Rappresentazione artistica di una pioggia di raggi cosmici

L’istruttiva storia dei pianeti che non erano pianeti ma raggi cosmici (8/10)

Finalmente si scopre l’errore!

Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia
6 min readJan 10, 2016

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Gli studi appena citati, insieme ad alcuni altri pubblicati nello stesso periodo, chiamavano direttamente in causa Sahu e gli altri autori della scoperta delle sei presunte microlenti di origine planetaria.

Ma a questo punto succede qualcosa che va ad onore di Kailash Sahu e dei suoi sei coautori, qualcosa che distingue nettamente il metodo della scienza da quello di altre forme di sapere umano: una chiara, inequivocabile e argomentata ammissione di errore.

All’inizio del 2002 viene infatti pubblicato su The Astrophysical Journal Letters uno studio con lo stesso Sahu come primo autore, in cui si spiega che, da un successivo riesame dei dati, era emerso che quei sei eventi non erano stati causati da microlenti gravitazionali. Si trattava invece di artefatti prodotti da raggi cosmici. Non c’era stato, insomma, alcun picco di luminosità, né breve né lungo, che avesse interessato stelle in M22 o nel nucleo galattico, al di fuori dell’unico evento chiaramente registrato, durato 17,6 giorni, del quale abbiamo ampiamente discusso in precedenza.

Ma com’è possibile, allora, che Sahu e i suoi collaboratori fossero caduti in un simile errore? Nell’articolo pubblicato su Nature, avevano infatti esplicitamente escluso i raggi cosmici come possibile causa dei sei presunti eventi, inducendo così non solo loro stessi, ma anche gli autori di diversi studi successivi a impelagarsi in lunghe analisi e controanalisi sulla possibile esistenza di pianeti solitari, in grado di generare microlenti gravitazionali.

Era successo, in realtà, che alcuni raggi cosmici avevano generato segnali spuri nel CCD della camera WFPC2 di Hubble, ma lo avevano fatto in un modo così subdolo, da rendere l’alterazione delle immagini colpite difficilissima da individuare. Cerchiamo di capirne il motivo.

Proprio per consentire di distinguere in un’osservazione di Hubble gli oggetti astronomici dai possibili artefatti, è pratica comune acquisire nel corso della stessa orbita due o anche più immagini di uno stesso campo, identiche in tutto tranne, appunto, che per gli eventuali difetti causati da raggi cosmici. Queste immagini doppie sono chiamate “cosmic ray split” o, più brevemente, CR-split.

È proprio dall’esame visuale di queste coppie di immagini presumibilmente identiche che il gruppo di Sahu aveva ricavato la convinzione che ci fossero stati sei brevi picchi di luminosità in altrettante stelle presenti nei campi osservati. Anche ad un’ispezione approfondita non apparivano infatti differenze apprezzabili tra le coppie di immagini CR-split.

Ma, dopo la pubblicazione dello studio del 2001, altri due astronomi, Jay Anderson e Ivan King, si misero ad analizzare quelle immagini, nel corso di una loro ricerca sul moto proprio delle stelle contenute nei campi di M22 osservati da Hubble.

I due notarono qualcosa di strano:

In ciascuna coppia di immagini CR-split, lo schema di luminosità dei pixel intorno alle stelle illuminate differiva tra le due immagini molto più di quanto differissero i pixel intorno ad altre stelle di magnitudine comparabile, che fornivano un utile standard di riferimento.

Contattarono dunque Kailesh Sahu, principal investigator del programma di ricerca che aveva condotto al famoso articolo del 2001. I tre, in collaborazione anche con gli altri sei autori dello studio originale, avviarono così un’analisi approfondita delle coppie di immagini CR-split. Stavolta non si fermarono alla sola ispezione visuale, ma crearono matrici di dati, in cui i valori di luminosità dei cinque pixel centrati sulle posizioni delle presunte microlenti erano messi a confronto con i valori di altrettanti pixel di aree contenenti stelle di magnitudine comparabile. Il risultato di questo confronto, relativamente all’evento D (il quarto della serie), è riportato nella tabella seguente.

Credit: Kailash C. Sahu et al 2002 ApJ 565 L21, http://dx.doi.org/10.1086/339137

I dati nella colonna “Difference” permettono di rilevare l’artefatto. In particolare, i valori evidenziati dal rettangolo rosso sono nettamente fuori scala. A tal proposito, spiegano gli autori:

Le matrici etichettate “Difference” sono altamente rivelatrici. La stella di confronto ha differenze molto piccole, ma la stella illuminata mostra grandi differenze tra le due immagini. Si tratta di qualcosa che non potrebbe accadere per immagini reali di stelle.

Insomma, le sei stelle “illuminate” avevano valori di luminosità molto diversi nelle due immagini CR-split, mentre le stelle di confronto avevano — come era da attendersi — valori molto simili. Ciò provava al di là di ogni dubbio che i sei “eventi” non fotografavano reali aumenti di luminosità di una stella, ma erano invece artefatti. In altre parole non c’era stato alcun evento di microlente gravitazionale creato da oggetti di massa planetaria né in M22 né fuori.

Ma c’è anche un’altra prova a sostegno di quest’interpretazione, alla quale forse si sarebbe dovuto dare più peso all’epoca dello studio apparso su Nature:

Un argomento aggiuntivo contro le microlenti quali causa degli apparenti aumenti di luminosità è il fatto che, per l’evento B e per l’evento F, esiste una seconda coppia di esposizioni presa solo 9 minuti dopo, la quale non mostra alcuna illuminazione.

Scartate infine le microlenti gravitazionali di origine planetaria, resta ancora da chiarire una cosa: come è possibile che sei coppie di immagini CR-split, generate espressamente per consentire di identificare le alterazioni create dai raggi cosmici, riuscirono invece a nascondere così bene gli artefatti in esse presenti, tanto da indurre in errore un team di astronomi esperti?

La ragione di ciò, secondo la spiegazione fornita dagli autori dello studio chiarificatore, sta nel modo particolarmente strano in cui le immagini erano state alterate: dei raggi cosmici puntiformi, cioè con un effetto molto ridotto in termini di pixel alterati, avevano colpito esattamente nello stesso punto entrambe le immagini CR-split, in ben sei casi diversi, generando un effetto visivamente indistinguibile da un lieve aumento della luce stellare.

Sorge a questo punto il problema se, da un punto di vista statistico, sia plausibile che due immagini diverse siano colpite nello stesso punto da raggi cosmici, e che la cosa non accada una volta soltanto, ma sei volte. Secondo Sahu e colleghi, sì, la cosa è statisticamente plausibile:

Sulle prime potrebbe sembrare estremamente improbabile che, in una coppia CR-split, entrambe le immagini della stessa stella siano influenzate da raggi cosmici in modo simile. Tuttavia, abbiamo riscontrato attraverso l’esame diretto che questo set di immagini presenta in circa 1 pixel ogni 2000 un impatto da raggi cosmici più o meno della forza osservata (20–75 DN). Poiché l’impatto di un raggio cosmico puntiforme in uno qualsiasi di una mezza dozzina di pixel intorno al centro di una stella produrrà l’effetto che stiamo discutendo, entrambe le immagini di una coppia saranno colpite circa una volta su 100.000. Se consideriamo che vi furono dozzine di osservazioni, con 30.000 stelle (secondo una stima conservativa) in ognuna, ciò porta a un totale di oltre un milione di coppie di immagini stellari. Per conseguenza, è lecito attendersi intorno a 10 doppi impatti, sicché 6, dopo tutto, non è un numero sorprendente.

Ma, in fondo, non è poi così importante che gli artefatti scoperti in quelle immagini siano giustificati statisticamente. La colpa potrebbe anche non essere stati dei raggi cosmici. Quel che è invece davvero importante è che le differenze nei valori dei pixel delle coppie di immagini CR-split indicano che quei sei “brevi eventi” non furono microlenti gravitazionali.

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Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.