Rappresentazione artistica del satellite Gaia sullo sfondo luccicante di stelle della Via Lattea (ESA)

Gaia: storia e gloria del secondo catalogo (1/4)

Il 25 aprile 2018 l’ESA ha pubblicato la seconda release di dati del satellite astrometrico Gaia, con la posizione e la distanza di 1,6 miliardi di stelle della Via Lattea: è un passo in avanti immenso per la conoscenza astronomica. Ma la strada che ha portato a questo risultato è stata lunga e costellata di fallimenti

Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia
5 min readApr 28, 2018

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Il primo catalogo stellare fu opera di Ipparco di Nicea, astronomo greco vissuto nel II secolo a.C., passato alla storia soprattutto per aver scoperto il fenomeno della precessione degli equinozi. Ipparco realizzò il suo catalogo, oggi perduto, con misurazioni a occhio nudo. Conteneva la posizione e la luminosità di 850 stelle con la precisione di 1 grado.

Non ci furono sostanziali progressi per i successivi 18 secoli. Il catalogo dell’astronomo danese Tycho Brahe, completato nel 1598, riportava la posizione di un migliaio di stelle con la precisione di circa 1 minuto d’arco: 1/30 del diametro angolare della Luna osservata dalla Terra. Era una precisione 60 volte maggiore di quella raggiunta da Ipparco, ma le stelle catalogate erano ancora pochissime. Si trattava comunque di un risultato notevole, perché il catalogo di Tycho era stato realizzato a occhio nudo come quello di Ipparco, sia pure con l’aiuto di enormi quadranti e sestanti, installati presso l’osservatorio di Uraniborg.

Una stampa che raffigura il secondo osservatorio fatto costruire dall’astronomo danese sull’isola di Hven, oggi appartenente alla Svezia. L’osservatorio fu chiamato Stjenborg o, in latino, Stellae Burgum, cioè “città delle stelle” (Armagh Observatory)

Dopo l’invenzione del telescopio, le cose migliorarono sensibilmente. Nel 1801 l’astronomo francese Jérôme Lalande pubblicò un catalogo con la posizione di ben 50.000 stelle. Il margine di errore era sceso intorno ai 3 secondi d’arco: il numero di stelle catalogato da Lalande era 50 volte maggiore rispetto all’elenco di Tycho e la precisione era aumentata di 20 volte.

Intanto nel 1718 il grande astronomo inglese Edmond Halley aveva scoperto che le cosiddette stelle fisse non erano per nulla fisse: confrontando i cataloghi stellari contemporanei con altri vecchi di quasi 2.000 anni, si accorse che la posizione di molte stelle era cambiata. Come Halley aveva capito, le stelle si muovono sulla volta celeste per effetto del loro moto trasversale rispetto al sistema solare. Più sono lontane da noi, più questo moto è impercettibile; ma le stelle relativamente vicine si spostano in modo apprezzabile nel corso degli anni e dei decenni: gli astronomi chiamano questo spostamento moto proprio.

Nonostante i progressi compiuti rispetto all’epoca dell’astronomia a occhio nudo, c’era però ancora una conoscenza che rimaneva ostinatamente irraggiungibile anche ai tempi di Halley e di Lalande. Quale era la distanza delle stelle? Non era dato saperlo. Le differenze di luminosità e di moto proprio suggerivano che esse dovevano trovarsi alle più varie distanze dalla Terra: l’antica idea di Tolomeo, di una sfera delle stelle fisse poste tutte esattamente alla stessa distanza da noi, era ormai tramontata.

Schema del mondo con il cielo delle stelle fisse, o firmamento, tratto dal ‘Cosmographicus Liber’ di Pietro Apiano, pubblicato nel 1524

A partire dalla pubblicazione della teoria eliocentrica di Copernico nel 1543, gli astronomi cominciarono a considerare la possibilità di usare il diametro dell’orbita terrestre come linea di base per ricavare con una triangolazione la distanza delle stelle: se era vero, infatti, che era la Terra a girare intorno al Sole e non viceversa, allora, misurando l’esatta posizione di una stella nel cielo due volte, a distanza di sei mesi l’una dall’altra, cioè quando la Terra si trovava in due punti opposti della sua orbita, doveva essere possibile con un facile calcolo ricavare la distanza di quella stella.

Era il cosiddetto metodo della parallasse: se si solleva un dito all’altezza degli occhi con il braccio disteso e poi si guarda il dito alternativamente con l’occhio destro e con il sinistro tenendo l’altro occhio chiuso, si nota che il dito si sposta rispetto agli oggetti di sfondo più lontani. Conoscendo la distanza tra gli occhi e misurando l’angolo di cui il dito si è spostato rispetto allo sfondo, è possibile calcolare la distanza tra gli occhi e il dito, cioè la lunghezza del braccio.

Trasportando questa semplice operazione trigonometrica su una scala enormemente più grande, si può in teoria calcolare la distanza delle stelle, o almeno di quelle più vicine. Non si deve far altro che selezionare uno sfondo di stelle senza alcun moto proprio, cioè apparentemente fisse nel cielo, e poi tracciare la piccolissima ellisse disegnata nel corso di sei mesi contro quello sfondo di stelle fisse da una stella che invece possiede un visibile moto proprio.

L’ampiezza di quell’ellisse è l’angolo di parallasse: conoscendo tale angolo, possiamo ricavare la distanza relativa di una stella dalla Terra (o dal Sole), espressa in parsec. Un parsec è la parallasse di un secondo d’arco e corrisponde approssimativamente a 206.264,8 volte il raggio medio dell’orbita terrestre, che equivale a sua volta a 1 unità astronomica. Poiché oggi, dopo una ricerca durata oltre due millenni, conosciamo la misura esatta dell’unità astronomica, possiamo infine ricavare facilmente la distanza assoluta di qualsiasi stella di cui sia noto l’angolo di parallasse: moltiplicando i 149.597.870,7 km di 1 unità astronomica per 206.264,8, otteniamo pertanto che 1 parsec equivale a 3,086¹³ km, cioè poco più di 30.000 miliardi di km o, per usare una misura di lunghezza più consona alle distanze astronomiche, 3,262 anni luce.

Il metodo della parallasse consiste nel misurare l’angolo formato dagli spostamenti di una stella nel cielo, osservandola a sei mesi di distanza, cioè quando la Terra si trova in due punti opposti della sua orbita intorno al Sole. Dall’angolo di parallasse si può poi ricavare la distanza della stella dal Sole. Nel grafico le misure non sono in scala: nella realtà gli angoli di parallasse sono immensamente più piccoli di quello illustrato e la distanza tra una qualsiasi stella e il Sole è enormemente maggiore del raggio dell’orbita terrestre (ESA/ATG medialab/Michele Diodati)

Purtroppo, a dispetto della perfetta validità teorica del metodo, tutti gli astronomi che, dall’epoca di Tycho Brahe in poi, si erano cimentati con la ricerca della parallasse stellare, erano andati incontro a ripetuti fallimenti. Eppure Halley aveva scoperto che le stelle si muovono: come mai allora non era possibile misurare alcun angolo di parallasse, pur osservando una stessa stella a distanza di sei mesi? Il motivo era di natura puramente tecnologica, anche se gli astronomi del tempo non potevano averne la certezza: le stelle, infatti, anche le più vicine, erano troppo lontane perché i telescopi riuscissero a scorgere l’infinitesimo spostamento accumulato nel corso di sei mesi come puro riflesso del moto della Terra intorno al Sole.

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Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.