L’aspetto di Gargantua, il buco nero del film Interstellar, è stato generato rispettando criteri scientifici, basati sull’applicazione della relatività generale alla materia in movimento intorno all’orizzonte degli eventi, un ambiente dominato dalla gravità estrema del buco nero. Credit: Oliver James et al 2015 Class. Quantum Grav. 32 065001

La foto del secolo

La collaborazione internazionale EHT si accinge a tentare un’impresa scientifica ai limiti del possibile: osservare direttamente l’orizzonte degli eventi di un buco nero

Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia
15 min readApr 1, 2017

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Perché è così difficile vedere un buco nero?

Non esiste un solo oggetto astronomico che possa competere anche lontanamente con i buchi neri per quanto riguarda la distanza tra la teoria e l’osservazione: tantissima teoria, nessuna osservazione diretta.

Da quando il fisico John Wheeler coniò il termine “buco nero” nel 1967, sono stati versati fiumi di inchiostro per definire con la maggiore accuratezza possibile com’è fatto e come si comporta — o, meglio, dovrebbe comportarsi — un buco nero.

Ma intorno alla natura di questi strani oggetti si discuteva già ben prima che Wheeler trovasse il nome adatto per definirli. Risale al lontano 1783 il primo riferimento alla possibilità che esistano stelle così massicce da impedire persino alla luce di sfuggire alla loro attrazione gravitazionale. L’idea fu partorita dal geniale astronomo e geologo inglese John Michell, all’interno di una cornice teorica in cui la luce era ancora considerata un fenomeno meramente corpuscolare.

Purtroppo, dal 1783 a oggi, mentre la teoria dei buchi neri progrediva, arrivando fino al punto di ipotizzare un destino di dissolvimento finale attraverso la cosiddetta radiazione di Hawking, non si registravano passi in avanti altrettanto notevoli nella capacità di osservarli fisicamente: nessuno vide mai un buco nero (o meglio una stella nera) ai tempi di Michell; e anche ai nostri giorni, oltre 230 anni dopo, nessun astronomo ha mai avuto il piacere di osservare un buco nero.

Per la verità, nel corso degli ultimi decenni sono stati accumulati numerosi e importanti indizi che puntano con decisione verso la conferma dell’esistenza dei buchi neri. A cominciare da Cygnus X-1 per finire con Sgr A*, il buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea, non c’è appunto nulla di meglio di un buco nero per spiegare i vistosi effetti gravitazionali che sono stati osservati sulle stelle che si trovano nelle vicinanze di questi oggetti. L’anno scorso, poi, gli osservatori LIGO ci hanno permesso addirittura di ascoltare la voce dei buchi neri, grazie alla clamorosa scoperta di un passaggio di onde gravitazionali attraverso la Terra: una sequenza di oscillazioni che corrispondeva perfettamente a ciò che i modelli teorici prevedono per la fusione di due buchi neri da 36 e 29 masse solari rispettivamente.

Ma l’essere umano si fida soprattutto della vista. Siamo veramente certi che un oggetto esiste, e sia ragionevolmente conforme a come la teoria lo descrive, solo se e quando riusciamo finalmente a vederlo. E i buchi neri, purtroppo, rifiutano ostinatamente di lasciarsi vedere.

Tuttavia, proprio perché si tratta di buchi neri, bisogna anche porsi una domanda logica: non sarà che non li vediamo perché per loro natura non possono essere visti? Se, infatti, sono così massicci e compatti che neppure la luce può sfuggire alla loro attrazione, è inevitabile pensare che devono per forza rimanere invisibili, indipendentemente da quanto sia grande il telescopio puntato verso di loro.

In realtà le cose non stanno proprio così. È vero che un buco nero in sé stesso non è osservabile, ma ciò che gli sta intorno, almeno teoricamente, . Per la gioia di quegli inguaribili “guardoni” spaziali che sono gli astronomi, il disco di accrescimento che circonda un buco nero, cioè la sua riserva di “cibo” composta da gas e detriti in rapida rotazione, si trova al di fuori dell’orizzonte degli eventi, cioè all’esterno del confine che definisce il “mantello” di invisibilità di un buco nero. Il disco rientra perciò tra gli oggetti che, con un telescopio sufficientemente potente, potremmo riuscire ad osservare. E, se la teoria è corretta, la materia nel disco di accrescimento deve assumere una configurazione particolare, che, se e quando sarà finalmente osservata, ci fornirà la prova certa e inequivocabile che i buchi neri esistono e si comportano così come prescrive la teoria.

Ma cos’è, in sostanza, che la teoria prescrive?

Secondo la relatività generale di Einstein, una massa sufficientemente grande e concentrata ha, tra le altre cose, la capacità di deformare lo spaziotempo nelle sue vicinanze, fino a creare fenomeni ottici inusuali, impossibili da osservare altrove. Se proviamo a immaginare come ci apparirebbe un buco nero visto contro lo sfondo del suo disco di accrescimento, l’intuizione ci suggerisce l’immagine di un disco luminoso, simile in qualche modo agli anelli di Saturno, con al centro una sorta di macchia nera al posto di Saturno, che, a seconda dell’inclinazione del disco, nasconde alla nostra vista il lato lontano del disco medesimo: un’ostruzione che sarebbe la prova visuale dell’esistenza del buco nero.

Ma questa ragionevole intuizione è, purtroppo, assolutamente inadeguata a descrivere la deformazione dello spaziotempo creata da un buco nero: a causa dell’enorme curvatura generata dalla gravità, riusciremmo a vedere, distorta e moltiplicata, anche la parte del disco che si trova dietro il buco nero rispetto al nostro punto di osservazione. Inoltre le parti più interne del disco di accrescimento, che ruotano a velocità prossime a quelle della luce, produrrebbero un fenomeno chiamato effetto Doppler relativistico: il lato del disco che, ruotando, si avvicina al nostro punto di osservazione ci apparirebbe molto più luminoso della parte che, invece, si allontana da noi. In sostanza, più che un disco, vedremmo una specie di falce luminosissima. E, al centro di quella mezzaluna, un oggetto scuro: l’ombra del buco nero, o meglio del suo orizzonte degli eventi.

Un’immagine di sintesi che simula come potrebbe apparire all’osservazione diretta la regione intorno all’orizzonte degli eventi di un buco nero. Credit: Science

Riuscire a osservare direttamente una simile configurazione sarebbe non solo la prova visiva dell’esistenza dei buchi neri, ma anche la più sensazionale conferma che la relatività generale funziona anche nei regimi gravitazionali più estremi, cosa della quale non abbiamo ancora prove sicure. Sarebbe come ripetere a distanza di un secolo il famoso esperimento di Eddington del 1919 che, fotografando le stelle visibili nei pressi del bordo solare da due diverse località della Terra durante un’eclissi totale, dimostrò che la luce veniva deflessa dalla massa del Sole esattamente della quantità prevista dalla relatività generale (un risultato che trasformò Einstein, da un giorno all’altro, in una celebrità mondiale).

Che cosa aspettano, dunque, gli astronomi a puntare i loro telescopi più potenti verso i migliori candidati buchi neri? C’è per esempio Cygnus X-1. Nel 1975 due famosi fisici, Stephen Hawking e Kip Thorne, scommisero su Cygnus X-1: Hawking riteneva che non fosse un buco nero, Kip Thorne — la mente scientifica dietro gli osservatori LIGO e il film Interstellar — pensava invece di sì. Nel 1988, Hawking concesse la vittoria della scommessa a Thorne: un abbonamento di un anno alla rivista Penthouse. Anche Hawking, nel frattempo, si era infatti convinto, anche se solo al 95%, come precisò nel suo libro “Dal big bang ai buchi neri”, che quell’intensa sorgente di raggi X nella costellazione del Cigno era proprio un buco nero. Perché dunque non siamo riusciti finora a osservare direttamente il suo disco di accrescimento intorno all’orizzonte degli eventi, in modo da dissipare anche quel rimanente 5% di incertezza?

Il problema è che i buchi neri, almeno quelli noti, sono piccolissimi e lontanissimi.

Quando una stella collassa riducendosi a un buco nero, le sue dimensioni diminuiscono enormemente, ed è proprio grazie a questa contrazione che l’oggetto può sprigionare un’immensa forza gravitazionale. Cignus X-1 è un sistema binario, in cui c’è una supergigante blu da circa 14–16 masse solari, con un raggio 20–22 volte maggiore di quello del Sole, che ruota intorno al centro di massa del sistema in 5,6 giorni. L’altro membro — il candidato buco nero — ha una massa stimata attraverso le variazioni nell’emissione di raggi X in 14,8±1 masse solari, simile dunque alla massa dell’unico oggetto visibile del sistema, la supergigante blu. La cosa quasi incredibile è che quest’oggetto, che definire compatto è poco, racchiude la sua intera massa, 15 volte maggiore di quella del nostro Sole, in una sfera di appena 26 km di raggio! È quello, infatti, secondo i calcoli basati sulla relatività generale, il cosiddetto raggio di Schwarzschild del buco nero in Cygnus X-1, cioè il raggio del suo orizzonte degli eventi: quel confine che agisce come una membrana tra il mondo governato dalla fisica a noi nota e il mondo interno del buco nero, nascosto per sempre alla vista e alla conoscenza.

Alla distanza di Cygnus X-1 dalla Terra, stimata in 6.100 anni luce (cioè 5,77×10¹⁶ km, ovvero 57,7 milioni di miliardi di km), osservare un oggetto con un raggio di 26 km è oggettivamente impossibile. Tutto ciò che possiamo vedere puntando i migliori telescopi verso Cygnus X-1 sono la supergigante blu e la potente radiazione variabile, visibile nei raggi X e nelle onde radio, legata al periodo orbitale del sistema e, con molta probabilità, all’emissione di getti relativistici da parte del buco nero.

Rappresentazione artistica del disco di accrescimento intorno a un buco nero. Un getto relativistico emana dalla regione più interna, calda e turbolenta del disco. Credit: Science

L’Event Horizon Telescope

Dobbiamo dunque rassegnarci all’idea di non poter mai osservare direttamente l’orizzonte degli eventi di un buco nero e il suo disco di accrescimento? Per fortuna no. Se i buchi neri di massa stellare come Cygnus X-1 sono davvero troppo piccoli per qualsiasi telescopio, esistono però anche buchi neri supermassicci da milioni o addirittura miliardi di masse solari, che hanno raggi di Schwarzschild di dimensioni un po’ meno minuscole.

Proprio nella speranza di poter usare dei buchi neri supermassicci come bersaglio dell’osservazione, è stata creata da qualche anno una collaborazione internazionale, che ha raggiunto attualmente i 30 membri disseminati su 12 nazioni. Si tratta dell’EHT o Event Horizon Telescope. Come dice il nome, questa collaborazione si propone di riuscire a osservare l’orizzonte degli eventi (attraverso la materia che gli ruota intorno) di un candidato buco nero. E il progetto è di riuscirci nel corso di questo decennio.

A dire il vero, anche tra i buchi neri supermassicci, i candidati per una simile operazione sono veramente pochi. Alla fine di una non lunga selezione, ne rimangono soltanto due: Sgr A*, il buco nero da 4 milioni di masse solari annidato al centro esatto della Via Lattea, e il buco nero da 6,4 miliardi di masse solari che si trova al centro della gigantesca galassia ellittica M87.

Sgr A* è, tra tutti i buchi neri al momento noti, quello il cui orizzonte degli eventi, osservato dalla Terra, ha la dimensione angolare maggiore. Tuttavia, si tratta, ancora una volta, di una dimensione spaventosamente piccola: a 26.000 anni luce di distanza da noi, con un diametro stimato in 24 milioni di km, più o meno 2/5 della distanza orbitale di Mercurio dal Sole, l’orizzonte degli eventi di Sgr A* ha un diametro angolare di appena 20 microsecondi d’arco (20 milionesimi di secondo d’arco). Per capire quanto sia minuscola questa grandezza, possiamo provare a pensarla in rapporto a quella della Luna vista dalla Terra. Il nostro satellite ha un diametro angolare nel cielo di circa 30 minuti d’arco, cioè 1800 secondi. Una semplice operazione aritmetica ci dice, dunque, che l’orizzonte degli eventi di Sgr A*, visto dalla Terra, copre una frazione di cielo 90 milioni di volte più piccola della Luna.

Un’infografica pubblicata da Nature che descrive il tipo di deformazioni che influenzano l’aspetto dell’orizzonte degli eventi di un buco nero

Con 6,4 miliardi di masse solari, il buco nero di M87 è in verità molto più grande di Sgr A*: il suo orizzonte degli eventi ha un diametro calcolato in addirittura 20 miliardi di km. Però questo immenso buco nero è anche molto più lontano di Sgr A*. A una distanza di circa 50 milioni di anni luce da noi, il suo diametro angolare, osservato dalla Terra, si riduce a un po’ meno di 15 microsecondi d’arco, persino più piccolo di quello di Sgr A*.

Come fare allora a mettere un telescopio in grado di distinguere, sia pure in modo rudimentale, oggetti così minuscoli?

La soluzione sta in una sigla, VLBI, cioè Very Long Baseline Interferometry: in italiano “interferometria a linea di base lunghissima”. L’idea che sostiene il progetto EHT è quella di trasformare l’intero pianeta Terra in un gigantesco telescopio. Ovviamente non si tratta di costruire uno specchio grande come la Terra, ma di combinare insieme i segnali catturati da diversi telescopi sparsi in tutto il mondo. L’interferometria è appunto questo: un sistema per combinare le onde elettromagnetiche ricevute da telescopi fisicamente separati tra loro, in modo da costruire un’immagine finale che ha l’elevatissima risoluzione che si potrebbe ottenere con un unico telescopio, dotato di uno specchio del diametro pari alla distanza massima che separa i telescopi che formano l’interferometro (ecco l’importanza della linea di base lunghissima).

Con un interferometro della grandezza della Terra diventa persino possibile scorgere oggetti delle dimensioni angolari di pochi microsecondi, come gli orizzonti degli eventi di Sgr A* e del super-buco nero di M87. Per riuscire nell’impresa di osservarli direttamente occorre raggiungere una risoluzione tra le 1.000 e le 2.000 volte maggiore di quella di Hubble, l’equivalente della capacità di scorgere un panino o una mela sulla superficie della Luna!

Purtroppo quest’impresa non può essere tentata con telescopi ottici come Hubble. Il centro galattico, il luogo in cui si trova Sgr A*, è infatti pesantemente oscurato da immense cortine di polveri e gas, impenetrabili alla luce visibile. Considerando anche l’impedimento creato dall’atmosfera terrestre e la necessità di ottenere immagini sufficientemente nitide, l’unica “finestra” che gli astronomi hanno giudicato praticabile è quella delle lunghezze d’onda millimetriche, in particolare quella a 1,3 millimetri.

EHT ha in effetti già provato negli anni scorsi a osservare i due buchi neri supermassicci. I risultati ottenuti sono stati apprezzabili, ma non risolutivi. Per M87 si è giunti a definire un limite superiore per la grandezza dell’orizzonte degli eventi (cioè 5,5 volte meno del diametro interno del disco di accrescimento, che è pari a circa 750 unità astronomiche). Nel caso di Sgr A* sono state ottenute informazioni importanti sul comportamento del campo magnetico. Ma alla rete di telescopi EHT mancava la risoluzione sufficiente per spingersi fino al livello dell’orizzonte degli eventi dei due buchi neri.

Adesso però le cose sono cambiate. A EHT si sono uniti nuovi radiotelescopi, per un totale di 8 osservatori in tutto. E tra questi c’è un vero fuoriclasse: ALMA, nel deserto del Cile, con la sua griglia di 66 antenne. Con l’ingresso di ALMA in EHT e con radiotelescopi sparsi su più continenti, compresa l’Antartide, stavolta l’impresa sembra finalmente possibile. Anche perché — almeno si spera — la relatività generale darà una grossa mano al progetto. L’immensa gravità generata da un buco nero supermassiccio crea infatti fenomeni di lente gravitazionale, previsti appunto dalla relatività generale, che potenziano la luce emessa dalla materia sul disco di accrescimento in rotazione intorno al buco nero e amplificano le dimensioni dell’oggetto. Grazie a tale amplificazione, il diametro dell’orizzonte degli eventi dovrebbe apparire circa cinque volte maggiore di come sarebbe senza il contributo della lente. Con un raggio di Schwarzschild di soli 10 microsecondi d’arco, neppure l’EHT potenziato con ALMA riuscirebbe a vedere l’orizzonte degli eventi di Sgr A*. Ma se questa grandezza viene moltiplicata per cinque, ecco allora che ricade nei limiti di risoluzione dell’interferometro.

La dislocazione degli osservatori che partecipano all’EHT. Credit: Science

Un’impresa scientifica incredibilmente complessa

In ogni caso, una simile impresa scientifica è ai limiti delle capacità tecnologiche attualmente disponibili. Perché il progetto vada a buon fine, occorre che tutto funzioni in modo perfetto all’interno di una procedura straordinariamente articolata e complessa, nel corso della quale molte cose possono andare storte.

Il primo fattore di rischio, purtroppo del tutto indipendente dalla volontà umana, è il tempo atmosferico. In tutte e otto le località sparse per il mondo in cui sorgono i radiotelescopi che partecipano al progetto il cielo dovrà essere terso, cristallino e secco. Considerando il clima delle varie località interessate, nonché il poco tempo di telescopio lasciato libero dagli impegni pregressi, tutto ciò riduce la finestra di osservazione a due sole settimane in un anno intero. E queste due settimane stanno per arrivare. L’EHT ha deciso infatti che il periodo giusto per cercare di osservare direttamente Sgr A* e il buco nero di M87 è l’arco di tempo compreso tra il 5 e il 14 aprile prossimi. In queste due settimane, quattro o al massimo cinque notti saranno dedicate interamente al progetto: due notti almeno per l’osservazione di Sgr A* e altre due per quella di M87.

L’esecuzione del programma è subordinata, come abbiamo detto, alla presenza di condizioni atmosferiche favorevoli. In ogni località vi saranno dei tecnici dell’EHT impegnati a monitorare costantemente il livello d’umidità. È quello infatti il nemico peggiore da temere. Una colonna d’aria troppo umida sulla verticale di una o più antenne può distorcere i segnali in ingresso nell’atmosfera, fino a rendere inutilizzabile l’immagine finale che si spera di ottenere. Se, pertanto, le condizioni atmosferiche non saranno conformi ai limiti prestabiliti, i responsabili non daranno il via libera alle osservazioni e toccherà probabilmente aspettare un altro anno per riprovarci. Incrociamo le dita!

Ma non sono solo le condizioni atmosferiche a minacciare la buona riuscita dell’impresa. Un altro requisito importante è la necessità che ogni segnale ricevuto dalle antenne sparse per il mondo sia registrato in modo perfettamente standardizzato, in vista della combinazione dei segnali, che avverrà soltanto in seguito, a osservazioni ormai compiute. A differenza, infatti, dei normali interferometri, che operano su distanze molto minori e combinano i segnali dei singoli telescopi in tempo reale, nel caso dell’EHT ciascun membro della collaborazione dovrà registrare e archiviare i dati per conto proprio, perché non sono disponibili connessioni Internet così veloci da consentire il trasferimento immediato a un centro di controllo dei dati elaborati da ciascuna antenna. Solo in un secondo momento, i numerosi dischi rigidi contenenti i dati delle osservazioni saranno recapitati ai due centri di controllo che tenteranno di estrapolare le immagini dei buchi neri: uno si trova in Germania, a Bonn, presso il Max Planck Institute for Radio Astronomy; l’altro presso lo Haystack Observatory di Westford, nel Massachusetts (USA).

Perché la ricostruzione ex post delle immagini possa avvenire senza intoppi, occorre che ogni singola stazione di osservazione registri per mezzo di orologi atomici l’esatto tempo di arrivo di ogni singola cresta e gola di ciascuna onda elettromagnetica ricevuta, approssimato al più vicino decimo di nanosecondo (un decimiliardesimo di secondo). La mole di dati generata da un simile processo sarà semplicemente immensa. Si calcola che la registrazione di una sola notte di osservazioni dell’EHT produrrà 2 petabyte di dati: quanto basta per riempire completamente 2.000 dischi rigidi da 1 terabyte (la capienza tipica del disco fisso di un comune PC).

I due centri di controllo avranno bisogno di mesi e mesi di lavoro per mettere ordine in una massa così sterminata di informazioni. I dati delle osservazioni saranno “macinati” da griglie di computer chiamate correlatori, finché non emergeranno, alla fine, le immagini degli orizzonti degli eventi dei due buchi neri, che gli scienziati dell’EHT sperano ardentemente di ottenere. Considerando che i dati registrati al Polo Sud non saranno disponibili prima di settembre o ottobre, cioè quando lo scioglimento dei ghiacci permetterà di recapitare fisicamente i dischi fissi ai centri di controllo, è probabile che gli articoli scientifici che descriveranno i risultati delle osservazioni non vedranno la luce prima del 2018 inoltrato.

Mettere in piedi una macchina così complessa come l’EHT è stato già di per sé un’impresa. Per ottenere il livello di accuratezza nella registrazione dei dati, indispensabile per sperare di riuscire finalmente a vedere il confine esterno dei due buchi neri, i tecnici dell’EHT sono dovuti intervenire in profondità sulla struttura fisica e sulle procedure lavorative di tutti gli osservatori coinvolti nell’impresa. È stato necessario installare nuovi dispositivi tecnologici e dislocare decine di tecnici specializzati in tutto il mondo, sperando che ognuno di loro, in quelle quattro o cinque notti, riesca a compiere con assoluta precisione, senza margini di errore, il proprio compito.

Ma se alla fine tutto sarà andato per il meglio, la ricompensa potrebbe essere straordinaria. Probabilmente le immagini finali saranno poco definite e difficili da interpretare per i non addetti ai lavori, ma, se la risoluzione raggiunta sarà in linea con quella attesa, allora quelle immagini conterranno risposte scientifiche attese da decenni.

In primo luogo, si saprà se c’è un orizzonte degli eventi oppure no. Gli scienziati che lavorano al progetto hanno prodotto una lunga serie di simulazioni, cercando di prevedere tutti gli esiti possibili delle osservazioni. Tra le varie possibilità prese in considerazione, c’è anche quella che, per qualche motivo che non conosciamo, il collasso gravitazionale si arresti prima che un oggetto compatto diventi un buco nero. Se questo fosse davvero ciò che accade, allora le immagini dell’EHT ci mostreranno che, al posto del buco nero, c’è una specie di stella super-compatta, ancora in grado tuttavia di emettere radiazioni.

Un’altra cosa che gli astronomi sperano di scoprire è l’origine dei getti relativistici prodotti dai buchi neri. Si sa che potentissimi campi magnetici sono con ogni probabilità i motori che alimentano i getti, ma non è ancora chiaro se questi campi abbiano a che fare con le turbolenze che si generano sul disco di accrescimento del buco nero oppure siano prodotti dalla rotazione del buco nero medesimo. Anche riguardo a questo problema, le immagini dell’EHT potrebbero essere risolutive.

L’incredibile getto relativistico lungo migliaia di anni luce, osservato nel visibile e nelle onde radio, emesso dall’enorme buco nero supermassiccio al centro della galassia ellittica M87. Credit: NASA/ESA/NRAO/STScI

Spingendo al massimo le capacità degli algoritmi sviluppati per interpretare i dati, i ricercatori sperano addirittura di riuscire a ottenere delle sequenze animate, in grado di catturare l’attimo in cui masse di gas in turbinoso movimento intorno all’orizzonte degli eventi finiscono inghiottite dal buco nero, scomparendo per sempre dall’universo visibile.

Staremo a vedere cosa accadrà ad aprile. Quel che è certo è che l’impresa scientifica tentata dall’EHT è non solo estremamente complessa, ma anche terribilmente suggestiva. Ci toccherà purtroppo attendere fino al 2018 per vedere quella che potrebbe diventare a buon diritto la foto del secolo: la prima immagine diretta di uno degli oggetti più potenti e misteriosi dell’universo, un buco nero supermassiccio (o qualunque altra cosa sia), nascosto nel cuore stesso della galassia.

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Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.