Un acquerello dipinto da Charles Bennett, un impiegato della Martin Marietta (oggi Lockheed Martin). La scena raffigurata è una rappresentazione artistica di uno dei due lander Viking al lavoro sulla superficie di Marte

Perché è così difficile atterrare su Marte?

Il lander InSight è l’ultimo arrivato su Marte. Fa parte di un ristretto gruppo di sonde robotiche che la NASA è riuscita a far atterrare sul Pianeta Rosso, una serie inaugurata dall’impresa dei Viking nel 1976. Compiere un atterraggio morbido su Marte non è mai stata, infatti, un’impresa facile. Cerchiamo di capire perché

Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia
9 min readDec 4, 2018

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Negli ultimi anni i droni sono diventati così diffusi e affidabili da poter essere usati addirittura come corrieri volanti; e non è lontano il tempo in cui velivoli radiocomandati svolgeranno un normale servizio taxi aereo. Tuttavia, nonostante i grandi progressi del volo robotico avvenuti negli ultimi anni, fare atterrare in modo completamente automatico un lander o un rover sulla superficie di Marte continua a essere un’impresa pericolosa e molto complicata. La storia delle missioni spaziali dirette verso Marte è costellata di fallimenti: fallimenti che hanno riguardato sia i tentativi di entrare in orbita intorno al pianeta sia quelli di atterrare sulla sua superficie.

A tutt’oggi, sono 46 le missioni lanciate verso Marte: la prima fu la sovietica Mars 1M nel 1960, l’ultima quella di InSight, il lander della NASA atterrato nella grande distesa di Elysium Planitia il 26 novembre 2018. Di queste 46 missioni, quelle che hanno avuto successo sono state 17, i fallimenti sono stati ben 23, i successi misti a fallimenti sono stati 3 (e in tutti e tre i casi a fallire è stato un lander destinato a posarsi al suolo: Mars 6 nel 1974, Beagle 2 nel 2003, Schiaparelli nel 2016).

Perché è così difficile atterrare su Marte? Per varie ragioni. Innanzitutto bisogna arrivarci su Marte, e non è una cosa semplice. Nel caso più favorevole, che si verifica ogni due anni circa, la distanza tra la Terra e il pianeta rosso si riduce a “soli” 55 milioni di km. Ma tale distanza — di per sé non brevissima — non può essere coperta seguendo una traiettoria diretta come quella di un dardo lanciato contro un bersaglio appeso al muro. Marte e la Terra, infatti, non sono fermi nello spazio, ma orbitano intorno al Sole, per giunta a velocità differenti. Ciò significa che per raggiungere Marte bisogna seguire una traiettoria ellittica, che contempla lo spostamento dall’orbita terrestre a quella marziana: un giro molto largo, che si chiama tecnicamente trasferimento alla Hohmann.

In questa sorta di inseguimento spaziale, la sonda riduce progressivamente la sua distanza da Marte, mentre sia il velivolo che il pianeta continuano a orbitare intorno al Sole. È una traiettoria che somiglia un po’ ai lanci effettuati da un quarterback nel football americano: il quarterback non lancia la palla verso il punto in cui si trova in quel momento il compagno di squadra, ma verso il punto in cui si troverà più avanti, quando il giocatore, correndo mentre la palla è in aria, ne incrocerà la traiettoria.

Mars 2MV-4 №1, nota anche come Sputnik-22, fu una sonda sovietica, lanciata il 24 ottobre 1962. Avrebbe dovuto compiere un fly-by di Marte e inviare immagini del pianeta verso la Terra. Ma per un problema del razzo lanciatore, finì distrutta quando si trovava ancora in orbita intorno alla Terra [Abdul Kalam Students Research Club]

Per via di questa complicazione dovuta ai moti orbitali, la distanza da percorrere prima di arrivare nei pressi di Marte si moltiplica: non è più di 55 milioni di km, ma di oltre 450 milioni di km. E può aumentare ancora, se si sceglie di raggiungere Marte sfruttando gli assist gravitazionali della Terra, che, al prezzo di alcune orbite in più percorse dal velivolo, garantiscono un aumento di velocità sufficiente a raggiungere Marte utilizzando una minore quantità di propellente.

A seconda della strategia di volo prescelta, il tempo necessario per coprire la distanza fino a Marte può variare tra sei mesi e un anno, o anche più. Tutto può andare storto durante questo lungo viaggio, a cominciare dalla partenza, che è il primo momento critico dell’impresa.

Alcune missioni dirette verso Marte fallirono immediatamente dopo il lancio. Nel 1962, per esempio, la sonda sovietica Mars 2MV-4 si disintegrò quando si trovava ancora in bassa orbita terrestre, a causa di un guasto dello stadio superiore del razzo vettore. Un destino simile toccò nel 1971 a un’altra sonda sovietica, Mars 1971C (nota anche come Kosmos-419), che non riuscì ad accendere i motori dello stadio superiore per allontanarsi dall’orbita terrestre a causa di un errore umano nelle impostazioni del timer. Quarant’anni dopo, nel 2011, le cose non andarono meglio per Fobos-Grunt, una sonda russa che aveva l’ambizioso compito di riportare sulla Terra 200 grammi di suolo dalla luna marziana Fobos: non riuscì mai ad abbandonare la bassa orbita terrestre e, invece di partire per Marte, perse a poco a poco quota, finendo distrutta durante il rientro in atmosfera.

Un modello esposto al Paris Air Show del 2011 della sonda russa Fobos-Grunt. Il velivolo, lanciato dal cosmdromo di Baikonur l’8 novembre 2011, avrebbe dovuto raggiungere Marte dieci mesi dopo, ma non riuscì ad abbandonare l’orbita terrestre per problemi legati all’accensione dei razzi dello stadio superiore [Wikimedia]

Quando il lancio va a buon fine, il successivo momento critico è l’incontro con Marte. Centrare il pianeta attraverso l’inseguimento orbitale descritto più sopra non è per nulla banale: bisogna compiere delle manovre di correzione di rotta durante il tragitto, la cui entità dipende da complessi calcoli, basati sulla determinazione di dove si trovano esattamente il velivolo e Marte in un dato momento. Se questa conoscenza non è sufficientemente precisa, per esempio a causa di dati incompleti o sbagliati inviati via radio dalla sonda, è fatale che l’incontro con Marte finisca male: o il velivolo manca il bersaglio e si perde nello spazio oppure entra nell’atmosfera marziana e si schianta al suolo.

Un problema di questo tipo accadde al Mars Climate Orbiter della NASA, che a settembre del 1999 fallì l’inserimento nell’orbita di Marte perché era arrivato all’appuntamento con il pianeta troppo vicino alla superficie. L’errore era stato determinato da una serie di correzioni di rotta sbagliate, causate da un incredibile errore di conversione delle unità di misura nel software che serviva per gestire la desaturazione dei giroscopi durante il viaggio verso Marte. Ma le cose possono andar male per molte altre ragioni: la sonda giapponese Nozomi, che sarebbe dovuta entrare in orbita intorno a Marte l’11 ottobre 1999, non riuscì a sviluppare la necessaria velocità finale, perché, nelle fasi iniziali del viaggio, una valvola difettosa aveva causato una notevole perdita di propellente. E da allora Nozomi è un piccolo satellite artificiale in orbita eliocentrica…

Una rappresentazione artistica della sonda giapponese Nozomi con Marte sullo sfondo. Purtroppo la realtà non corrispose alle attese: per una perdita di carburante, Nozomi non riuscì a entrare in orbita intorno a Marte. Superò il pianeta e si perse nello spazio, rimanendo vincolata a un’orbita eliocentrica della durata di circa 2 anni [NASA]

Se il lancio e la “crociera” verso Marte si svolgono correttamente, giunge infine il momento più critico di tutti, almeno per le missioni che trasportano un lander o un rover: l’atterraggio sulla superficie del pianeta. Il primo, grande problema da fronteggiare è il tempo di andata e ritorno dei segnali radio: con una media di 12,5 minuti per l’invio di un comando dalla Terra a Marte e di altrettanti minuti per la ricezione del segnale di ritorno, guidare in tempo reale dalla Terra la discesa di una sonda verso la superficie di Marte è materialmente impossibile. Tutta la procedura, pertanto, deve essere automatizzata. Il che vuol dire che non è possibile effettuare una discesa controllata senza l’ausilio di un computer di bordo in grado di gestire una complicata sequenza di operazioni, che devono incastrarsi l’una con l’altra alla perfezione.

Per via della totale impossibilità di intervenire dalla Terra, l’intervallo di tempo tra la fase di ingresso nell’atmosfera di Marte e l’atterraggio del lander o del rover è stato opportunamente soprannominato i sei minuti di terrore (o sette, a seconda della complessità delle procedure automatiche da portare a termine). Bastano infatti sei o sette minuti per completare l’intera procedura, dall’ingresso in atmosfera all’atterraggio. Ma, per chi è sulla Terra in attesa di un segnale proveniente da Marte, sono minuti interminabili: minuti dal cui esito dipendono anni di progettazione, investimenti talvolta miliardari e il successo o il fallimento di intere carriere.

La prima operazione a rischio è proprio l’ingresso in atmosfera, che deve avvenire con il giusto angolo d’inclinazione, che è intorno a 12 gradi. A questo punto, diventa protagonista lo scudo termico anteriore, che ha due funzioni essenziali:

  • assorbire la gran parte dell’energia cinetica del veicolo, che per l’attrito atmosferico passa nel giro di due minuti da una velocità superiore ai 20.000 km/h a circa 1.600 km/h;
  • proteggere i delicati strumenti e componenti elettronici della sonda dal calore generato dall’attrito, che supera facilmente i 1.000 °C.
Il lander Phoenix mentre scende verso la superficie di Marte appeso al suo paracadute. L’immagine fu catturata il 25 maggio 2008 dallo strumento HiRISE dell’orbiter MRO da una distanza di 760 km [NASA/Jet Propulsion Lab-Caltech/University of Arizona]

Successivamente, intorno ai 9–10 km di altezza dal suolo, il compito di frenare ulteriormente la discesa passa a un grande paracadute, che può essere eventualmente coadiuvato da un paracadute ausiliario. Ma l’atmosfera di Marte è molto più rarefatta di quella della Terra (la sua densità al suolo è così bassa che corrisponde alla densità dell’atmosfera terrestre a 35 km di altitudine). Ne consegue che l’efficacia del paracadute è limitata e, in mancanza di altri dispositivi di frenata, non impedirebbe al suo prezioso carico di sfracellarsi al suolo.

Per tale ragione, la sonda deve essere dotata di retrorazzi, che entrano in funzione a circa 2 km dalla superficie. Al momento della loro accensione, una lunga serie di manovre automatiche deve già essersi svolta impeccabilmente:

  • la correzione di assetto per entrare in atmosfera con l’angolo giusto;
  • l’apertura del paracadute;
  • lo sganciamento dello scudo termico anteriore;
  • l’eventuale sganciamento di quello posteriore e del paracadute;
  • l’entrata in funzione di un altimetro per misurare le variazioni di distanza dal suolo.
Ingegneri della NASA testano nel giugno 1995 gli airbag che sarebbero stati usati durante la missione Mars Pathfinder [NASA]

Ciò che succede dall’accensione dei retrorazzi in poi dipende dalla massa del carico e dalle scelte progettuali. Nel caso delle missioni Pathfinder (1996), Spirit e Opportunity (2004), il computer di bordo innescò una procedura che fece gonfiare in pochi istanti una serie di airbag, che formarono una gabbia protettiva intorno al veicolo, nascosto all’interno di un guscio isolante. All’altezza di circa 20 metri dal suolo, nel momento in cui i retrorazzi avevano frenato la discesa fino a raggiungere una velocità pari quasi a zero, un apposito comandò determinò la rottura del cavo di sospensione, sicché il lander e i rover percorsero gli ultimi metri in caduta libera. Gli airbag assorbirono la gran parte dell’energia cinetica degli impatti col suolo, nel corso della numerosa serie di rimbalzi avvenuti dopo il primo contatto (la gravità su Marte è solo 3/8 di quella terrestre, ma la massa inerziale degli oggetti rimane la stessa che sulla Terra e nel resto dell’universo).

Intanto, altri comandi automatici avevano fatto allontanare i dispositivi di discesa — scudo termico posteriore, paracadute e retrorazzi — di una distanza sufficiente a far sì che i vari pezzi, cadendo al suolo, non interferissero in alcun modo con i rimbalzi degli airbag. Un’ulteriore procedura automatica provocò infine lo sgonfiamento degli airbag, l’apertura del guscio protettivo e l’esecuzione di una routine di controllo, comprendente l’invio dell’agognato segnale radio che l’atterraggio era andato a buon fine.

La complicata sequenza di operazioni automatiche che il rover Curiosity ha dovuto eseguire nel 2012 durante i “sette minuti di terrore” intercorsi tra l’ingresso in atmosfera e l’atterraggio morbido sulla superficie di Marte [NASA/JPL-Caltech]

Nel caso del rover Curiosity, dotato di una massa di circa una tonnellata, percorrere gli ultimi metri in caduta libera sarebbe stato fatale. Così, la fase finale della sua discesa fu frenata da una specie di gru spaziale (sky crane) dotata di retrorazzi, che posò delicatamente Curiosity sulla superficie di Marte e, dopo aver sganciato il rover, si allontanò in modo da cadere al suolo a distanza di sicurezza.

Il caso di InSight è ancora differente. I progettisti della missione hanno incorporato i retrorazzi nel corpo stesso del lander, che pertanto è atterrato su Marte con i propri mezzi, depositandosi dolcemente al suolo senza danni.

Rappresentazione artistica dei metri finali della discesa di InSight su Marte, frenata dall’azione di retrorazzi installati sullo scafo del lander [NASA/JPL-Caltech]

Considerando quanto sia difficile far atterrare in automatico una sonda sulla superficie di Marte, è sbalorditivo pensare che le tecnologie necessarie per una simile impresa erano già disponibili oltre quarant’anni fa, in un’epoca in cui la potenza di elaborazione dei computer era di gran lunga inferiore a quella odierna. Chi ha superato i cinquanta, ricorderà molto probabilmente il clamore che suscitò nell’estate del 1976 il duplice atterraggio dei Viking 1 e 2 su Marte. I due lander della NASA, usando una procedura di discesa molto simile a quella di InSight, si posarono delicatamente al suolo rispettivamente il 20 luglio e il 3 settembre 1976, dando inizio a una delle imprese scientifiche più straordinarie del secolo scorso.

Ma è forse ancora più sorprendente sapere che i due Viking non furono i primi manufatti umani ad atterrare con successo sul Pianeta Rosso. Il primo lander in assoluto a compiere un atterraggio morbido su Marte fu Mars 3, una sonda sovietica che il 2 dicembre 1971, ben cinque anni prima dei Viking, si posò nella zona nordoccidentale del Cratere Ptolomaeus, nell’emisfero meridionale di Marte. Per motivi che restano ignoti, Mars 3 trasmise dati dopo l’atterraggio per soli 15 secondi scarsi e poi più nulla. Resta comunque il primo lander ad aver superato con successo l’ordalia della discesa autonoma su Marte. La sua storia merita di essere raccontata per intero, ma sarà argomento per il prossimo articolo.

Il lander Viking [Lockheed Martin]

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Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.