[Stefan Keller / Pixabay]

Viaggio interstellare: un precursore a basso costo

Come sfruttare la radiazione solare per spingere sonde ultra-leggere fino al 2,3% della velocità della luce

Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia
17 min readAug 9, 2020

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A partire dalla scoperta di Proxima b nel 2016, sono stati individuati nel raggio di pochi anni luce dalla Terra diversi esopianeti dalle caratteristiche molto interessanti. Ciò ha reso più sentita e urgente la necessità di mettere a punto qualche sistema di propulsione tarato per le distanze interstellari, che consenta a delle sonde senza equipaggio di raggiungere le stelle più vicine in tempi ragionevoli, cioè nell’arco di decenni piuttosto che di secoli o millenni.

Raggiungere le stelle: un’impresa difficilissima

Purtroppo l’impresa non è per nulla facile. Le uniche missioni spaziali che hanno sviluppato una velocità di fuga sufficiente a sfuggire all’attrazione gravitazionale del Sole (Pioneer 10 e 11, Voyager 1 e 2 e New Horizons), sono tutte basate sulla propulsione chimica, cioè sull’uso di razzi che bruciano rapidamente enormi masse di propellente per impartire a una piccola sonda la velocità necessaria a sfuggire alla gravità terrestre e poi anche a quella solare.

Ma la propulsione chimica, nonostante l’aiuto fornito da Giove e da altri pianeti usati come fionde gravitazionali per aumentare la velocità finale, è un sistema impraticabile per una missione diretta verso altre stelle. Il Voyager 1, il manufatto umano giunto finora più lontano, si allontana dal Sole di circa 17 km/s, pari approssimativamente a 3,6 unità astronomiche all’anno. Proxima Centauri, la stella più vicina, dista tuttavia 4,24 anni luce da noi, cioè ben 268.390 unità astronomiche [1]. Ciò vuol dire che Voyager 1 impiegherà qualcosa come 75.000 anni per coprire una distanza equivalente a quella che ci separa da Proxima Centauri e dal suo promettente esopianeta Proxima b [2]. È un tempo talmente lungo da far dubitare che esista ancora la specie umana, quando Voyager 1 avrà finalmente coperto una simile distanza.

Serve evidentemente un sistema di propulsione differente. Negli anni ’70 del secolo scorso, il Progetto Daedalus sviluppò l’idea di una gigantesca astronave interstellare, da costruirsi in orbita terrestre, sospinta da un fantascientifico motore a fusione nucleare alimentato da una mistura di deuterio ed elio-3. L’astronave avrebbe dovuto raggiungere, teoricamente, una velocità finale pari a 0,12 c (il 12% della velocità della luce), sufficiente per arrivare alla stella di Barnard, lontana 6 anni luce dalla Terra, in 46 anni. Purtroppo, tralasciando i costi immensi, le soluzioni tecnologiche necessarie a realizzare l’impresa erano — e sono rimaste — al di là delle nostre possibilità.

In anni recenti, l’idea del viaggio interstellare è tornata nuovamente alla ribalta grazie all’iniziativa Breakthrough Starshot, lanciata nel 2015, che ha proposto un sistema molto meno ambizioso, ma tecnologicamente più accessibile, per raggiungere le stelle più vicine: il lancio di una flotta di microsonde trasportate da vele solari del peso di circa 1 grammo ognuna, sospinte dalla pressione di radiazione impartita da un enorme impianto laser da 100 GW, da costruirsi sulla Terra. Vele solari così leggere, spinte da un laser così potente, potrebbero sviluppare una velocità finale prossima a 0,15 c, sufficiente per raggiungere Proxima Centauri in una ventina d’anni.

Una rappresentazione artistica dell’impianto laser da 100 GW che dovrebbe essere costruito per imprimere a delle vele solari, in orbita al di fuori dell’atmosfera terrestre, la spinta necessaria a raggiungere una velocità di circa 0,15 c [Breakthrough Starshot]

Purtroppo anche questo progetto si è ben presto arenato di fronte alle notevoli sfide tecnologiche che la sua realizzazione comporta. Il primo e più serio ostacolo riguarda la costruzione di un impianto laser in grado di erogare una potenza di 100 GW per diversi minuti di seguito. Ammesso che una simile centrale venga un giorno costruita, bisognerebbe risolvere il problema di come garantire l’assoluta stabilità del fascio di luce laser, mantenendolo perfettamente collimato anche a dispetto delle perturbazioni atmosferiche, fino a raggiungere le vele solari, fluttuanti nello spazio al di fuori dell’atmosfera terrestre.

Le vele solari rappresentano un’altra sfida tecnologica. Dovranno essere allo stesso tempo leggerissime e resistentissime: investite dalla piena potenza di un laser da 100 GW, dovranno, infatti, sopportare, senza fondersi né rompersi, temperature di 1000 K o più e accelerazioni estreme nell’ordine delle decine di migliaia di g [3].

Di fondamentale importanza, infine, è la questione del puntamento. La massa ridottissima impedisce che le vele solari possano essere dotate di sistemi per effettuare correzioni di rotta durante il tragitto. È indispensabile, quindi, che l’accelerazione impressa al lancio le sospinga fin da subito nella direzione corretta, garantendo che, dopo venti anni di viaggio nel vuoto interstellare, esse incrocino Proxima Centauri alla distanza giusta per acquisire immagini e altri dati scientifici utili su Proxima b. Un errore di puntamento di poche decine di millesimi di secondo d’arco alla partenza si tradurrebbe in un errore di posizione, all’arrivo a destinazione, di diversi milioni di chilometri, sufficiente a rendere impossibile qualsiasi osservazione di Proxima b.

La vela solare del satellite dimostrativo LightSail parzialmente dispiegata [The Planetary Society]

La radiazione solare come propulsore

Una parte di questi problemi può essere risolta eliminando dall’equazione uno degli elementi più problematici: l’impianto laser da 100 GW. Uno studio in attesa di pubblicazione su Astronomy & Astrophysics, disponibile per il momento in pre-stampa, presenta appunto un’alternativa all’uso del laser. I quattro autori — René Heller, Guillem Anglada-Escudé, Michael Hippke e Pierre Kervella — delineano le caratteristiche essenziali di un sistema per il viaggio interstellare o, per essere più precisi, di un suo precursore a basso costo, proponendo di utilizzare come fonte di propulsione, in luogo della centrale laser da costruire sulla Terra, la radiazione solare, già pronta per l’uso e disponibile in quantità illimitata.

Una simile soluzione ha ovviamente dei pro e dei contro. Se, da un lato, elimina la necessità di costruire una gigantesca e dispendiosa centrale laser, dall’altro vincola la forza propulsiva disponibile per accelerare le potenziali sonde interstellari alla distanza dal Sole alla quale viene effettuato il lancio. Più vicino al Sole esse verranno esposte alla radiazione solare, maggiore sarà l’accelerazione che riceveranno dalla pressione esercitata dalla luce del Sole.

Se il lancio avviene nello spazio interplanetario, lontano dalla Terra e dagli altri pianeti del Sistema Solare, i calcoli che determinano l’efficacia della spinta impartita dalla radiazione solare devono tenere conto essenzialmente di due soli fattori: la forza esercitata dalla pressione di radiazione e la gravità solare. Il Sole, infatti, è allo stesso tempo l’origine della forza propulsiva e il freno che trattiene legate a sé le sonde con la sua potente gravità. Affinché un oggetto lasciato libero nello spazio interplanetario possa sfuggire alla gravità solare, è necessario che la forza totale esercitata dalla radiazione solare sulla superficie dell’oggetto ad essa esposta sia maggiore dell’attrazione esercitata dalla gravità solare, alla distanza dal Sole alla quale l’oggetto si trova.

Una graffetta lunga poco più di 3 cm pesa circa 0,77 grammi. La densità superficiale di un oggetto, che, esposto alla radiazione solare, sia in grado di raggiungere la velocità necessaria per sfuggire alla gravità del Sole, non deve superare 0,77 grammi per metro quadro

L’entità della forza esercitata dalla pressione di radiazione al netto della spinta attrattiva della gravità solare dipende da diversi fattori, tra i quali la massa e la luminosità del Sole nonché la capacità di assorbire/riflettere la luce solare del materiale di cui è composta la superficie esposta alla radiazione. Si ottiene alla fine un valore che è la densità superficiale massima che un oggetto esposto alla radiazione solare può avere per vincere l’attrazione gravitazionale del Sole e fuggire verso lo spazio interstellare. I calcoli presentati da Heller e colleghi indicano che, nel caso del Sole [4], la densità superficiale corrispondente è pari a 7,6946 × 10⁻⁴ kg/m². È meno di un grammo per metro quadro! Giusto per avere un termine di paragone, 0,77 grammi è all’incirca il peso di una graffetta.

Sfere cave di aerografite invece di vele solari

Dato un simile valore di densità superficiale, l’unica possibilità di sfruttare la radiazione solare per inviare una sonda nello spazio interstellare è quella di impiegare per la sua costruzione materiali ultra-leggeri. Gli autori dello studio hanno individuato come miglior candidato l’aerografite, una schiuma sintetica a base di carbonio che ha una densità incredibilmente bassa, pari a 0,18 kg/m³. Per capire quanto sia leggero questo materiale, è utile confrontarlo con qualcosa di noto. Un comune foglio di alluminio, materiale che consideriamo leggerissimo e pratico, ha una densità di 2.700 kg/m³. Basta una banale divisione per rendersi conto che l’aerografite è 15.000 volte più leggera dell’alluminio!

Un dettaglio ripreso con un microscopio elettronico a scansione, che mostra la struttura submillimetrica dell’aerografite. Con una densità di 0,2 milligrammi per centimetro cubo, l’aerografite è il materiale più leggero attualmente esistente. La sua struttura è composta da una fitta reti di microtubi di carbonio [TUHH]

Affinché un cubo di alluminio possa vincere la gravità solare sospinto soltanto dalla pressione di radiazione del Sole, dovrebbe avere i lati non più lunghi di 5,13 × 10⁻⁷ m, cioè appena mezzo micron. È circa la metà dello spessore di un globulo rosso del sangue umano! Se, invece, il cubo fosse composto di aerografite, i suoi lati potrebbero essere lunghi fino a 4,27 millimetri. Certo, meno di mezzo centimetro non è granché, ma, se non altro, sarebbe visibile a occhio nudo!

Ovviamente si tratta di calcoli puramente illustrativi. Non avrebbe senso, infatti, inviare un oggetto così piccolo verso un’altra stella. Sfere e cubi pieni sono lungi dall’essere la soluzione migliore per sfruttare la pressione di radiazione del Sole. Heller e colleghi propongono invece di usare delle sfere cave di aerografite. L’elemento che fa la differenza sarebbe in questo caso lo spessore del guscio sferico che racchiude la cavità piuttosto che il raggio della sfera stessa: minore è lo spessore del guscio, minore è la massa totale della sfera; maggiore sarà, di conseguenza, l’accelerazione che la radiazione solare sarà in grado di impartire all’oggetto.

Ingrandimenti progressivi ottenuti con un microscopio elettronico a scansione, che mostrano con livello di dettaglio sempre maggiore la struttura dei nanotubi di carbonio di cui è composta l’aerografite [J. Mater. Chem. A, 2016,4, 16723–16730]

È qui che i numeri si fanno piuttosto interessanti. Lo studio prende in considerazione due possibilità. La prima prevede il rilascio di sfere cave di aerografite a una distanza dal Sole di appena 0,04 au (unità astronomiche), pari alla distanza minima di 6,86 milioni di km che raggiungerà la sonda solare Parker nei prossimi anni. Il secondo caso prevede, invece, il rilascio delle medesime sfere a una distanza dal Sole di 1 au, pari al raggio dell’orbita terrestre, ma nello spazio interplanetario, sufficientemente lontano dalla Terra da rendere trascurabile l’influenza della sua gravità.

Una sfera cava di aerografite con guscio dello spessore di 500 µm, cioè di mezzo millimetro, rilasciata a 0,04 au dal Sole, impiegherebbe solo 12 giorni per raggiungere l’orbita di Marte e 304 giorni per raggiungere l’orbita di Plutone. Ma, se il guscio fosse spesso solo 1 µm, cioè un millesimo di millimetro, la stessa sfera impiegherebbe appena 10 ore per arrivare all’orbita di Marte e 9,9 giorni per arrivare all’orbita di Plutone. Se paragoniamo questi tempi con i circa 9 mesi di viaggio, che servono a raggiungere Marte dall’orbita terrestre con sonde lanciate nello spazio da razzi a propulsione chimica, o con i 9 anni impiegati da New Horizons per raggiungere Plutone, il guadagno temporale appare notevolissimo.

Il grafico mostra quanto tempo impiegano delle sfere cave di aerografite ad allontanarsi dal Sole, in base alla distanza a cui vengono rilasciate e allo spessore del guscio. Legenda: la lettera greca ε indica lo spessore del guscio (1 µm o 500 µm). M = Marte, J = Giove, S = Saturno, U = Urano, N = Nettuno, P = Plutone. Sull’asse delle ascisse è indicato il tempo in giorni, sull’asse delle ordinate la distanza dal Sole in unità astronomiche. Entrambe le scale sono logaritmiche [R. Heller et al., Low-cost precursor of an interstellar mission]

Se le sfere di aerografite vengono rilasciate nello spazio interplanetario a 1 au dal Sole, i tempi di viaggio aumentano, rimanendo però sempre molto minori di quelli necessari a coprire le medesime distanze usando la propulsione chimica. Nel caso di una sfera di aerografite con guscio spesso 500 µm, l’orbita di Marte verrebbe raggiunta in 60 giorni e quella di Plutone in 4,2 anni. Se, invece, lo spessore del guscio fosse di 1 µm, per raggiungere l’orbita di Marte basterebbero 2 giorni soltanto, mentre occorrerebbero 52 giorni per arrivare all’orbita di Plutone.

La velocità con cui le sfere di aerografite si allontanerebbero dal Sole, calcolata in funzione dello spessore del guscio e della distanza dal Sole alla quale vengono rilasciate. Le curve continue si riferiscono a sfere con gusci dello spessore di 500 µm, le curve tratteggiate a sfere con gusci spessi 1 µm. Le curve arancione sono relative a sfere rilasciate a 0,04 au dal Sole, le curve nere a sfere rilasciate nello spazio interplanetario a 1 au dal Sole. Sia il tempo (espresso in giorni) che la velocità sono riportati con scale logaritmiche. Com’è facile notare, la combinazione che garantisce la maggiore velocità finale e il più rapido raggiungimento della stessa è quella di sfere con guscio da 1 µm rilasciate a 0,04 au dal Sole [R. Heller et al., Low-cost precursor of an interstellar mission]

Quanto tempo per raggiungere Proxima Centauri?

Le velocità finali, e il tempo necessario a raggiungerle, dipendono dalla distanza dal Sole alla quale le sfere cave vengono rilasciate e dallo spessore dei loro gusci. Una sfera con guscio da 1 µm immessa nello spazio a 0,04 au dal Sole subirebbe un’accelerazione immediata pari a 400 g, grazie alla quale raggiungerebbe l’1% della velocità della luce (circa 3.000 km/s) in poco meno di un quarto d’ora. In circa 20 giorni raggiungerebbe poi la velocità finale, pari al 2,3% della velocità della luce (6.657 km/s). A una simile velocità, il tempo necessario per raggiungere Proxima Centauri sarebbe di 191 anni.

Ma, se lo spessore del guscio fosse di 500 µm, anche rilasciando le sfere ad appena 0,04 au dal Sole, la velocità finale sarebbe di “soli” 211 km/s. Servirebbero in tal caso ben 6.041 anni per percorrere i 4,24 anni luce che ci separano da Proxima Centauri.

In generale, lo spessore del guscio conta più della distanza dal Sole a cui vengono rilasciate le sfere. Lo dimostra un altro dei casi esemplificati nello studio. Rilasciando nello spazio interplanetario a 1 au dal Sole sfere con guscio spesso 1 µm, si otterrebbe una velocità finale di 1.331 km/s, che ridurrebbe il tempo di viaggio fino a Proxima Centauri a 956 anni, cioè meno di un sesto del caso precedente.

Com’è facile immaginare, la combinazione meno favorevole è quella di sfere con guscio spesso 500 µm rilasciate a 1 au dal Sole. In tal caso, la velocità finale sarebbe di 42 km/s, sufficiente per sfuggire alla gravità solare, ma il tempo di viaggio fino a Proxima si allungherebbe a 30.204 anni.

I tempi per raggiungere Proxima Centauri espressi in anni (sull’asse delle ordinate, con scala logaritmica), calcolati in base allo spessore del guscio di aerografite e alla distanza dal Sole (in au, sull’asse delle ascisse) alla quale le sfere vengono rilasciate [R. Heller et al., Low-cost precursor of an interstellar mission]

Il lancio dall’orbita terrestre

In linea di principio, delle sfere cave di aerografite possono raggiungere la velocità di fuga sufficiente per uscire dal Sistema Solare anche se lanciate dall’orbita terrestre. In tal caso, però, le cose si complicano non poco, perché bisogna tener conto dell’effetto frenante della gravità terrestre nonché dell’ombra generata dalla Terra, che interromperebbe il flusso della radiazione solare per alcuni minuti durante ogni orbita, con effetti non facilmente prevedibili sul mantenimento della rotta.

Il caso peggiore sarebbe un lancio effettuato dall’altezza orbitale della Stazione Spaziale Internazionale (circa 400 km), nel quale la forza della radiazione solare dovrebbe contrastare non solo la gravità terrestre, ma anche l’effetto frenante dell’alta atmosfera e le forze di Lorentz indotte dal campo magnetico terrestre. Una situazione molto più favorevole si otterrebbe, invece, con un lancio eseguito all’altezza dei satelliti geostazionari (circa 36.000 km). In quel caso, le sfere potrebbero raggiungere lo spazio interstellare, ma al costo di una densità superficiale del materiale ancora minore di quella prevista nel caso di lancio interplanetario: non più di 1,7 × 10⁻⁴ kg/m² invece di 7,7 × 10⁻⁴ kg/m².

Leggerissime ma potenti

Finora abbiamo considerato gli effetti della radiazione solare su sfere cave di aerografite pure e semplici, prive cioè di qualsiasi strumento scientifico o di comunicazione. Una missione spaziale così concepita avrebbe ugualmente senso come test generale della fattibilità dell’idea. L’aerografite è nera e opaca, per cui le sfere non sarebbero osservabili con i telescopi ottici. Tuttavia emetterebbero calore, cioè radiazione infrarossa. Nel caso di sfere con raggio di 1 metro, il James Webb Space Telescope (JWST), il cui lancio è previsto per ottobre 2021, sarebbe in grado di osservare la debole luce infrarossa da esse emessa fino a 2 au di distanza dal Sole, cioè più o meno fino a metà strada tra Marte e il pianeta nano Cerere. Se, poi, il raggio delle sfere fosse di 10 metri, allora il JWST potrebbe catturarne la radiazione infrarossa fino a 3 au dal Sole. Sarebbe in tal modo possibile verificare, studiando la progressiva diminuzione della magnitudine apparente delle sfere e la loro posizione nel cielo, a che velocità e in che direzione si stanno allontanando, sospinte dalla radiazione solare.

Ma i dati ottenuti sarebbero molto più precisi, se le sfere fossero dotate di un sia pur rudimentale sistema di comunicazione con la Terra. È qui che diventano evidenti i problemi generati dalla necessità di mantenere le sonde ultra-leggere, affinché la pressione di radiazione solare possa imprimere loro la necessaria velocità di fuga. Tuttavia, le cose sono un po’ meno drammatiche di come sembrano a prima vista. Una sfera cava di aerografite di 1 metro di raggio e spessore del guscio di 1 µm, avrebbe una massa di appena 2,3 milligrammi. Se lanciata nello spazio interplanetario a 1 au dal Sole, potrebbe trasportare un carico fino a 2,4 grammi — cioè oltre mille volte la massa del guscio — , mantenendo una densità superficiale al di sotto del limite utile per raggiungere lo spazio interstellare. La velocità finale sarebbe di “soli” 51 km/s, pari ad appena 1,7 decimillesimi della velocità della luce: non abbastanza per raggiungere in tempi accettabili Proxima Centauri, ma sarebbe pur sempre una velocità tre volte maggiore di quella con cui Voyager 1 si sta allontanando dal Sole.

Se, poi, la sfera avesse un raggio di 5 metri, a parità di spessore del guscio (1µm) avrebbe una massa di 57 milligrammi e potrebbe trasportare un carico fino a 60 grammi. I calcoli indicano che raggiungerebbe in tal caso una velocità finale di 93 km/s, pari allo 0,031% di c. È una velocità anche questa troppo bassa per compiere un viaggio interstellare in tempi umanamente ragionevoli, ma è sufficiente per coprire la distanza fino all’orbita di Plutone in appena 2,1 anni.

Il grafico mette in relazione il raggio di una sfera cava di aerografite con guscio spesso 1 µm con il carico utile che essa può trasportare senza perdere la possibilità di raggiungere lo spazio interstellare. Il limite è rappresentato dalla linea tratteggiata orizzontale, visibile presso il margine superiore del grafico, che indica la densità superficiale massima, pari a circa 0,77 grammi al metro quadro, che non deve essere superata per poter vincere la gravità solare [R. Heller et al., Low-cost precursor of an interstellar mission]

Da questi esempi teorici si ricava che sfere cave di aerografite sono in grado di trasportare un carico anche mille volte superiore alla loro massa senza perdere la possibilità di raggiungere lo spazio interstellare. Si tratta in totale di pochi grammi trasportabili, ma il dato sorprendente è il rovesciamento del rapporto rispetto alla propulsione chimica. I razzi Titan IIIE e Atlas V, che furono usati per lanciare le sonde Voyager 1 e New Horizons, avevano entrambi una massa a pieno carico circa mille volte maggiore di quella dei due velivoli spaziali da essi trasportati.

Sfruttando il rapporto estremamente favorevole tra massa della struttura e massa del carico, sarebbe possibile dotare una sfera di aerografite da 1 metro di raggio e guscio da 1µm di un rudimentale ma efficace sistema di comunicazione con la Terra. Si potrebbero usare allo scopo componenti miniaturizzati già disponibili sul mercato. Esistono già, infatti, batterie agli ioni di litio e supercondensatori ultra-leggeri, intorno al grammo di peso, in grado di garantire brevi emissioni di energia di circa 32 W, sufficienti per alimentare un laser in miniatura, in grado di comunicare il tempo di bordo e la posizione della sonda.

Una flotta di sfere di aerografite dotate di un sistema di comunicazione di questo tipo sarebbe in grado di raggiungere in pochi anni di viaggio la periferia esterna del Sistema Solare. Misurando l’effetto Doppler relativistico sugli impulsi laser inviati dalle sonde, sarebbe quindi possibile verificare se esistono in quella regione perturbazioni gravitazionali tali da confermare l’esistenza dell’ipotetico Pianeta Nove, congetturata alcuni anni fa per spiegare le orbite particolari di alcuni oggetti transnettuniani.

Prezzi popolari

L’aerografite, scelta da Heller e colleghi come miglior candidato per la costruzione di sonde interstellari spinte dalla radiazione solare, è un materiale dalle caratteristiche davvero notevoli, come si può leggere nel paragrafo 5.4.1 dello studio in via di pubblicazione (la traduzione è mia):

L’aerografite si distingue come potenziale materiale per una vela solare interstellare in molti modi. Oltre ad essere ultraleggero, può anche essere fabbricato in un’ampia varietà di forme macroscopiche (su scala centimetrica). È completamente opaco da un punto di vista ottico […] e superidrofobico. Recupera completamente la forma dopo una compressione del 95%, mostra un’eccezionale robustezza meccanica, rigidità specifica e resistenza alla trazione nonché stabilità alle alte temperature e resistenza chimica. Tutte queste proprietà combinate lo rendono un materiale ideale per mantenere l’integrità strutturale in presenza delle forti vibrazioni previste durante il lancio di un razzo nello spazio e per sopravvivere alle elevate accelerazioni che la vela solare dovrà sopportare al momento dell’esposizione al vento solare.

Uni dei pregi dell’aerografite è che è totalmente idrorepellente [TUHH]

Al di là di tutti questi pregi, l’aerografite è anche piuttosto economica. Gli autori dello studio calcolano che sfere cave con raggio nell’ordine del metro e spessore del guscio nell’ordine dei micrometri potrebbero essere prodotte in grande quantità al costo di 1.000 dollari USA, o anche meno, al pezzo.

Il costo dello sviluppo di un prototipo è calcolato in 1 milione di dollari. Resta da aggiungere il costo del lancio, per il quale occorrerà ricorrere a un comune razzo a propulsione chimica. Dato il loro peso irrisorio, le sfere potrebbero essere trasportate nello spazio come carico accessorio in una missione diretta, per esempio, a piazzare in orbita un satellite geostazionario. In tal caso, il costo del lancio sarebbe quasi irrisorio. Nella peggiore delle ipotesi, le sfere potrebbero essere immesse nello spazio interplanetario con un lancio dedicato, pagando il prezzo di mercato, che, per il lancio di un razzo Falcon 9 di SpaceX, è di 62 milioni di dollari.

In ogni caso, i costi di sviluppo, produzione e lancio di una missione di test, basata su una piccola flotta di sfere vuote di aerografite, sono tutt’altro che proibitivi.

Alcune considerazioni finali

L’idea di usare sfere cave di aerografite per missioni interplanetarie all’interno del Sistema Solare merita senz’altro di essere approfondita e sviluppata. I costi di produzione e sviluppo sono molto bassi rispetto ad altri tipi di missione spaziale e questo è già di per sé un notevole incentivo. Inoltre, rispetto alla propulsione chimica, la notevole riduzione dei tempi di viaggio fino alla periferia del Sistema Solare rende una missione basata sulla propulsione solare estremamente interessante, per il ritorno in termini di conoscenza scientifica che potrebbe produrre. Inoltre, il progresso nella miniaturizzazione dei componenti elettronici avvenuto di recente è tale da rendere plausibile che le sfere di aerografite possano essere dotate, nel giro di pochi anni, sia di strumenti di comunicazione con la Terra sia di strumenti scientifici essenziali, come per esempio fotocamere o rilevatori di particelle.

Ciò che sembra molto meno fattibile, purtroppo, è il viaggio interstellare. Nelle simulazioni teoriche proposte da Heller e colleghi, la soluzione che garantisce la maggiore velocità finale è l’immissione nello spazio, a sole 0,04 au dal Sole, di sfere cave con guscio spesso 1 µm. Ma, anche in questo caso, il tempo necessario per raggiungere Proxima Centauri sarebbe di ben 191 anni. È pochissimo in termini cosmologici, ma è un’eternità dal punto di vista umano, soprattutto se rapportiamo quel tempo alla velocità con cui il mondo contemporaneo cambia, dal punto di vista tecnologico, politico, sociale ed economico. Giusto per dare un termine di paragone, nel 1829, cioè 191 anni fa, le macchine a vapore esistevano solo da qualche decennio. L’elettricità sarebbe arrivata nelle case solo parecchi decenni dopo, per non parlare di Internet, il cui precursore (ARPANET) risale al 1969, o degli smartphone, che, con le funzioni e le capacità che oggi riteniamo indispensabili, cominciarono a diffondersi solo dopo il 2000.

Ma non è solo una questione di velocità e di tempi. La propulsione solare è fortemente penalizzata dal ridottissimo margine di massa, nell’ordine di pochi grammi, che può essere utilizzato per implementare strumenti scientifici e di comunicazione in sonde che devono rimanere ultra-leggere. Per avere margini di massa maggiori per il carico scientifico, bisognerebbe lanciare nello spazio vele solari enormi, in grado di raccogliere, grazie a superfici nell’ordine dei chilometri quadrati, una sufficiente spinta dalla radiazione solare. Ma ciò porterebbe a numerosi altri problemi di non facile soluzione, come, per esempio, quello legato alla necessità di ripiegare innumerevoli volte una vela di dimensioni chilometriche, affinché possa essere accomodata nel vano di carico di un razzo, per poi dispiegarla completamente nello spazio, mantenendo intatte le sue caratteristiche strutturali.

Temo che l’umanità riuscirà a coronare il sogno del viaggio interstellare solo fra molti decenni, quando saranno (forse) finalmente disponibili sistemi di propulsione alternativi sia alla propulsione chimica sia a quella fotonica. Forse un giorno sarà possibile usare davvero un motore a fusione nucleare, come quello ipotizzato dal progetto Daedalus, per spingere fino a una frazione significativa della velocità della luce un’ipotetica astronave interstellare, diretta verso Proxima o un’altra stella vicina. Nel frattempo, possiamo soltanto sperare in qualche nuovo, inatteso progresso tecnologico e rammaricarci di non abitare nel centro dell’ammasso globulare Omega Centauri, nel qual caso il viaggio interstellare sarebbe stato di certo un problema risolvibile con maggiore facilità.

L’ammasso globulare Omega Centauri (NGC 5139) ripreso con il telescopio da 2,2 metri dell’ESO in Cile. In un volume sferico di circa 100 anni luce di diametro, Omega Centauri racchiude qualcosa come dieci milioni di stelle [ESO]

Note

[1] L’equivalente di 40.150 miliardi di km.

[2] Con una massa minima poco superiore a quella della Terra e un’irradiazione pari al 64% di quella che il nostro pianeta riceve dal Sole, Proxima b potrebbe avere bacini di acqua liquida e, forse, condizioni favorevoli per la vita. È pertanto un bersaglio estremamente interessante per la ricerca di biomarcatori, considerando anche che è in assoluto l’esopianeta più vicino alla Terra.

[3] 1 g è l’accelerazione di gravità al livello della superficie terrestre. Equivale a circa 9,8 m/s².

[4] Questo valore cambia per ogni stella, in ragione della sua massa e della sua luminosità.

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Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.