A sorpresa

Jacopo Giorgi
‘Stella Maris’ di Jacopo Giorgi
10 min readApr 29, 2019

Seba ripose le cartine e il resto nel cruscotto con un gesto pigro. Guidava piano, i riflessi intorpiditi. Guardò l’ora anche. 22:22. Probabile che Vera ora se ne stava sotto il neon della farmacia a gelarsi il didietro. La immaginò con il vento che la schiaffeggiava arruffandole i capelli: balzellava da un piede all’altro per scaldarsi, ma sembrava una danza su una musica che sentiva solo lei. Poi tirava fuori una cicca: Vera e quel suo rito propiziatorio, il sacrificio di una sigaretta per veder avverato ogni suo desiderio.

Si soffermò su quell’immagine storcendo un po’ le labbra, dopodiché l’allontanò senza neppure rendersene conto.

Allora si ricordò della musicassetta. Era ancora nell’autoradio. Premette l’eject per farla scattare fuori e nasconderla insieme alle altre. Quindi smanettò un po’ con la manopolina del tuner fino a sintonizzarla su una radio locale. Davano “Amoureux Solitaires” di Lio, il tormentone del momento. Faceva cagare. Su questo lui e Vera ancora si trovavano. E la cosa lo fece sorridere. Per un attimo.

In quell’istante i fari della Simca illuminarono i cerchi di fumo che s’alzavano sulla testa di Vera per poi inquadrarla tutta. Non s’era sbagliato: stava proprio là fuori, fumava e attendeva.

“Dai, monta” disse dopo essersi allungato verso il lato passeggero per sollevare la sicura e aprire la portiera. Vera dal canto suo non si fece pregare, ma quando gli fu a fianco aguzzò l’orecchio per decifrare la nenia che arrivava dallo stereo.

Et toi dis-moi que tu m’aimes

même si c’est un mensonge

“E ‘sta roba cos’è?”

Seba si era tolto all’istante il sorrisetto chimico che gli si era dipinto un faccia poco prima.

“Boh, la radio” disse solo. Non voleva irritarla.

Vera si portò le mani alle orecchie, dimenticandosi per un attimo della cicca che reggeva con la sinistra. Seba guardò quelle dita sottili, con la punta dell’indice un po’ catramosa. Come sempre gli sembrò la mano di una bambina. Eppure la sera prima quella stessa mano di bimba aveva raccolto la bottiglia vuota di Stock per lanciargliela contro.

“Beh, dai, almeno è leggera” disse solo.

La vie est si triste

Dis-moi que tu m’aimes.

La filastrocca cantata da quella voce bambinesca pareva un inno alla pedofilia. Con quegli arrangiamenti, poi. Sembravano fatti con la Bontempi di quando aveva dieci anni.

Vera lo strappò a quel pensiero: “Mi pigli per il culo? No perché scendo subito, sai?”

Seba alzò entrambe le mani in aria per poi abbandonarle di nuovo sullo sterzo. Lei invece armeggiò col filtro della sigaretta pestandolo con le unghie. Non aprirono bocca per un po’. Fu Vera alla fine a dire qualcosa.

“Ti giuro che non mi ricordo cos’è successo ieri sera.”

La frase si lasciava dietro lo strascico delle riflessioni masticate per ore. Seba scosse la testa pensando a tutte le volte che gliel’aveva sentite dire quelle parole. Fosse il giorno dopo o anche solo due ore dopo una delle sue crisi.

“E va bene ieri sera ho un po’ sbroccato, però poi mi son calmata, no?”

Vera non era brava a fare pace, questo era certo. E manco lui.

“Cara mia, secondo me tu proprio non ti rendi conto. Tu eri fuo-ri-di-te-sta!”

Seba grattò un po’ per inserire la seconda prima di un incrocio. Sentì il pomello del cambio che gli vibrava nella mano.

“Perché mi devi far sentire una merda?” La domanda suonò come un ringhio, ma in mezzo Seba ci sentì anche qualcos’altro, tipo un singhiozzo.

“E poi c’entra anche quella tua canzone, sai? Quella che hai messo su ieri sera.”

Alla radio intanto ricominciava la nenia.

Tous le jours sont les mêmes,

J’ai besoin de romance.

Vera si gettò sulla radio spegnendola. Poi diede un ultimo tiro alla sigaretta e abbassò il finestrino per lanciare fuori il mozzicone.

Seba sospirò e basta.

“Vabbé, andiamo a farci un caffè, che si è fatto tardi,” disse guardando le luci del petrolchimico che trasformavano la laguna in una marea di frattali argentati.

Avvistò una pompa di benzina con annesso bar. “Fermiamoci qui” fece secco.

Una volta dentro Seba diede un’occhiata al posto. Il locale era spoglio e il benzinaio-barista non li degnò di uno sguardo. Se ne stava appoggiato al bancone con entrambi i gomiti e guardava la Domenica Sportiva fumando. Il Lanerossi Vicenza aveva pareggiato col Milan. Seba pensò che in altre circostanze in un posto così non ci sarebbe entrato nemmeno per pisciare. Invece, come se nulla fosse, ordinò due sambuche con ghiaccio.

“Perché una volta non mi porti con te a Bologna?” riprese Vera.

“Ora sono troppo impegnato. Ho lezione tutti i giorni.” disse Seba facendo girare il bicchiere sulla formica che ricopriva il piano del bancone.

“E’ un anno che mi dici così.”

Si girò verso di lei tirando su la voce di almeno un tono: “Vera, ma cosa stai dicendo?”

“E allora cos’è?”

“Mi sa che non mi stai ad ascoltare. Tuo papà è preoccupato per te.” Strinse il vetro più forte sentendo il freddo tra pollice e indice e rilasciò il respiro. “Siamo tutti preoccupati.”

“Tu ti vergogni di me. E’ questo.” Ancora quel gemito.

Forse, pensò Seba, se n’era accorta anche lei. Invece Vera si fiondò alla cassa e tornò con un ovetto Kinder, lo ruppe e gli passò la capsula gialla.

Seba lo esaminò per un attimo senza aprirlo e tornò a rivolgerle lo sguardo.

“Me lo dici tu cosa c’è dentro, quando ci rivediamo” disse Vera. “Io intanto ho espresso un desiderio”.

Fece per baciarlo e Seba si limitò ad attendere che le labbra di Vera si fossero staccate dalle sue.

*

Aveva fatto diecimila lire di benzina prima di riportare Vera a casa. Poi aveva preso la tangenziale e si era trovato in autostrada. Lì la notte gli aveva steso davanti una tela scura su cui era di nuovo libero di ricamare ogni tipo di pensiero. E così il film della sera prima gli si era proiettato davanti agli occhi a velocità tripla: le risate nel parcheggio, la bottiglia di Stock ’84 che girava, lui che metteva su i Joy Division a palla e quasi faceva esplodere le casse. Tutti che ballavano, tutti stonati. E Vera che a un certo punto sclerava.

Aprì lo sportellino del cruscotto e cacciò fuori lo spino che aveva rollato prima di uscire. Lo infilò tra le labbra, poi prese l’accendino nel taschino della camicia. Il leggero stridìo della rotellina, poi lo sfrigolìo delle braci gli fecero avvertire il silenzio che lo avvolgeva. Si avvicinò di nuovo allo sportellino alla sua destra e rovistò fino a trovare il nastro della sera prima. Lo inserì nell’autoradio e le casse gracchiarono facendo partire una voce profonda, assoluta, che si abbarbicava su una linea di basso come un boa sulla preda.

Confusion in her eyes that says it all

She’s lost control.

Seba diede due, tre boccate. C’era qualcosa nella canzone, lo ammetteva. Però Vera, cazzo.

L’auto calava come una lama nella bassa Padana, la nebbia s’infittiva e la ragnatela bianchiccia là fuori formava un tuttuno con la caligine in cui era immerso nell’abitacolo. Il muro sonoro che ora fuoriusciva dagli speaker si univa con il rumore del motore. Era la cornice ideale a quello scenario. Pensò di nuovo a Vera, alle sue crisi, e ficcò i denti nel labbrò inferiore. Gli bastò un attimo per tornare a vederla. Anche adesso saltellava di qui e di là e sembrava ballare, al centro dell’autostrada. Ora però era nuda. O almeno lo sembrava. Seba accelerava verso di lei e i fari facevano sfumare il rosa della sua pelle in una tinta perlacea.

And a voice that told her when and where to act

She said I’ve lost control again.

Si accorse che lo spino si era spento. Fece per prendere di nuovo l’accendino, ma gli scivolò a terra. Si piegò per cercarlo, una mano a reggere il volante, l’altra allungata tra freno e frizione. Niente. Posò gli occhi di nuovo sul fondo stradale ma faticò a vedere oltre il parabrezza appannato. Sfregò una mano contro il cristallo aprendo un varco nello strato di umidità che lo ricopriva e sporse la testa in avanti per scrutare nel buio. L’immagine di Vera era sparita. Sbattè le palpebre, una sola volta, e una massa di colore rosato schizzò fuori dalla nebbia per attraversare la corsia su cui procedeva.

Una frenata d’istinto, una bestemmia.

Non gli riuscì di schivarla quella cosa lì. Giù altra bestemmia.

Nel giro di un secondo l’urto fece sbandare la Simca prima verso la linea di mezzeria, poi verso la siepe che lo separava dalla carreggiata opposta. Seba sentì un brivido che gli correva giù per la schiena, poi una vampata di calore.

Accostò l’auto con il tremito che ancora si riverberava come un’eco, un’onda sull’altra. Quando gli parve di essere in grado di reggersi in piedi scese e guardò verso il punto dove, a occhio, era avvenuto l’impatto. Diobon, e quello cos’era, pensò. A meno di cento metri c’era come una massa per terra. Tentò di mettere i piedi uno davanti all’altro, adesso parevano piombati. S’avvicinò piano, come avesse paura di svegliare quella cosa, finché non gli fu quasi sopra. Solo allora gli riuscì di distinguere il corpo di un maiale. Non era neanche così grande. Sua nonna che abitava fuori Marghera ne aveva di ben più grossi.

L’animale se ne stava quasi immobile in una pozza di sangue, il collo in una posizione innaturale, il segno del copertone su un fianco. Respirava ancora ed emetteva a tratti un suono flebile che era un vago ricordo di un grugnito. Ogni tanto uno scatto improvviso faceva muovere una zampa. A Seba sembrò che stesse come chiedendo pietà. Cercò una casa, o qualcos’altro che giustificasse la presenza dell’animale da quelle parti, ma c’erano solo buio, nebbia e, più in là, le luci di posizione dell’auto. Guardò ancora la bestiola che se ne stava riversa davanti a lui, ansimante. Tornò verso la Simca ed aprì il vano posteriore per tirare fuori il cric. Con quello in mano fece il tragitto al contrario e, quando gli fu sopra, tirò su il braccio chiudendo gli occhi. Immaginò di farlo scendere tre volte. Come un’ascia che va a colpire un ciocco, il suo urlo a coprire il suono del cranio che si frantumava. Ma non lo fece. E il lamento del maialino morente andò a fondersi con gli ultimi versi della canzone.

She’s lost control again,

She’s lost control.

*

L’ululato di una gazzella della polizia in Viale Masini fece tirar su Seba di soprassalto. Si passò una mano attorno al collo e sentì il sudore bagnargli il palmo. Passò lo sguardo su ciò che lo circondava ed ebbe la conferma che si trovava nel suo letto, a Bologna. Al che guardò giù dalla finestra: la Simca era parcheggiata dove gli sembrava di averla lasciata al ritorno da Mestre. Sciabattò fino in cucina, aprì il frigo e tirò fuori una bottiglia di Coca Cola sgasata. Ne mandò giù un po’ come fosse ossigeno. Poi, tornato in stanza, alzò il coperchio del giradischi e mise su un ellepì. Quando la puntina si abbassò cercò una traccia della notte precedente tra i solchi di quella superficie nera che gli ruotava a due spanne dal viso, ma non vi trovò alcuna risposta. Si stiracchiò un po’ e lo sguardo gli cadde sulla sveglia: “11:11”. L’appuntamento con Deborah alla Montagnola, pensò spalancando gli occhi.

Una volta sul posto, diede un’occhiata intorno. Non c’erano bancarelle. Normale, il mercatino era nel weekend. Deborah era in ritardo, invece, ma neppure quella era una gran novità. Seba allora si scelse una panchina e, per passare il tempo, si mise a guardare i tossici che facevano su e giù tra la stazione e i giardinetti. Ogni tanto quelli che la mattina portavano a spasso il cane ne trovavano qualcuno stecchito nel verde. Si sorprese di sentirsi quasi rilassato. Il ricordo di Vera tentò d’infilarsi in quell’immagine, ma lui lo scacciò via. Deborah, se era lì era per lei. E infatti, quando la vide risalire la Montagnola, scattò in piedi e senza manco pernsarci le andò incontro.

“Ciao” fece lei strascicando un po’ la ‘c’ come fanno in Emilia. Non c’era verso, Seba non smetteva di notarla quella cosa lì. Senza dire nulla la tirò a sé, andò a cercarla sotto la mantella nera che la copriva e la baciò. Poi si tirò indietro per osservarla. La frangetta corta sui capelli neri segnava il limite di un viso etereo da cui emergevano due occhi verdi messi in evidenza da una matita nera.

“E allora, non mi dici niente?” chiese Deborah.

“Non so, cosa vuoi sapere?”

“Beh, sei sparito anche ‘sto fine settimana. Non mi racconti com’è andata?”

“Come vuoi che sia andata? Abbiamo sballato un po’. Gli amici, le solite robe, lo sai.”

Deborah cominciò a mordicchiarsi la punta dell’indice soppesando quella risposta. Seba, però, le tirò via il dito di bocca. “E a te, com’è andata?”

Lei incrociò le braccia, ma continuò a puntarlo.

“Via Zamboni. A passeggio. Com’è che hai detto te? Gli amici, le solite robe, lo sai.”

A Seba venne voglia di fumare e si mise a cercare l’accendino nelle tasche dei jeans. Al che si ricordò che era rimasto sul fondo dell’auto, ma intanto le dita, scavando nel tessuto, avevano scovato dell’altro. Affondò la mano più giù tentando di capire cosa fosse. Sentì una rotondità, toccò della plastica e si ricordò del coso che le aveva dato Vera al bar la sera prima. Ebbe un momento di esitazione.

“Senti, t’ho portato una cosa.”

“Una cosa, cosa?” chiese Deborah. Seba non rispose. Fece solo uscire la mano dalla tasca e le dita si schiusero come petali di un fiore rivelando l’ovetto giallo del Kinder.

“Che c’è dentro?” fece di nuovo, seria seria, quasi pensasse che le espressioni gioiose non si abbinassero al suo look.

Seba si fece serio anche lui. Pareva giocassero a chi ride prima.

“Non l’ho mica aperto.”

Lei si portò due dita al mento come massaggiandolo. Poi lo guardò non riuscendo a trattenere un sorriso.

“Vai mò che c’hai messo dentro un quartino di roba e non me lo vuoi dire.”

Seba emise un mugugno. Poi sorridendo a sua volta allungò il collo indicando il bar della stazione.

“Va che non son mica come quelli là.”

Deborah, tuttavia, non si girò verso il punto indicato da Seba. Anzi, continuò a fissarlo, anche se stavolta quasi di sottecchi. Alla fine prese la capsulina gialla, le fece schioccare e l’aprì. Assicurandosi che Seba non vedesse, spiò il contenuto e le scappò un altro ghigno.

“E insomma?” chiese lui.

La ragazza lasciò che la sorpresa scivolasse nella mano di Seba. Era un maialino di plastica rosa e ora giaceva immobile nel suo palmo. Probabilmente Deborah disse anche qualcosa. Lui però aveva smesso di sentirla. Nelle sue orecchie c’era solo una canzone fredda come la notte prima.

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Jacopo Giorgi
‘Stella Maris’ di Jacopo Giorgi

Qui scrivo storie. Che poi, stringi stringi, vuol dire parlare di due o tre cose della vita. E magari trovarci un senso.