L’incredibile potenza della pulsar del Granchio
La Nebulosa del Granchio è un resto di supernova generato da una stella esplosa 7500 anni fa, la cui luce raggiunse la Terra nel 1054. La pulsar che si trova al centro della nebulosa è in grado di produrre fenomeni astrofisici tra i più potenti mai osservati. Uno studio pubblicato a fine luglio riporta il rilevamento di fotoni provenienti dalla Nebulosa del Granchio con energie superiori ai 400 TeV, cioè 35 volte maggiori della massima energia prodotta nelle collisioni tra protoni che avvengono nello LHC di Ginevra, il più potente acceleratore di particelle mai costruito
Il 4 luglio del 1054 una nuova, luminosissima stella apparve nel cielo presso il corno sinistro della costellazione del Toro. Brillante come Venere, fu possibile vederla in pieno giorno per oltre tre settimane prima che la sua luminosità cominciasse a scemare. Rimase comunque visibile nel cielo notturno per quasi due anni. La testimonianza della sua apparizione ci viene da cronache cinesi e arabe dell’epoca. In Occidente l’insolito e sconcertante fenomeno non fu ritenuto degno di essere tramandato da alcun testo scritto, probabilmente a causa dell’erronea credenza che il cielo delle cosiddette stelle fisse fosse, e dovesse rimanere, immutabile.
Molti secoli dopo, grazie all’invenzione del telescopio, si scoprì che nella posizione in cui nel 1054 era apparsa quella brillantissima stella c’era una nebulosità, che l’astronomo francese Charles Messier inserì al numero 1 del suo famoso catalogo di oggetti celesti che, osservati con gli strumenti dell’epoca, somigliavano a comete ma non erano comete. Oggi sappiamo che Messier 1 o, più brevemente, M1 è il resto di una supernova. Quello che raggiunse la Terra circa un millennio fa fu il bagliore di una spaventosa catastrofe cosmica: una stella molto più massiccia del Sole, giunta alla fine della propria vita dopo aver esaurito le riserve di combustibile nucleare, esplose con inimmaginabile potenza, disperdendo i suoi strati esterni nello spazio circostante.
In seguito all’esplosione di supernova, i materiali eiettati dalla stella morente si diffusero formando una complessa raggiera di filamenti. William Parsons, III conte di Rosse, famoso astronomo irlandese del XIX secolo, osservò la nebulosità nel 1844 con il suo telescopio da 0,9 metri e ravvisò nella forma creata dai filamenti la somiglianza con un granchio, sicché la chiamò Nebulosa del Granchio (Crab Nebula in inglese). Il nome rimase e oggi l’oggetto di catalogo M1 è universalmente noto come la Nebulosa del Granchio.
I materiali espulsi con l’esplosione, dopo quasi 1.000 anni, continuano a espandersi con una velocità di 1.500 km/s, pari allo 0,5% della velocità della luce. La massa di filamenti intrecciati, calcolata in 4,6 masse solari, copre irregolarmente un’area di cielo che misura all’incirca 7×5 minuti d’arco: l’equivalente, più o meno, di 13×9 anni luce, alla distanza di 6.500 anni luce dalla Terra alla quale si trova, secondo le stime più attendibili, la Nebulosa del Granchio.
Ma non tutta la materia che formava la stella progenitrice finì sparata nello spazio. Rimase un nucleo densissimo, costituito dalle ceneri della fusione nucleare che aveva alimentato la stella nel corso della sua esistenza. In seguito all’esplosione di supernova, mentre gli strati esterni si disperdevano tutto intorno ad altissima velocità, il nucleo stellare, non più sorretto dalla fusione nucleare, collassò su se stesso sotto l’azione della propria stessa gravità. Una massa forse superiore a 1,9 masse solari — l’equivalente di oltre 600.000 Terre — finì racchiusa in una sfera di appena 10–14 km di raggio. Con una densità centrale dell’ordine di 2,7×10¹⁷ kg/m³ (270 milioni di miliardi di chilogrammi per metro cubo), elettroni e nuclei atomici si fusero formando una “pasta” iperdensa di neutroni.
Era nata una stella di neutroni. Il campo magnetico e il momento angolare della stella progenitrice, trasportati alla dimensione minuscola della stella di neutroni, divennero smisuratamente grandi, dando origine a una pulsar, cioè una stella di neutroni in rotazione velocissima, altamente magnetizzata, in grado di produrre un impulso periodico osservabile in varie regioni dello spettro, causato dalla radiazione emessa dai suoi poli magnetici.
La pulsar al centro della Nebulosa del Granchio, cioè l’oggetto creato dal collasso gravitazionale del nucleo della stella esplosa come supernova nel 1054, fu scoperta nel 1968. È una delle pochissime pulsar che può essere osservata anche nella luce visibile. Compie una rotazione sul proprio asse ogni 33,5 millisecondi, pari a circa 30 rotazioni al secondo. Questa trottola forsennata è soggetta però a un inesorabile, lentissimo rallentamento: dopo un cinquantennio di continuo monitoraggio, oggi sappiamo che il suo periodo di rotazione aumenta di 38 nanosecondi, cioè 38 miliardesimi di secondo, al giorno.
Ad agire da freno, causando il lieve ma costante allungamento del periodo di rotazione, è il potentissimo campo magnetico della pulsar, la cui intensità presso i poli magnetici della stella raggiunge i 7,6×10¹² G ( 7.600 miliardi di gauss). Esso racchiude un’energia incomparabilmente maggiore rispetto al debole campo magnetico terrestre, la cui intensità alla superficie del nostro pianeta è al massimo di 0,65 gauss. È stato calcolato che un solo centimetro cubo del campo magnetico della pulsar del Granchio possiede una densità energetica maggiore di 5×10¹⁶ W (50 Petawatt o 50 milioni di miliardi di watt [1]).
Così la pulsar, grazie alla velocissima rotazione e al poderoso campo magnetico, inietta immense quantità di energia nell’ambiente circostante. Ruotando, produce campi elettrici con enormi differenze di voltaggio, che accelerano particelle cariche, soprattutto elettroni e positroni, spingendoli verso l’esterno. Elettroni e positroni, accelerati fino a velocità prossime a quelle della luce, restano intrappolati nelle linee del campo magnetico della pulsar, spiraleggiando intorno alle quali producono la cosiddetta radiazione di sincrotrone.
La Nebulosa del Granchio è stata osservata per quasi vent’anni con il telescopio spaziale a raggi X Chandra, che ha ripreso con straordinaria nitidezza l’ambiente intorno alla pulsar, pervaso da un vento letale di plasma superenergetico, disposto a formare anelli equatoriali intorno alla pulsar. Le immagini di Chandra mostrano che la stella di neutroni è circondata da una nube di particelle cariche che emettono raggi X ad alta energia. Parte della radiazione emessa sfugge sotto forma di getti collimati, emessi probabilmente dalle regioni polari della pulsar. Uno dei getti è chiaramente visibile nelle immagini di Chandra.
La perenne tempesta energetica che infuria intorno alla pulsar, causata dalla velocissima rotazione e dal campo magnetico, produce radiazione in tutte le bande dello spettro elettromagnetico, dalle onde radio fino ai raggi gamma. Tali emissioni raggiungono anche la Terra, a 6.500 anni luce di distanza, e sono state registrate nel corso degli anni con molteplici strumenti. Particolarmente interessanti per gli astrofisici sono i fotoni più energetici, quelli nella banda dei raggi gamma, che danno la misura della potenza dei fenomeni che si producono nei pressi della pulsar del Granchio.
Negli anni scorsi, vari esperimenti studiati per registrare energia e provenienza di fotoni gamma altamente energetici hanno individuato fotoni gamma provenienti dalla Nebulosa del Granchio con energie vicine al limite dei 100 TeV (Teraelettronvolt). Per capire di che energia stiamo parlando, basti pensare che 1 TeV equivale a 1.000 miliardi di eV (elettronvolt). Per confronto, la luce visibile trasporta energie comprese tra 1,5 e 3 eV. Pertanto, un fotone gamma da 100 TeV trasporta un’energia 14 ordini di grandezza maggiore di quella dei fotoni che compongono la luce visibile!
Ma uno studio pubblicato il 29 luglio su Physical Review Letters ad opera di un team di scienziati della Tibet AS γ Collaboration riporta un nuovo record di energia per i fotoni gamma provenienti dalla Nebulosa del Granchio.
Gli eventi riconducibili all’ingresso nell’atmosfera terrestre di questi fotoni sono stati registrati da un osservatorio situato nella località di Yangbajing, in Tibet, a un’altitudine di 4.300 metri sul livello del mare. L’osservatorio è composto da due strutture sovrapposte, che si integrano per fornire risultati il più possibile accurati. Al livello del suolo c’è una griglia di 597 scintillatori in materiale plastico, che copre una superficie di 65.700 m². Nel sottosuolo, a 2,4 metri di profondità sotto la griglia di scintillatori, si trovano 64 rilevatori di luce Čerenkov, studiati per registrare l’impatto di particelle cariche chiamate muoni. Ogni rilevatore è costituito da una vasca di cemento a tenuta stagna di 7,5×7,5 metri, riempita d’acqua fino a un’altezza di 1,5 metri. Sul soffitto di ogni vasca c’è un tubo fotomoltiplicatore, che rileva i fotoni prodotti dall’arrivo anche di un singolo muone.
Lo studio descrive i risultati di 716 giorni di osservazione congiunta da parte delle due strutture sovrapposte, nel periodo tra febbraio 2014 e maggio 2017. In questo arco di tempo, l’osservatorio ha registrato l’arrivo di 24 fotoni provenienti dalla Nebulosa del Granchio con energie maggiori di 100 TeV. Due di essi, in particolare, avevano energie superiori ai 400 TeV: 449 TeV in un caso, addirittura 458 in un altro. Se consideriamo che il più potente acceleratore di particelle costruito dall’uomo, il Large Hadron Collider del CERN di Ginevra, ha una potenza di picco di 13 TeV per le collisioni tra protoni, ne possiamo dedurre che i processi naturali in atto presso la pulsar del Granchio sono in grado di accelerare particelle cariche fino a produrre fotoni dotati di energie oltre 35 volte maggiori di quelle raggiungibili presso il CERN. E non è detto che i fotoni rilevati dall’esperimento in corso in Tibet siano i più energetici in assoluto. In realtà non sappiamo se esista un limite superiore all’energia dei fotoni creati nei pressi di una pulsar. Potrebbero già essere in viaggio verso la Terra fotoni con energia nella gamma dei PeV (10¹⁵ eV), che aspettano solo uno strumento sufficientemente sensibile in grado di rilevarne l’arrivo.
Resta da chiarire quali processi astrofisici siano responsabili della produzione di fotoni così energetici. Gli autori dello studio pubblicato su Physical Review Letters citano come causa più probabile l’effetto Compton inverso. Tale fenomeno si ha quando un fotone a bassa energia colpisce un elettrone relativistico ad altissima energia, come quelli accelerati dal campo magnetico rotante di una pulsar: l’elettrone trasferisce parte della sua energia al fotone, la cui lunghezza d’onda passa da quella tipica delle onde radio o delle microonde a quella, cortissima, dei raggi gamma. È un po’ come un colpo di biliardo, con la differenza che la velocità della “palla”-fotone non può aumentare (la velocità della luce è notoriamente una costante), per cui l’aumento di energia si manifesta attraverso la diminuzione della lunghezza d’onda.
Note
[1] Giusto per avere un termine di paragone, si tratta di un’energia sufficiente a tenere accese un miliardo di lampadine da 100 W per quasi 6 giorni.
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