La tutela della salute in tempo di crisi

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4 min readJan 31, 2017

Teoria in attesa di pratica

Immagine di cottonM tratta da Flickr in CC

Viviamo in un Paese ricco, ma in cui le diseguaglianze sociali ed economiche — tra individui e tra gruppi di popolazione — sono sempre più diffuse. Viviamo in un Paese sviluppato pieno di poveri e di sofferenti. Preoccupano in particolare le diseguaglianze rispetto alla salute, un diritto fondamentale che non è assicurato allo stesso modo a tutte le persone. La speranza di vita degli italiani è fra le più alte al mondo, ma un uomo con basso livello di istruzione vive 5 anni in meno di un laureato. I più svantaggiati si ammalano di più, ricorrono di meno agli screening oncologici, rinviano spesso le cure e hanno paura di ammalarsi perché temono di non poterne sostenere le spese. Eppure il nostro sistema sanitario ha l’ambizione di essere universalistico e di garantire l’assistenza indipendentemente dal reddito del singolo. Certo, nel nostro Paese le diseguaglianze sono di gran lunga minori di quelle osservabili in paesi con sistemi sanitari non universalistici, ma molto lavoro resta ancora da fare per tradurre i principi in una pratica diffusa su tutto il territorio nazionale. Eppure l’accesso alle cure sanitarie, così come l’accesso all’istruzione, dovrebbero essere considerati parti costitutive dello sviluppo di una popolazione.

La tutela della salute è infatti in grado di dare un contributo importante alla crescita di un paese, in termini di durata e qualità della vita, di coesione sociale, di libertà dal bisogno e indirettamente, ma significativamente, di sviluppo economico e di Pil. Miglioramento della vita umana e crescita economica sono fenomeni frequentemente associati ma il primo non può essere perseguito come sottoprodotto della seconda, né può essere pesantemente condizionato dall’intensità della seconda. Purtroppo invece, soprattutto in anni di grave e persistente crisi, la tutela della salute è spesso sacrificata rispetto ad altri obiettivi, compreso lo sviluppo di settori produttivi che fanno crescere il Pil a danno però della qualità della vita: dal cibo spazzatura al gioco d’azzardo, dal tabacco all’edilizia di bassa qualità. E così si costruiscono case ed ospedali che invece di essere luoghi in grado di accogliere le persone e di offrire loro sicurezza crollano al primo movimento tellurico, tradendo la fiducia e la speranza della gente. Eppure se gli edifici fossero costruiti ad opera d’arte e le industrie non vendessero qualunque cosa pur di fare profitti, il benessere non potrebbe che aumentare per tutti.

In questo contesto, è inevitabile domandarsi quanto la comunità sia pronta ad impegnarsi per rafforzare il sistema di tutela della salute, intesa come componente essenziale dello sviluppo umano. La risposta non può che presentare luci ed ombre. La comunità (in quanto insieme di persone che condividono non solo il territorio in cui risiedono ma anche una cultura, una storia e una pratica di sostegno reciproco) ha mostrato in più occasioni la volontà di confermare la difesa della salute come obiettivo prioritario. Non solo ovviamente quando si tratta della propria salute personale, ma anche quando si tratta di quella di chi rischia di annegare nel Mediterraneo, di chi è vittima di calamità naturali, di chi affronta una malattia severa, magari contratta in ambienti di lavoro a rischio. Una disponibilità individuale e organizzata che è ancora molto diffusa nel nostro Paese e che alimenta la coesione sociale. Positiva è anche la crescita culturale che sta portando alcune comunità a rifiutare lo scambio fra salute e lavoro, un tempo ritenuto inevitabile. Su un altro fronte, tuttavia, la crisi economica sta mettendo a dura prova la tenuta del nostro sistema di tutela della salute.

Paradossalmente, proprio quando le difficoltà sono più ampie, si osserva un progressivo ritrarsi delle istituzioni (sulla base della miope giustificazione della scarsità delle risorse) e il contemporaneo trasferimento di ruoli e responsabilità in capo ai singoli individui, alle loro organizzazioni e alle imprese. Uno spostamento che se dovesse diventare definitivo rischierebbe di comportare la riduzione dei diritti sociali, l’indebolimento della partecipazione alla progettualità delle istituzioni, la rinuncia a riconoscere la tutela della salute come componente sostanziale dello sviluppo, la consegna alla solidarietà e ai meccanismi di mercato di bisogni che attengono alle libertà fondamentali. Non si tratta di mere enunciazioni di principio ma di valori condivisi dalla gran parte delle persone (talvolta sottaciuti per timore di apparire antiquati), che tutti dovremmo sentire il dovere di riconoscere e tradurre quotidianamente in azioni concrete. In questo senso molto lavoro è oggi messo in atto dal basso, da singoli individui, da piccoli gruppi, da organizzazioni di volontari, da operatori delle istituzioni che, nonostante la disattenzione dei livelli decisionali, si “ostinano” a mantenere vivi principi e valori che contribuiscono a contrastare solitudine, impoverimento e sofferenza.

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