Ubi maior (updated)

Luca Silenzi
spacelab
Published in
5 min readJan 23, 2014
That's all, Folk

Per chi vive di architettura (e spero non solo di quello, c’è ben altro a questo mondo…) in pochi giorni sono accadute tre cose notevoli. In ordine di tempo:

- l’ampliamento del MoMA di New York comporterà definitivamente la demolizione di un edificio interessantissimo, che ha costituito una pietra miliare (o un punto di arrivo, oltre il quale molto è cambiato) per la nuova architettura americana degli anni zero: l’American Folk Art Museum di Williams/Tsien.

- Sam Jacob scrive una bella column intorno all’esigenza sempre più attuale di un’architettura “meno architettonica”, che sappia guardare oltre i propri confini disciplinari.

- all’interno di un più vasto riassetto editoriale in RCS, Abitare in versione cartacea chiude (update: anzi no, forse non proprio, vedi post-scriptum).

Questi tre avvenimenti, apparentemente senza nessuna correlazione (spaziale, o logico-causale) tra loro, sono legati da un filo rosso. E cioè dal fatto che i tempi sono definitivamente cambiati. Nell’ordine: l’Architettura non è per sempre. Le riviste storiche di architettura sono un dato tutt’altro che scontato. E Sam Jacob ha ragione: l’architettura sta diventando qualcosa di sempre meno architettonico. O forse, aggiungo io, lo è sempre stata ma ce ne accorgiamo solo ora. E chi non se n’è accorto ancora rischia grosso, rischia sul serio.

Just as design has expanded its role, we need to argue that contemporary architecture is much more than simply the production of buildings. Or, to put it another way, buildings are just one of many outcomes of architectural production, part of an activity that might also include the construction of collective vision that brings together investors, planners, the public and users.

Prendete l’American Folk Art Museum: un edificio che, a poco più di dieci anni dalla sua costruzione, unanimemente riconosciuto come una delle opere più interessanti — e più finemente realizzate — del panorama americano contemporaneo, viene demolito per far posto all’espansione del MoMA. Che non sente ragioni, nemmeno quelle dei più agguerriti difensori di quello che viene definito senza mezzi termini un capolavoro. Un’obsolescenza che di certo non era pianificata nella mente dei suoi autori, che tra parentesi sono nella vita molto amici di Diller-Scofidio-Renfro, ovvero i progettisti della nuova ala del MoMA che andrà a fagocitare il lotto dell’AFAM.

In realtà i fatti sono un poco meno romantici di quanto potrebbero apparire a prima vista. Tutto nasce da questioni economiche piuttosto concrete (qua un bell’articolo sul NYT che sintetizza la situazione): il bilancio dell’AFAM non ha mai goduto di ottima salute. In pratica l’istituzione non è mai riuscita a rifondere il debito di 32 milioni di dollari in bond contratto per la realizzazione del nuovo edificio, e su questa voragine è andata in default nel 2009 in concomitanza della crisi finanziaria globale. Nel maggio dello stesso anno i curatori fallimentari, per ripianare il debito, decisero di mettere in vendita l’edificio che venne acquisito dal MoMA. Il quale insiste sul lotto confinante dello stesso isolato sulla 53a.. Con l’incasso di 31,2 milioni di dollari dalla compravendita il debito venne ripianato, ma l’AFAM di fatto restava senza risorse residue, per cui sarà pressoché impossibile trasferire la struttura sebbene questa istituzione abbia altre piccole proprietà a Manhattan. Farewell.

Intanto il MoMA ha serie esigenze di ampliamento, e la scala e la dimensione dell’ex AFAM appena acquisito, bellissimo quanto si vuole, non fanno che sprecare spazio prezioso in una città come New York, dato che la struttura in sé non è utile alle ambizioni espositive del più imponente museo d’arte moderna di occidente.

Diller Scofidio + Renfro anziché tentare una mediazione mettono il carico da undici, ipotizzando espressamente un reset per l’intera area in modo da ottimizzare la proprietà e favorire la costruzione di spazi più idonei al programma espositivo. Tanto che Liz Diller (DS+R) non sembra farsi nessuno scrupolo, ed è piuttosto convinta delle ragioni della demolizione: qua sotto una spassosa conversazione via Twitter tra lei e Chris Hawthorne del LA Times (via AlJavieera):

Diller VS Hawthorne

Questa è la triste storia dell’AFAM. Che ora è nel miglio verde della totale demolizione in nome di fattori economici e di mercato (anche dell’arte) ad esso programmaticamente estranei.

Vedo molte analogie con la vicenda di Abitare: una testata storica che ha rappresentato un faro per l’editoria di settore che chiude per motivi indipendenti dalla sua qualità specifica. Secondo una bislacca teoria del caos alla rovescia, per cui un uragano in Brasile può causare la morte di una farfalla all’altro capo del mondo.

E qua torna utile la riflessione di Sam Jacob: sbagliamo se vediamo l’architettura, o il fare architettura, come qualcosa di assoluto, estraneo al resto del mondo e della produzione. Negli anni in cui viviamo ciascuno di noi è strettamente connesso, suo malgrado, a tante altre cose, spesso estranee al nostro mondo: siamo in un sistema complesso, e dipendiamo tutti da variabili incontrollabili.

La somma di X tizi qualunque con una connessione internet decente, in grado di pubblicare e leggere liberamente in rete qualsiasi contenuto, ha causato la crisi di un intero settore di punta della civiltà dell’informazione, che era quello dell’editoria cartacea. Senza che questa — pur con tutta la qualità e la volontà che ci si aspetta da professionisti preparati — sia riuscita a fare granché per contrastare il fenomeno.

Le posizioni di comodo sono sempre più erose. Ci aspettano tempi in cui tutto potrà essere messo in discussione. Per molti è piuttosto inquietante, mi rendo conto. Ma il bello, secondo me, è che c’è spazio per la creazione di sinergie mai viste prima, e l’approfondimento di nuove, inesplorate forme di multidisciplinarietà. Come fa notare Sam Jacob:

we might have found ourselves in an ironic situation where in order to fulfil architecture’s core ambitions it might have to become less architectural. It might have to model itself on more youthful and vigorous forms of creative practice. It might have to (or better, want to) learn from communications agencies, from advertising, from digital and interaction design and from research and innovation experts. Rather than selling out, we need to see this wider definition of architecture as a way of really fulfilling the core disciplinary remit of making the world a better place.

Per cui addio al Folk Art Museum. Addio (sic) ad Abitare. Nel bene e nel male quel che è certo è che il futuro sarà un’altra cosa.

Update!

Contrordine. Il testo qua sopra era già uscito dalle rotative solo da mezz’ora quando arriva questa velina da Il Fatto Quotidiano (grazie a Davide Tommaso Ferrando dalla regia): nonostante il comunicato stampa ufficiale di RCS di qualche giorno fa Abitare non chiude. Abitare rivivrà, si spera presto, meglio se subito. Cambia semplicemente direttore, come succede da sempre a qualsiasi testata senza che nessuno — tantomeno l’editore — ne decreti la morte. Probabilmente a chiudere sarà l’ufficio stampa di RCS, và a capire…

Nel frattempo è in una sorta di coma farmacologico, come giustamente fa notare Joseph Grima:

Lunga vita ad Abitare allora. Che non si stacchi la spina. Che le farfalle continuino a scatenare uragani, e non viceversa.

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Luca Silenzi
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Spacelab founder+director | Featured in Biennale Architettura Venezia w/curatorial project State of Exception | SpacelabZero mastermind