La caccia (2)
“Forse per loro sono proprio questo: un fantasma. Il fantasma di un passato che torna a manifestarsi.”
Prijedor, la via centrale. In una serata come questa, in cui la nebbia la fa da padrona, non potrebbe essere più silenziosa. Le serrande abbassate non sembrano far caso al mio passaggio. Tendo l’orecchio nella speranza che i luoghi vogliano raccontarmi qualcosa che ancora non so di me, di Lejla, di Yusuf. Della piccola Amira, magari. Trovo posto in un albergo modesto, ma che mi offre colazione e cena per un prezzo che altrove riterrei irrisorio e mi dico che va bene così. Una volta in stanza, frugo nello zaino e nell’agendina trovo gli appunti che mi ha passato mio padre. Cominciano con il ristorante ‘Dai fratelli Ivanovic’.
La porta della stanza si richiude alle mie spalle, scendo le scale e, una volta in strada, mi guardo attorno. Sì, posso cominciare già stasera, mi dico.
Al ristorantino un cameriere dall’aria svogliata mi saluta biascicando a malapena un ‘dobro vece’ e prende nota dell’ordine. Il fatto di essere l’unico cliente - assieme alla voglia di chiudere presto, immagino- fanno sì ch’io venga servito quasi subito. In meno di un quarto d’ora riblja čorba e trota grigliata si materializzano sul tavolo. Mentre mangio il cameriere mi lancia qualche occhiata sbieca. Poi si accomoda a guardare la partita del Partizan di Belgrado, per cui mi permetto di dosare le cucchiaiate della čorba e poi, con tutta calma, finisco anche il pesce. Pago e lascio una mancia spropositata nel piattino. Al che l’espressione dell’amicone cambia. Si sbilancia tanto da chiedermi addirittura se la cena è stata di mio gradimento.
Io non mi lascio scappare l’occasione. “Mi scusi, mi darebbe un’informazione? Sa, sono appena arrivato dall’Australia: i miei sono di qui e abbiamo una ditta d’import-export di prodotti gastronomici. E beh, insomma, stiamo pensando ad un investimento.”
E’ perplesso. Non gli è chiaro che tipo d’informazione possa attendermi da lui, per cui spiattello un altro po’ della storiella che Yusuf s’è inventato per me.
“Abbiamo fatto un’indagine sulle imprese alimentari della zona attraverso la Camera di Commercio australiana. Ce n’era una, in particolare… com’è che si chiamava?”
“Beh, ce ne sono parecchie” fa il tipo sistemandosi un piatto sull’avambraccio.
“Ah mi sfugge il nome. Ah sì, la Vegetaminka!”
“Come no! Quella del signor Pedja” fa allora lui.
“Pedja, dice? Non credo di…” Mi gratto un po’ la guancia con due dita.
“Il signor Predrag Popović. E’ un nostro cliente abituale.”
“Il sergente Predrag Popović.” Il pensiero è così limpido che, per una frazione di secondo, temo di aver pronunciato quelle parole. Deglutisco a fatica. “Che coincidenza! No, perché vede, il mio bagaglio è andato smarrito, per cui non ho più con me il taccuino coi contatti.”
Il tipo per un secondo esita. Ha numero di telefono e indirizzo, lo so, oppure potrebbe recuperarli, dal padrone del locale, perfino dal cuoco, forse Alla fine, però, opta per fare un mezzo passetto indietro.
“Non si preoccupi, Pedja lo trova spesso qui, all’ora di pranzo.”
Seguono i ringraziamenti e qualche altro commento sulla cena. I sorrisi si fanno per un attimo abbondanti, dopodichè si diradano, finchè il tipo dà un’occhiata plateale all’orologio a muro. Lo spazio conviviale si è chiuso, non c’è dubbio.
*
Fuori albeggia. Prijedor si risveglia sotto una luce pallida. La sera prima ho chiesto in albergo di farmi impacchettare la colazione e infatti, il mattino dopo, la raccolgo alla reception. Sgambetto verso la stazione sgusciando un uovo sodo che mi son ritrovato nel fagottino. Il resto lo mangerò più tardi. Infatti il pullman parte alle sei e quaranta. Per carità, Hambarine sta solo a mezz’ora di strada dalla città e poi ci sono anche altri bus più tardi, ma io non posso attendere. Non ce la faccio proprio.
Avvisto il paese da lontano. Le case vanno su per una collina bassa che prende vita sul lato destro della strada. Molte sembrano intatte, mattoni rossi in bella vista su cui si affacciano finestre incorniciate da infissi nuovi di zecca. Ma qualcosa stride con quell’immagine. E’ il ricordo del giorno in cui tutto si è fermato.
L’odore di legna da ardere è lo stesso di vent’anni fa. C’è la fontanella in cui bevevo dopo aver giocato e il canale in cui sputavo mentre guardavo i pesci passare. Dei colpi solitari, ma cadenzati mi attirano verso un cortile. Il vecchio col baschetto nero potrebbe essere tranquillamente mio nonno: sono addirittura tentato di avvicinarmi e da dietro fargli “buh!”, proprio come allora. Non è lui e lo so bene. Anche se per me mio nonno è ancora qui, a spaccare ciocchi di legno, ogni mattina. E’ qui da sempre, e lo sarà per sempre.
Dopo un attimo di esitazione mi avvio per le stradine in salita. Un paio di anziane col capo avvolto in un fazzolettone si fermano al mio passaggio e, senza neppure nasconderlo, mi scrutano mentre vengo avanti. Faccio un cenno col capo che però non sembra risvegliarle dal loro stato di trance. Quando il resto della gente neppure si sogna di mettere piede in questo castello di spettri, chi posso mai rappresentare io se non uno spettro? In fondo forse per loro sono proprio questo: un fantasma. Il fantasma di un passato che torna a manifestarsi.
Passano le ore, ma le finestre continuano a rimanere quasi tutte chiuse, le imposte abbassate. Le case sono state ricostruite, ma restano inerti, custodi di un tempo che fu. Qualcuno, pochissimi a dire il vero, sono tornati a vivere a Hambarine. Se l’hanno fatto forse è perché non sapevano dov’altro andare, o non potevano sopportare l’idea di vivere lontano dal ricordo di chi non c’è più. Mi riavvio verso la fermata del pullman e il canto del muezzin fuoriesce dai megafoni appesi ai minareti. Ma io sono lì per sbrigare affari più urgenti delle preghiere.
*
E’ l’ora di pranzo e sono di nuovo dai Fratelli Ivanovic. Mi osservo attorno: anche oggi sono l’unico cliente. Tamburello un po’ le dita sul tavolo, guardando quel che resta della portata che ho consumato. Alla fine chiedo un caffè e mi preparo a pagare, ma sento che la porta si apre dietro di me. Il cameriere alza lo sguardo: “buongiorno, Pedja.”
Potrebbe essere un altro Pedja, mi dico, ma sento che non è così. Sto solo tentando di allontanare l’idea che sto per incontrare il carnefice di mio padre.
“Buongiorno a lei, sono in tempo per mangiare qualcosa?”
“Ma certo, si accomodi. Anzi, mi sa che abbiamo un ospite che la vorrebbe conoscere. O mi sbaglio?” fa il cameriere dirigendo lo sguardo verso il mio tavolo.
E’ il mio uomo. Se non il mio, è quello di Yusuf.
Mi giro completamente per farmi guardare in faccia. E anche per guardarlo io. Se ne sta lì, a circa due metri da me. E’ diverso da come l’avevo immaginato. Una sessantina d’anni, il viso scavato e ricoperto da una barba biancastra poco curata. Le sopracciglia folte fanno capolino da dietro una montatura in metallo. La giacca ed il pantalone grigi, sobri. Un’aura da sacerdote laico, più che da ex-sottufficiale dell’esercito serbo.
“Scusi, lei è il Signor..?” torna a chiedermi il cameriere.
“Ah sì, certo. Edin. Edin Husanovic.” Scandisco ogni sillaba per vedere se per caso a Pedja si accende qualche lampadina, ma niente. Certo, un fottuto musulmano, starà pensando.
“Salve, non mi pare ci conosciamo. Lei non è di qua?”
E’ calmo. Quasi serafico.
“No, infatti. Sono arrivato qualche giorno fa dall’Australia. La mia famiglia è di Bihać, ma viviamo a Sidney da vent’anni ormai.” La salivazione si è bloccata. Ci riprovo con più convinzione. “Come spiegavo l’altra sera al signore” dico indicando il cameriere, “avevo gli estremi della sua ditta, ma li ho smarriti in viaggio. La ditta di mio padre vorrebbe provare a importare prodotti alimentari locali in Australia.”
Pedja se ne sta impalato. Mi fissa. “Si accomodi”, azzardo.
Lui accetta di sedersi al mio tavolo e inizia a raccontarmi della sua attività, di come in realtà le cose abbiano ripreso a funzionare lentamente dopo la guerra. Di come lui stesso si sia allontanato per qualche tempo, dalla città e dalla sua famiglia. Per anni, infatti. Gli chiedo dove sia stato e lui mi dice in Montenegro. Tutto combacia con le informazioni di mio padre, nel dettaglio.
Mi parla di sottaceti, di crauti, di salse e conserve. Tutto naturale, aggiunge. Continuo ad annuire, ma smetto di ascoltarlo. La mia mente torna ad un momento prima. La voce sempre piana, tranquilla, si è increspata solo un attimo nel riferire del dopo-guerra. Il tono, però, è ripreso subito tranquillo, cortese. Strano, penso. Soprattutto per un serbo che sta parlando a un musulmano del cazzo.
Alla fine m’invita a fargli visita alla ditta, “per capire cosa e chi ci sta dietro.”
“Non mancherò, signor Popović.”
“Pedja. Io qui sono Pedja per tutti.”
Me ne vado e nel tragitto verso l’albergo penso e ripenso ad ogni singolo passaggio di quella breve conversazione. Faccio appena in tempo a tornare in stanza che il mio cellulare squilla. Guardo la lunga fila di cifre nel display e riconosco il numero dell’ufficio di mio padre.
“Pronto, Yusuf?”
“Edin, dove sei sparito, si può sapere? Io e tua madre eravamo preoccupati!”
“Scusa, avevo in mente di farvi uno squillo. Ad ogni modo, tutto sotto controllo.”
Butto il giubbotto su una sedia, prima di sedermi sul bordo del letto. Yusuf mi chiede del posto, se ricordo qualcosa e io provo ad accontentarlo raccogliendo a piene mani immagini dei miei primi due giorni a Prijedor e a Hambarine. Mio padre non dice granché.
“Yusuf, l’ho incontrato” dico come espirando. Poi mi distendo sul letto: “Predrag, voglio dire. O almeno credo sia Predrag.”
“Che intendi dire con ‘credo sia Predrag’?”
“Il nome corrisponde. Ma non è come lo avevi descritto. Qualcosa non quadra.”
“Che c’è Edin?” La voce va su di un tono.
“Niente Yusuf. Ma c’è qualcosa in lui… Ti faccio sapere, ok?”
“Figliolo, mi raccomando.”
“Tranquillo, Yusuf.” Mi assicuro di avere il cuscino sotto la testa: “ti pare che uno che doma le onde si fa fregare da un ‘cetnico’ in pensione?”
Per me ‘cetnico’ non vuol dire nulla, ma se uso il linguaggio di papà me lo faccio amico. Infatti Yusuf ride dall’altro capo. E allora va bene così.
*
Sul tragitto verso la ‘Vegetaminka’ non noto quasi nulla, salvo un grande stabilimento che pare in disuso, all’imboccatura della statale.
“Scusi, questo cos’è?”
Al sentire la mia domanda, il tassista mi guarda nello specchietto. Si prende un paio di secondi per studiarmi meglio.“E’ il Keraterm” dice alla fine. “E’ la vecchia fabbrica di ceramiche”.
Una scarica mi viene giù dal collo. Brutto stronzo, quando ha smesso di essere una fabbrica di ceramiche il Keraterm è diventato tutt’altro. Che, non me lo dici questo? Io lo so bene, sai? Mio padre, assieme a molti altri, ci ha passato mesi là dentro, e tu manco lo immagini come ne è uscito.
Stringo i denti mandando giù a fatica e per allontanare il pensiero mi concentro sulla strada che ci viene incontro.
Arriviamo alla “Vegetaminka” che poi, da fuori, altro non è che un capannone anonimo in condizioni appena migliori di altri stabilimenti nella zona di Prijedor. E’ presto e decido di farmi quattro passi lì attorno. Finisco nel parcheggio e così, per ammazzare il tempo, passo in rivista le auto dei dipendenti. Mi soffermo su una targata Bihać chiedendomi cosa ci faccia lì. Poi noto che un altro paio provengono da Sanski Most. Tutte località a maggioranza musulmana. Ci penso su, finché delle voci non lontane mi fanno voltare: uomini e donne entrano nello stabile salutandosi, sembrano contenti. Quando entro li vedo che si bevono il caffè assieme fumandosi la prima sigaretta del giorno. Passo a fianco alle macchinette del caffè e quelli mi salutano gentili. Non so perché, ma mi stupisce la spensieratezza che sembra regnare tra quella gente.
Quando mi vede Predrag mi dice di salire al piano di sopra e, quando ci ritroviamo nel suo studio, mi stringe la mano. Senza forzare, ma la presa è comunque salda. Poi mi fa accomodare.
“Edin, non ti aspettavo così presto. Lo vuoi un caffè?”
“Grazie, Pedja, l’ho già preso stamattina”. Il mio sguardo vola su tutto quello che mi circonda: carte, targhe di riconoscimento, anche una foto di lui e una donna, immagino sua moglie. Lui, notando la mia curiosità, m’indica anche la vetrinetta da cui spuntano un paio di bottiglie prive di etichetta. “Una rakja forse?”
Faccio cenno di no col capo, tentando un sorriso. “Ogni tanto bevo un goccetto, ma solo nelle occasioni speciali.”
Non insiste: “dimmi, allora, che posso fare per te?” Non aspetta la mia risposta. Si siede dall’altra parte del tavolo e comincia a sciorinare informazioni.
“Vediamo, da dove comincio?” Si pulisce le estremità del labbro di sotto con le dita, prende la rincorsa. “Beh, ecco, per cominciare, qui lavorano ottantuno persone. Oltre a me. Vengono da tutta la regione. Musulmani, serbi, croati. Probabilmente, dico. Probabilmente nel senso che io a loro non l’ho mai chiesto.”
Fa una pausa, ma non è per testare l’impatto delle sue parole su di me. Vuole solo vedere se lo sto seguendo. “Qui, Edin, si superano le divisioni. Voglio dire che alla Vegetaminka il lavoro è il mezzo, ma non la ragione. Certo, qua si viene per fare quattro soldi, come dappertutto. Ma non ci fermiamo a questo.”
Ho ascoltato attentamente la prima parte del discorso, ma arrivati a quel punto sto per spazientirmi. Addirittura mi dico “mi sta prendendo in giro”. Tuttavia non batto ciglio. Sorrido, anzi, anche se non so per quanto riuscirò a farlo. Fortunatamente usciamo dall’ufficio per andare a passare in rivista i reparti. Dalla selezione degli ingredienti alla preparazione delle conserve, fino all’imbottigliamento e all’etichettatura. Predrag è sempre più calato nella parte.
“Edin” dice infine “in questi anni, per varie ragioni, mi sono trovato a riflettere su certe cose, sul significato dei rapporti umani e ho deciso che avrei fatto tesoro di quelle mie riflessioni.”
Si allontana, guarda fuori dalla finestra: “tuo padre ti ha mandato qui perché sei un ragazzo sveglio. E poi tu vieni dall’Australia, lì dev’esere diverso…” Ora si gira verso di me, congiunge le mani davanti al petto. Pare un prete spretato. “So che puoi capirmi, Edin.”
Fatico a sostenere il suo sguardo. M’invento che ho già un impegno, che devo andare. Al che insiste perché vada a casa sua domenica, per un pranzo con la famiglia. Devo accettare, dice. Ho molto da sbrigare, ma ci proverò, rispondo.
Torno in città e mi chiudo in stanza, ci resto delle ore. Ma verso sera è come se i pensieri avessero saturato l’ambiente. Un po’ d’aria, ecco cosa mi ci vuole. Mi decido ad uscire, dunque, e appena sono davanti alla porta dell’albergo il freddo mi punge la pelle sugli zigomi. A occhio e croce stasera nevica, penso. Affretto il passo nel tentativo di scaldarmi. Guardo verso terra e mi accorgo che i miei passi si muovono sicuri e le gambe sembrano condurmi verso un altro luogo che forse è stato sempre con me in questi anni. Quando alzo gli occhi sono di fronte a una palazzina di tre piani che conosco bene. Punto verso il portone, quindi vedo la mia mano, piccola mano di bambino posarsi sopra. Adagio la fronte sull’avambraccio appoggiato allo stipite per dare inizio a un nascondino inaspettato. Tocca a me stare sotto: vediamo quanti fantasmi del passato riesco ad acchiappare. Il palmo della mano accarezza il vecchio legno scheggiato. Socchiudo gli occhi e inizio a contare.
Jedan, dva, tri, četiri, pet, šest…
Saranno nascosti? E dove? Seid, Milan, Zlatan, Šeherzada, Jovan. Ripenso a quei nomi dimenticati per così tanto tempo fino a che la voce di una giovane Edina pone il tassello mancante.
“Basta giocare, sali Edin, è ora di fare il bagno!”
Tiro su la testa e apro le palpebre. Guardo verso il primo piano, ma Edina non c’è. Attorno a me non c’è nessuno infatti. Infilo le unghie nel legno e sento le lacrime scendermi sulle guance. La neve già mi accarezza il viso.
[Continua]