasi esclusivamente ai paradigmi epistemologici empirici, tipici delle scienze naturali, privilegiando prevedibilità, attendibilità e controllo delle variabili piuttosto che a quelli delle scienze sociali e umane in riferimento a cui il lavoro dello psicolgo non sembra quasi più potersi definire. L’epifenomeno di questa scelta sembra essere la perdita di un’orizzonte di significato profondo che non può essere sempre catturato dagli strumenti che la scienza ci offre, non si può misurare. Non diciamo niente di nuovo paragonando questo paradigma biomedico ad una nuova, più illusoriamente promettente religione. A fianco di un proliferare di modelli e teorie che sottolineano l’indiscutibile importanza della relazione tra aspetti bio- e aspetti -psico, nell’individuo, è molto raro trovare modelli psicologici che prendano in considerazione, pur rimanendo a livello individuale, l’importanza delle variabili sociali meno prossimali. Sottolineiamo quest’ultimo termine ponendo un’importante distinzione: non è così infrequente che vengano menzionati fattori sociali tra i fattori di rischio (ad esempio, la familiarità, l’isolamento sociale o l’avere un parente che ha commesso un suicidio possono essere considerati come fattori di rischio suicidario) ma si tratta in questo caso di fattori prossimali, situati sul livello individuale. E’ raro invece, ed è su questo che ci piacerebbe portare l’attenzione, che siano i determinanti distali ad essere presi in considerazione, quei meccanismi profondi responsabili della stratificazione sociale, delle disuguaglianze sociali e di salute, che si situano a livello del contesto e che agiscono profondamente quanto estesamente a livello macro- sociale (Compton et al. 2015). Se durante tutte le rivendicazioni degli anni ’70 non vi erano dubbi che, per essere terapeutico, un atto dovesse agire sul contesto culturale, politico, economico e istituzionale, caduto il muro che segregava i folli dai presunti sani, con l’entrata in vigore della Legge 180, tale consapevolezza della crucialità del contesto nella codeterminazione della sofferenza pare essersi affievolita così con la spinta al cambiamento del contesto stesso.

Non è facile vedere il legame esistente tra i nostri privilegi e le sofferenze altrui e l’agire terapeutico sembrerebbe mosso dalla speranza inconfessata che gli individui-anche quelli più svantaggiati-continuino a vivere nelle medesime condizioni senza più soccombere ai disturbi mentali, alle gravidanze adolescenziali, agli insuccessi scolastici, al consumo di droghe e al dilagare di paura, violenza e stereotipi.
Il grafico di Dever mostra in maniera molto chiara il basso impatto degli interventi tecnici (a valle, sulle determinanti prossimali) volti a trattare i danni causati dalle determinanti distali (a monte) relative alla stratificazione sociale: a fronte del 90% degli investimenti delle spese destinate alla salute sul sistema sanitario, questo influisce, ad esempio, sulla riduzione della mortalità solo dell’11%; mentre il restante 89% su cui si investe solo il rimanente 10%, è influenzato dai fattori sociali, ambientali, culturali, biologici e dal caso. Questi interventi (tecnici, bersaglio-specifici) sono volti trattare i vari gruppi di pazienti piuttosto che ridurre l’incidenza dei problemi sociali e
sanitari, prima che questi vengano generati nel contesto. Sembra troppo scontato, in questo scenario, evocare la “Sindrome da Gioco d’Azzardo”conclamata patologia tanto di un contesto che vede nel gioco una fonte di guadagno sicuro quanto degli sventurati giocatori che v’incappano. Crediamo possa essere efficace non lasciare esaurire la propria motivazione clinica alla domanda “come trattare la Sindrome da Gioco D’Azzardo?” per spingersi fino alla domanda successiva o precedente: “Quali sono quei processi che, anche nel contesto, contribuiscono al diffondersi di tale esperienza di sofferenza, in maniera differenziale in diverse fasce di popolazione?”.
Simili domande non possono che creare disorientamento nel teatro del lavoro psicologico dal momento in cui ci si interroga sull’efficacia del proprio lavoro nello scenario delle disuguaglianze sempre crescenti, da quarant’anni ad oggi. La monolitica certezza dell’efficacia del nostro operato viene scalfita da una crepa spesso difficile da accettare, nel solco della quale già Basaglia (1968), Illich (1976) e Taussig (2006) (ciascuno riferendosi a diversi ambiti del sapere) avevano evidenziato le contraddizioni del proprio operato per spingersi fino alla consapevolezza della iatrogenicità di un certo incedere che mistifica le cause della sofferenza. Non si tratta di processi nuovi, quanto di discorsi rinnovati rispetto a forme nuove assunte da processi connaturati, ma non per questo inaffrontabili, nel corpo sociale.
Benasayag e Smith (2004) sostengono lucidamente che “il fatto di vivere con un sentimento (quasi permanente) di insicurezza, di precarietà e di crisi produce conflitti e sofferenze psicologiche, ma ciò non significa che l’origine del problema sia psicologica […]. Che ogni fatto sociale comporti […] una dimensione psicologica non autorizza a pensare che tutto derivi da questa”. Con questo non si può sicuramente affermare che tutti i mali nascano dalla dimensione sociale, ma nemmeno si vuole negare la sua esistenza. E’ nell’incontro, nella relazione, nel legame creato tra soggetto e contesto, iscritto nel corpo, ricco di vincoli e di possibilità, che prende forma l’esperienza di salute e malattia di ogni persona.

Accertata questa tendenza della psicologia ad intervenire in maniera preferenziale sull’individuo spesso tralasciando i processi sociali che generano, in maniera differenziale nella popolazione, stati morbosi e di malessere nelle persone, cosa sappiamo oggi di questi processi? Quali sono i termini che possiamo utilizzare per definirli? Come potrebbe la psicologia agire su questi processi contribuendo in maniera efficace alla tutela del diritto alla salute?

Per rispondere alla prima domanda, possiamo rifarci a Costa che, nel corso del suo intervento al seminario del 10 Ottobre da cui siamo partiti, attinge a piene mani dal secondo rapporto sulle disuguaglianze sociali in sanità, L’equità della salute in Italia, di cui è stato curatore. Egli illustra in maniera incontrovertibile come in Italia le disuguaglianze di salute siano osservabili in relazione a tutte le dimensione di salute (incidenza, prevalenza e letalità) e tutte le dimensioni della posizione sociale oltre che geografica. Questo significa che la salute (qui compresa anche quella mentale) si dispone secondo un gradiente: quale che sia l’indicatore di posizione sociale impegnato (reddito, status, numero di locali della casa, titolo di studio, etc) ad ogni posizione sociale corrisponde un livello di salute peggiore (per la quasi totalità di patologie) di quello della posizione immediatamente superiore (Maciocco e Santomauro 2014). Uscendo dall’Italia, a livello globale, il quadro osservato è il medesimo. Wilkinson e Pickett (2009) hanno aggregato in un unico indicatore dati comparabili di tutti i problemi sanitari e sociali relativi a ciascuno dei paesi più ricchi1. Tale indicatore include: il grado di fiducia nella società, speranza di vita e mortalità infantile, rendimento scolastico, omicidi, disagio mentale, gravidanze in adolescenza, obesità, speranza di vita e mortalità infantile. Gli autori osservano che tali problemi sociali e sanitari tendono a verificarsi con minor frequenza nei paesi più inclini all’uguaglianza, che la loro prevalenza è correlata alla disuguaglianza dei redditi anziché al tenore di vita medio e, a favore della robustezza di tale correlazione, le medesime tendenze sono state osservate considerando i singoli stati che compongono gli USA. Analizzando la salute infantile l’UNICEF (2016) arriva ai medesimi risultati: una correlazione negativa tra il benessere infantile e le disuguaglianze dei contesti in cui crescono.

Costa analizza quali siano i principali meccanismi che danno forma alle disuguaglianze, indicandone cinque. Li riportiamo in estrame sintesi, così come sonmo indicati dall’autore per chiarezza, rimandando al suo rapporto pe run approfondimento di tali aspetti e dei risvolti relativi alla pianificazione di opportune politiche sanitarie e non.

1) La stratificazione sociale è il primo meccanismo alla base delle disuguaglianze di salute. Può essere misurata tramite indicatori di beni materiali (reddito, condizioni abitative), relazionali (status sociale, supporto sociale) o misti (condizione occupazionale). Si riferisce al diverso livello di controllo percepito sul proprio destino, di autonomia e di capacità di cui si dispone per realizzarsi all’interno del proprio contesto, al supporto sociale e al riconoscimento del proprio ruolo più che non al livello delle risorse possedute. Michael Marmot, presidente della Commissione OMS sui Determinanti Sociali della Salute ha battezzato “Status Syndrome” (Marmot 2006) questo aspetto relativo al gradiente di salute sottolineando che le disuguaglianze si osservino anche nelle fasce più alte della scala sociale per chi occupa una posizione medio-alta rispetto a chi occupa una posizione immediatamente sovraordinata.

2) La differente posizione sociale influenza l’esposizione ai fattori di rischio ambientali, occupazionali, comportamentali e psicosociali. Più è bassa la posizione sociale, maggiore è l’esposizione ai fattori di rischio ambientali (come ad esempio la vicinanza a discariche), occupazionali (per tutte le professioni), comportamentali (maggior prevalenza di comportamenti insalubri tra soggetti svantaggiati) e psicosociali (precarietà, bassa remunerazione, basso sostegno) e maggiore è la prevalenza di quasi la totalità delle malattie mentali.

3) Le disuguaglianze in salute prendono forma attraverso una diversa accessibilità ai servizi
sanitari. Viene detta inverse care law la relazione osservata che lega sistematicamente ed in maniera inversamente proporzionale l’utilizzo dei servizi sanitari ed i bisogni per rispondere i quali sono stati progettati: vengono utilizzati tanto meno i servizi laddove più ce ne sarebbe bisogno.

4) La posizione sociale influenza il grado di vulnerabilità delle persone, ovvero sia la capacità di far fronte all’effetto sfavorevole di un fattore di rischio, prima che il danno sia insorto, sia la capacità di far fronte ad un problema di salute già insorto, prevenendone gli esiti peggiori, sia modificando la velocità di progressione della malattia. Una bassa posizione sociale aumenta la suscettibilità all’effetto del fattore di rischio e limita la persona alle opportunità di prevenzione. In generale la scarsa disponibilità di aiuto, ovvero il preziosissimo capitale sociale, rappresenta il minimo fattore comune degli effetti negativi della vulnerabilità. A parità di esposizione ai fattori di rischio vi è una variazione della vulnerabilità relativa alla medesima esposizione. Ad esempio operai stranieri in un cantiere edile, hanno maggiori probabilità di infortunio rispetto agli operai italiani nel medesimo cantiere, esposti ai medesimi fattori di rischio, perché maggiormente vulnerabili rispetto a quei fattori di
rischio. E ancora soggetti svantaggiati hanno minor capacità di utilizzare le opportunità di diagnosi precoce che permettono di identificare e curare tempestivamente una malattia. Le possibilità di contrastare questo fattore comporta la necessità di predisporre interventi realmente efficaci e personalizzati nei diversi contesti.

5) Conseguenze sociali della malattia: la compromissione del livello di salute retroagisce sfavorevolmente sulla posizione sociale della persona. E’ quello che accade nei processi di selezione che, sulla base di una salute compromessa, interrompono o modificano la mobilità sociale ed è anche quello che accade quando il concorso alla spesa per far fronte ad un problema di salute rende socialmente vulnerabili o fa scivolare nella trappola della povertà, innescando storie ricorsive di disuguaglianze di salute in cui non si riesce a determinare se sia iniziata prima la povertà o il danno di salute. In altre parole i più poveri non solo si ammalano di più ma chi è malato è più a rischio di impoverirsi, in alcuni casi per far fronte alle spese sanitarie che possono essere consistenti (si pensi ai bisogni assistenziali delle persone con disabilità), in altri perché la malattia è una condizione predisponente per l’uscita dal mercato del lavoro e interferente con la mobilità sociale.

Questa è la catena che lega, secondo lo studio di Costa, la differenziale distribuzione di risorse psico-socio-economiche, alla stratificazione, alle disuguaglianze e alle storie ed esperienza di sofferenza alla malattia (anche) mentale. Tutti questi processi si accumulano nei percorsi autobiografici e il loro esito viene tramandato da una generazione a quella seguente.

A questo punto la domanda può essere riformulata: come gli psicologi possono agire, con consapevolezza e responsabilità all’interno di questi processi, senza trascurarli, ignorarli, mantenerli ed eventualmente amplificarli utilizzando gli strumenti caratteristici della sensibilità psicologica? Come è possibile recepire le sfide che le crescenti disuguaglianze impongono sul piano morale quanto scientifico alla professione?

Questi sono gli interrogativi che hanno spinto alla costituzione del Gruppo di Lavoro D.U.P.P. (Diritti Umani Psicologi Piemonte) all’interno dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte. Il Gruppo di Lavoro ha organizzato, oltre al convegno sul diritto alla salute, una giornata di studio a Casale Monferrato sul diritto ad un ambiente salubre, frutto del lavoro di un anno con la cittadinanza, gli operatori e le istituzioni casalesi. Obiettivo di questa seconda giornata è stato quello di partecipare attivamente ai processi comunitari in corso per far fronte a questo accadimento, analizzare il modo tramite cui la società civile e le istituzioni hanno scelto di agire e sensibilizzare la comunità degli psicologi rispetto al ruolo dei determinanti di salute (in questo caso i determinanti ambientali) nei processi che concorrono alla distribuzione ineguale di salute nella popolazione.

Nel tentativo di delineare quella che è un’ipotesi operativa, seppur sufficientemente ampia per lasciar la libertà ad ogni professionista di declinarla nel proprio operato in maniera personale, non è nostra intenzione attribuire al lavoro svolto dal DUPP una funzione di modello (il quale implica una riproposizione fedele e eteroimposta), ci si limita qui a suggerire alcuni spunti al fine di attivare quel processo autoriflessivo necessario al proprio essere nel mondo, in quanto psicologo e in quanto cittadino, alla luce delle crescenti disuguaglianze evidenziate dal quadro epidemiologico.

La prima riflessione riguarda la necessità, da parte degli psicologi, di assumere una posizione in questo scenario. Tale necessità sembra cortocircuitare con l’imperativo clinico della neutralità e dell’assenza di giudizio. Tuttavia assumere una posizione significa tornare a far propria la responsabilità sociale implicita in ogni professione, significa provare a prendere consapevolezza dei valori sottostanti al nostro concreto operare, come professionisti e come cittadini, e che danno forma anche al nostro sentire. Assumere una posizione chiara, vuol dire riconoscere i processi sociali, culturali ed economici che agiscono sulle persone e tramite esse, saperli nominare responsabilmente in quanto co-responsabili della sofferenza della persona che li rende manifesti. Zamperini (2007) afferma che l’ideologia della neutralità, in ambito psicologico, costituisce la base di legittimazione per l’inazione; l’imparzialità non sarebbe che una forma socialmente accettabile dell’indifferenza verso quella parte di mondo a cui non è stato concesso lo status di vittima.
Prendere posizione significa portare le contraddizioni che contraddistinguono ogni sistema vivente nel campo aperto della relazione clinica. La neutralità semmai potrà assumere la forma della consapevolezza del proprio posizionamento da parte dello psicologo, della fiducia nelle risorse del paziente, lasciato libero di co-determinarsi responsabilmente all’interno delle possibilità e dei limiti che il mondo gli offre. Questo non esime il clinico da un preciso posizionamento circa le dinamiche economiche, culturali e politiche imprescindibile ai fini della tutela della salute non solo del paziente ma di tutta la comunità, clinico incluso. A titolo esemplificativo durante la giornata di Casale è stato nominata la ditta Eternit rispetto alla quale assumere una posizione chiara è stato sentito come doveroso, costituendo questa uno dei principali fattori di rischio per la salute per la popolazione. Durante la giornata sul diritto alla salute, da cui siamo partiti, si è assunta una specifica posizione rispetto ad alcune politiche economiche, fiscali, abitative, educative e sanitarie italiane, si è analizzato inoltre l’impatto del neoliberismo sulle politiche e sulla cultura occidentale e il modo con cui questo riverberi sulla salute; una posizione è stata assunta anche in relazione ad un approccio esclusivamente tecnicistico alla salute mentale. Sempre a titolo esemplificativo è curioso il posizionamento assunto da alcuni psicologi di fronte al tema del compenso, tema che sembra, agli occhi di molti, essere relegabile esclusivamente all’ambito economico e del ritorno nei termini di immagine professionale (un più alto valore per una maggior tariffa). Tale posizione sembra far trasparire un’indifferenza spietata verso temi di carattere etico, la distribuzione ineguale della sofferenza e alle considerazioni circa l’utilizzo dei servizi (inverse care law). Assumere una posizione può apparire un’operazione elementare, tuttavia espone al temibile rischio di rompere alcune dinamiche che spesso ci vedono tra i detrattori dei loro benefici.
Il secondo punto, emanazione del primo, è la riappropriazione e il riconoscimento del mandato sociale della professione dello psicologo, il riconoscimento della propria responsabilità sociale e politica derivante dall’assunzione di una posizione definita. Tale riconoscimento non può che nascere da un diverso atteggiamento nei confronti dei paradigmi epistemologici dominanti. Per quanto un ancoraggio solido ai criteri imposti nell’ultimo secolo dalla ricerca evidece based sia necessario, l’utilizzo esclusivo di teorie e metodi validate scientificamente rischia di andare a detrimento della complessità e della profondità del lavoro psicologico e della sua funzione sociale, spesso ortopedica. Classificare, categorizzare, trattare, correggere non possono essere azioni svolte senza una chiara consapevolezza dei processi che ci inducono a svolgerle, delle conseguenze che da queste riverberano, senza essere orientate ad alcun valore. E’ da molto tempo che i fatti non parlano da soli: l’utilizzo delle nostre categorie ha degli effetti chiari sul tessuto sociale e i nostri interventi, tutti, parlano della nostra idea del mondo. Non è facile abbandonare l’idea di un intervento tecnico scevro di conseguenze a livello sociale, culturale e politico, occorre un lavoro di autoriflessione responsabile per svolgere il quale fortunatamente è possibile attingere a piene mani da differenti ambiti del sapere, dalla sociologia della salute, all’antropologia medica, all’economia, alla filosofia. Tali riflessioni sono emerse con immediatezza durante le giornate del gruppo di lavoro. Perché e come lavorare con persone che costituiscono il sintomo della nostra società? Quale senso ha, nell’ottica delle determinanti sociali di salute, lavorare sul trattamento del mesotelioma? Che conseguenze può avere aggredire con efficacissimi trattamenti la Sindrome da Gioco d’Azzardo? Chi ne giova? Chi ne fa le spese? Quali significati politici può assumere il lavoro con persone angosciate dalla precarizzazione della vita lavorativa? Non è difficile, in mancanza di una riflessione circa il proprio operato, ritrovarsi, spesso inconsapevolmente, a costituire un vettore che mantiene ed alimenta le disuguaglianze e le violenze insite in ogni società. Analoghi spunti vengono proposti da Zamperini (2011): quali significati sociali e politici sono veicolati dalla scelta di lavorare con le vittime dei traumi inferti alla cittadinanza da parte dello Stato? Atkinson (1987), suggerendo una lettura molto più soffice delle riflessioni di Foucault a questo proposito, dice dello sciamano che egli ospiti la comunità che ha chiesto il suo intervento.

Da questo consegue il terzo spunto di riflessione. Quale dev’essere l’ambito di intervento preferenziale perché questo non rischi di divenire iatrogeno? Krishnamurti (1982), con una lucidità spesso riservata ai pensatori orientali, afferma che non sia segno di buona salute essere ben adattati ad una società malata. La psicologia clinica privilegia, abbiamo detto, interventi e riflessioni di carattere individuale, eccezion fatta per gli interventi familiari o di gruppo, aspetto che non muta nella sostanza la nostra riflessione. Le considerazioni sulla società sono riservate spesso agli psicologi sociali, ai sociologi e agli antropologi e ai politici, rispetto ai quali gli psicologi clinici tentano di differenziare il proprio operato appellandosi all’ideologia della neutralità. E’ poco lo spazio, all’interno delle proprie riflessioni e dei propri interventi, che gli psicologi clinici riescono a concedere ai discorsi sulla comunità, sulla collettività e alla vita sociale, culturale, economica, sul vicinato ossia quelle dimensioni all’interno delle quali nascono, si mantengono e si producono le disuguaglianze e quegli ambiti in cui le persone, nascono, crescono, lavorano, si ammalano e muoiono. Lavorare focalizzandosi esclusivamente sull’individuo, scotomizzandone il legame che lo connette alla società, può essere utile al massimo per lo psicologo che viene pagato per farlo. La relazione tra psicologo e utente non è che una delle relazioni all’interno delle quali prende forma la vita di ciascuno dei due interagenti, il vissuto e lo stato di salute di ciascuno dei quali è profondamente influenzato da dinamiche del tutto immanenti al loro essere inseriti in un contesto. I sentimenti di profonda vergogna, umiliazione, insicurezza, disgusto di sé, durevole afflizione, l’ansia di valutazione sociale, sono tutte esperienze co-determinate dal clima culturale, politico, economico e ideologico che solo in piccola parte sono controllabili dall’individuo e sono distribuiti diversamente nella società come ci ricorda la sociologia delle emozioni. Secondo la prospettiva del gradiente sociale, è nell’interazione tra i processi sociali-culturali-economici e la persona, nella sua variabilità, che quest’ultima trova il proprio posizionamento lungo il continuum salute-malattia, con gli stati d’animo che ne derivano e da cui derivano. Per comprendere la sofferenza e l’esperienza della malattia, afferma Farmer (2006), è necessario chiamare in causa i processi storicamente dati e le forze che cospirano, strutturalmente e con violenza, nel limitare la capacità d’azione del soggetto. Tali forze sociali, frequentemente localizzate a livello globale, vengono incorporate nel soggetto dando forma all’esperienza della sofferenza. Sen sostiene che le libertà individuali dipendano anche da fattori contestuali come le strutture sociali, economiche, e i diritti politici e civili. Non è possibile esimersi da considerazioni di questo genere nel pianificare gli interventi. E’ Costa (2014) a riprendere Sen e il paradigma della capacitazione, e ad evidenziare l’efficacia degli interventi che abbiano come bersaglio i contesti piuttosto che l’individuo da questi isolato; nel farlo non nasconde le difficoltà dei primi rispetto ai secondi, tecnici e puntiformi. Per farlo l’OMS, nel suo documento sulle determinanti sociali della salute mentale del 2014, sottolinea la necessità mettere in secondo piano interventi a breve termine per lasciare maggior spazio alla programmazione di interventi che abbiano come riferimento un arco temporale più ampio. Costa suggerisce di perseguire tale obiettivo in vari modi: da azioni di advocacy da parte di gruppi di professionisti che portino all’attenzione dei decisori politici le conseguenze sulla salute di determinate scelte politiche non strettamente mediche, ad interventi strutturati nei luoghi di lavoro o nelle scuole. Uno storico esempio della consapevolezza dell’importanza del lavoro sul contesto ci è fornito da Rudolph Virchow, inviato nel 1848 dal governo prussiano per combattere un’epidemia di tifo nella popolazione polacca. Per Virchow le condizioni sociali inadeguate aumentavano la suscettibilità della popolazione al clima e agli altri agenti causali (oggi si parlerebbe di vulnerabilità); il cambiamento sociale veniva considerato da Virchow importante tanto quanto gli interventi medici, se non di più. Egli sostiene: “I progressi della medicina possono prolungare la vita umana ma i miglioramenti delle condizioni sociali possono ottenere questo risultato più rapidamente ed efficacemente […] la medicina è una scienza sociale e la politica non è altro che medicina su larga scala”(Virchow, 1958).

Nel lavoro svolto con il DUPP tale riflessione ha trovato diversi risvolti applicativi: la giornata sul diritto all’ambiente salubre ha costituito il risultato di un anno e mezzo di focus group costituiti da membri del gruppo di lavoro insieme a cittadini, operatori, politici, medici, studenti superiori e associazioni. Il lavoro ha avuto effetti benefici sui processi partecipativi che hanno storicamente caratterizzato la comunità casalese. Durante la giornata sul diritto alla salute il tema delle modalità dell’intervento è stato ripetutamente sollevato. Aillon, portavoce della Rete Sostenibilità e Salute, ha ricordato i dilemmi morali davanti a cui, come clinici, siamo costretti a muoverci: come lavorare insieme a figli di genitori stranieri vittime di politiche discriminatorie? Per risolvere tali dilemmi
Aillon indica una duplice funzione possibile per lo psicologo: la prima è quella di advocacy a cui abbiamo brevemente sopra accennato, la seconda funzione-da inserirsi in una prospettiva che, sulla scia della Dichiarazione di Alma Ata del 1978, veda la salute come un bene comune di cui può e deve essere la cittadinanza a farsi carico-mira ad attivare e responsabilizzare le comunità locali rispetto ai legami comunitari e ai contesti psicosociali che prevengono l’insorgere di condizioni patologiche. Nella Dichiarazione viene ribadito il diritto e il dovere dei cittadini di partecipare individualmente e collettivamente alla progettazione e alla realizzazione dell’assistenza sanitaria di cui hanno bisogno. Qualche anno dopo è la Carta di Ottawa (1986) a riprendere tale messaggio e a rinnovarlo, indicando l’esigenza di rinforzare l’azione comunitaria nella definizione di priorità e strategie tramite uno sviluppo di abilità sia personali che di comunità. Nothing about us without us. Dare sostanza a tali linee guida rappresenta un’autentica sfida per ciascuno di noi: vestendo l’abito del professionista, animati dall’identità costruita tramite quello specifico ruolo l’obiettivo da perseguire non può essere che la facilitazione dei processi di partecipazione e l’empowerment di comunità, con tutte le difficoltà che nascono dalla gestione di rapporti naturalmente asimmetrici, dal punto di vista del potere. Se invece decidamo di mettere in scena, sulla ribalta, la nostra identità civica, e di vestire i panni del cittadino, la nostra azione non potrà che giocarsi nello scenario della vita sociale e politica, del movimentismo, della militanza e dell’attivismo. La tensione che si genera tra questi due ruoli appare irrisolvibile quanto necessaria.
Il quarto e ultimo stimolo emerso nel corso delle giornate e di cui il lavoro del gruppo vorrebbe essere manifestazione concreta non è costituito da un concetto ma rappresenta la causa e la conseguenza di un movimento e di una specifica intenzione. Si tratta dello slancio verso la ricerca, uno slancio coraggioso con occhi curiosi aperti verso l’interdisciplinarietà, che non si faccia intimorire dalle contraddizioni e dalle inevitabili tensioni che emergono nell’approcciarsi allo studio dell’uomo, delle sue manifestazioni fisiche, biologiche, spirituali, politiche, culturali e ideologiche. Uno slancio che sappia riconoscere, accettandoli senza per questo subirli, i propri limiti. Un’apertura al dubbio, alla possibilità, all’Altro. Il DUPP è stato animato da questa ricerca alla scoperta, nella contemplazione e nell’accettazione dei paradossi e delle differenze che si annidano nella complessità di ogni uomo e ogni società. Non è stato per niente facile, non siamo sempre educati dalla nostra cultura a riconoscere di essere, come professionisti e come persone, limitati. Ci è richiesto di sapere, siamo psicologi perché sappiamo, perché facciamo. E’ un’operazione che può rivelarsi dolorosa. Animati dalla verità dell’esperienza della nostra limitatezza ma anche delle possibilità che ci sono offerte da altri ambiti del sapere, ci si è frequentemente soffermati, durante il percorso, sulla necessità etica e scientifica di superare l’approccio dualista a gran voce negato che separa mente e corpo, individuo e società, natura e cultura. Tuttavia l’incedere sicuro e certo di tale sapere dominante è riscontrabile in maniera incontrovertibile ogni volta che una sua appendice teorica o pratica venga messa in discussione, ogni volta che venga problematizzato o complessificato: la risposta diventa la violenza. Laddove, ad esempio in ambito antropologico, il concetto di incorporazione ha fornito l’opportunità per una revisione autoriflessiva della disciplina e per lo sviluppo di rigenerati strumenti concettuali, anche in ambito psicologico appare auspicabile tale sottile quanto rivoluzionaria operazione che si scontra con una forza che Bourdieu chiamava violenza simbolica. La violenza simbolica è quella forma sottile di violenza, dolce e invisibile, non agita tramite azioni esplicitamente e intenzionalmente cruenti e che si manifesta “nell’imposizione di una visione del mondo, dei ruoli, delle categorie e nelle strutture mentali (cognitive ed emotive) attraverso cui viene percepito il mondo e che nasconde i rapporti di forza sottostanti alla relazione nella quale si configura”. Plasma ed è plasmata dalle modalità tramite cui ciascuno sente, pensa, percepisce ed agisce. Il cambiamento viene fermato da tale forza che spinge al conformismo del pensiero e del sentire. Solo una grande consapevolezza nel nostro stare in relazione con i colleghi può evitare di trasformarci in un vettore tramite cui questa si incarna. In maniera simile una consapevolezza del nostro mandato sociale nella relazione con i pazienti previene invece il rischio di diventare protagonisti di quella che Basaglia chiamava violenza tecnica, quella forma di violenza iniqua agita dai professionisti che, possiamo dire oggi, concorre alla stratificazione sociale e al mantenersi delle disuguaglianze sociali e di salute.
Foucault ci ha insegnato che la produzione di sapere, di verità e di discorsi sull’uomo, direbbe non è libera dai meccanismi generatori di potere seguire i quali conduce spesso agli stessi meccanismi di stratificazione delle risorse economiche, emotive, simboliche e sociali che danno forma alla sofferenza.

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