Un particolare topo di biblioteca

Michela Nocita
#iorestoacasa #StayAtHome
5 min readMay 13, 2020

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È una fredda giornata di un rigido inverno del 778, una di quelle in cui la pioggia batte incessante e il cielo si ammanta di un grigio perla con ricami neri di nubi che si intrecciano fitti con il bianco fumo dei comignoli. Il paesaggio è ricoperto da un velo plumbeo e l’aria densa si lascia fendere appena dalle guglie della biblioteca che svettano trai rami degli alti pini che la circondano.

Si muove con passo svelto l’Abate Adelungo convocato da Eginardo, fidato consigliere di re Carlo Magno, per una commissione speciale. Lungo il tragitto il nobile abate non la smette di arrovellarsi riguardo l’enigma di questa chiamata improvvisa ed inaspettata…Giunto all’Armarium scorge di spalle il consigliere del re che insaziabilmente sfoglia le pagine di alcuni manoscritti, quasi a volerne constatare l’accuratezza dei testi e la finezza delle rilegature…

E. Caro Abate, perché ancora sull’uscio della porta? Questa biblioteca è uno sfavillante tempio di luce che riflette la grandezza del nostro sovrano: mai nessuno prima aveva avuto la lungimiranza di raccogliere in un unico luogo tanta saggezza. Ma caro Abate, il sapere è come queste preziose vetrate: ciascun pezzo da solo può essere così fragile se non viene saldato dal piombo a quello successivo. Eppure quanta bellezza esprimono questi mosaici che si lasciano attraversare dalla luce, come le coscienze dal sapere, fondendosi in un’unica connessione di sfumature che vanno dal blu profondo al rosa opaco, dal verde al giallo! Semplici pezzi di vetro traslucido diventano pietre preziose nelle mani di abili artigiani. Ed è proprio per questo motivo che oggi giungo a voi”.

L’Abate che nulla prevede, man mano si lascia incantare dalle parole del consigliere ed ammira la grandezza di Dio che compie queste opere attraverso le mani dell’uomo.

A. “Vostra illustre presenza, mi consenta di portare la luce da questa stanza alla mia mente: a cosa devo l’onore della vostra gradita visita?”

E. “Ad una preghiera che mi è stato chiesto di consegnare a voi e soltanto a voi dal nostro sovrano”

A. “Le vostre parole risuonano come musica per un serpente: incantano, rapiscono, persuadono che l’uomo possa essere qualcosa di diverso da ciò che nostro Signore ha scelto per lui. Ma io sono un servo della Chiesa ed un servo della cultura e non uno schiavo del mio ego.”

E. “Voi mi fraintendete! Nulla di ciò che avete compiuto sino ad oggi celebrerà nostro Signore, come quello che farete da domani. Voi siete stato scelto dal nostro sovrano per redigere il “vangelium scriptum cum auro pictum habens tabulas eburneas”. Oltre al testo che sarà in inchiostro dorato e che conterrà i Vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni presterete attenzione alle miniature, che dovranno essere bizantine con un’influenza occidentale; dovrete incorniciare in archi e colonne le nostre sculture e i preziosi doni ricevuti dalla corte imperiale, quali cammei, monete, oreficerie e stoffe. Infine la copertina dovrà essere rilegata in avorio con in rilievo nostro Signore, gli Apostoli e la Madonna”.

Nessuno dei due però si è accorto che, durante il colloquio, tra gli architravi in legno si cela “un topolino”: un cappellano al quale, al solo udire di tante ricchezze, tremarono baffi e veste!

Si chiama Fur e proviene da una famiglia povera del luogo che aveva spinto il sesto ed ultimo figlio alla carriera ecclesiastica così da alleggerirsi di una bocca da sfamare. L’Abate aveva deciso che avrebbe perseverato nell’indottrinarlo sino a quando non avesse cavato qualcosa di buono dalla sua mente stropicciata: ogni mattina lo sedeva allo scrittoio facendogli ricopiare vari testi. Quella mattina a Fur basta la prima parola pronunciata dal consigliere per decidere che la sua permanenza presso la biblioteca sarebbe stata finalizzata a rubare quel prezioso libro.

Passarono gli anni e l’Abate Adelungo era sempre più ricurvo e smunto: un pallore di luna faceva quasi risplendere gli zigomi spigolosi nel buio del suo cubicolo. Le dita assomigliavano a rami contorti e nodosi di ulivo e di nulla si curava se non di portare a termine la sua missione. Era così assorto nel redigere quel manoscritto tanto da dimenticarsi quasi di mangiare, se non fosse per quella serpe in seno che gli portava i pasti al fine di accertarsi dell’andamento dei lavori.
Al contempo, anno dopo anno, cresceva in Fur l’avidità. Il ticchettio a cui badava non era quello del tempo, bensì quello del calamaio sulle pagine dorate. Sino a quando una sera dell’820 lo sfinito Abate, conoscendo la mano che lo aveva nutrito in quegli anni, decide di affidargli una lettera indirizzata ad Eginardo con la quale lo esorta a raggiungerlo per la consegna del suo lavoro pluriennale. Quel sottile pezzo di carta tra le mani di Fur rappresenta un lasciapassare… è il momento di fuggire via con il prezioso manoscritto. Ma necessita di un piano e di un complice.

La vecchia Fidelia (tanto devota al caro Abate) ogni giorno si affaccenda tra gli scaffali della dispensa e il forno; tra le ceneri, pronte per scaldare i suoi manicaretti, intravede una pergamena bruciata, ma non tanto da non potervi riconoscere impresso il timbro personale dell’Abate

So chi è stato! Quel furfantello disgraziato! Irriconoscente! Questo è! Caro Abate se non fosse stato per voi sarebbe certamente morto di stenti!! Ed è così che vi ripaga?”

Con queste semplici parole, all’Abate si apre un mondo: egli, uomo di grande cultura ed esperienza, decide di non farsi prendere più in giro. Anzi, sostituisce il manoscritto originale con una copia fasulla dalla copertina piombata, sulla quale fa incidere il motto:” Dietro ogni originale si cela un falso, così come dietro ad un servo fedele di Cristo si cela un traditore” da consegnare perché fosse esposta e studiata dai lettori. Nessuna sa che fine abbia fatto l’originale.

Non abbiamo più notizie di Fur da quel giorno in poi. C’è chi dice che si sia gettato nel pozzo del castello per la vergogna e chi dice che si sia perso tra gli scaffali della biblioteca tanto che nelle notti di tempesta, per decenni, si sentì il pavimento scricchiolare e la voce dell’avido ladro riecheggiare disperato in cerca della copia originale del manoscritto.
(Martina)

NOTE STORICHE: alcune note apposte su una pagina del Codex Aureus ricordano come un nobile anglosassone Ealdorman Aelfred e sua moglie abbiano riscattato il codex caduto in mano dei Vichinghi forse dopo l’attacco a Canterbury del 851. Nel 16 ° secolo il manoscritto è stato portato in Heidelberg (Otto Heinrich rimosse il contenuto della biblioteca per Heidelberg, creando la famosa Biblioteca Palatina , appena prima della dissoluzione di Lorsch nel 1563), da cui è stato rubato nel 1622 durante la Guerra dei Trent’anni dall’esercito cattolico. In modo da essere facile da vendere e più leggero, il codice è stato spezzato in due e le copertine strappate. La prima metà, riccamente illustrata, ha raggiunto il Migazzi Biblioteca, quindi è stato venduto a Bishop Ignác Batthyány (1741–1798). Questa sezione è ora in Alba Iulia (Romania) e appartiene alla Biblioteca Batthyaneum fondata dal vescovo. La seconda metà è nella Biblioteca Vaticana.

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Michela Nocita
#iorestoacasa #StayAtHome

Sono archeologa epigrafista greca, insegno al Liceo Classico Pilo Albertelli di Roma