Cercare la vita senza sapere esattamente cosa sia
Definire cosa sia la “vita” è il primo problema dell’astrobiologia
La molla più potente che muove l’esplorazione spaziale è senza dubbio la ricerca della vita. Non c’è stata missione diretta verso altri corpi celesti — pianeti, satelliti, comete, asteroidi — che non avesse tra i suoi obiettivi quello di trovare indizi, sia pure lievi e indiretti, che potessero in qualche modo essere collegati alla vita: acqua, molecole organiche, tracce fossili di batteri ecc.
Può sembrare strano, ma la ricerca di vita al di fuori del nostro pianeta trova il suo primo ostacolo ancor prima che un razzo si stacchi da terra per depositare una sonda nello spazio. È un ostacolo di natura semantica: non esiste alcuna definizione semplice e universalmente accettata della parola ‘vita’. In sostanza, non sappiamo ancora dire con assoluta precisione cosa sia la vita. Ci sono ovviamente delle definizioni operative, da usare provvisoriamente e per scopi limitati, ma non coprono tutte le possibilità.
Una definizione operativa era certamente quella utilizzata nel famoso esperimento condotto dalle sonde Viking su Marte negli anni ’70: nelle condizioni controllate dell’esperimento, sarebbe stata considerata viva qualsiasi cosa avesse consumato molecole organiche e prodotto gas. Qualcosa di vivo, cioè, doveva avere un metabolismo.
Ma una simile definizione non era esente da ambiguità e problemi. Innanzitutto ci sono diversi processi non biologici che possono consumare molecole organiche e/o rilasciare gas. In secondo luogo, un esperimento progettato per cogliere la vita “sul fatto”, attraverso la sua attività metabolica, è incapace per definizione di riconoscere la vita che si è estinta; è incapace cioè di riconoscere la morte di qualcosa che un tempo è stata viva. Nell’esplorazione di un pianeta come Marte, privo di elementi visibili in grado di sostenere attualmente la vita per come noi la conosciamo, avere strumenti in grado di riconoscere la morte era ed è, probabilmente, ancora più importante che saper cogliere la vita nel suo svolgimento.
Ma riconoscere che qualcosa è morto implica ovviamente che si sappia cosa caratterizza la vita. Altrimenti come si può distinguere un essere che è stato vivo da un qualsiasi agglomerato di molecole organiche privo di caratteristiche biologiche? Ecco allora che la ricerca in astrobiologia si è andata col tempo focalizzando sulla selezione di biomarcatori, cose come il DNA, l’ATP e le proteine, che sono indispensabili alla vita e riconoscibili, entro certi limiti, anche nello stato di morte di qualsiasi (ex) forma di vita.
Tuttavia anche in questo caso i problemi non mancano. Definire vita qualcosa che contiene biomarcatori restringe il campo di ricerca esclusivamente alle forme di vita che contengono i biomarcatori a noi noti qui sulla Terra. Chi ci garantisce che la vita non abbia seguito altrove altre strade, usando come mattoni molecole che noi non riconosciamo come biomarcatori? E questo ci riporta al punto di partenza: cerchiamo disperatamente la vita al di fuori del nostro pianeta, ma ancora non sappiamo esattamente cosa sia la vita e quali siano i limiti e le forme in cui può svilupparsi. Riusciremo a riconoscerla, quando finalmente ci imbatteremo in essa?