La caccia (3)

Jacopo Giorgi
‘Stella Maris’ di Jacopo Giorgi
6 min readApr 16, 2020

C’è qualcosa nelle sue corde: come un’eco che viaggia nel tempo.

Alla fine, quella domenica, sono lì. Arrivo proprio mentre iniziano a scendere i primi fiocchi di neve.

La casa non è lontana dal centro. Si tratta di una villetta col giardino sul davanti in cui si alzano un paio di meli ben piantati. Insomma, una casa come ce ne sono molte da queste parti. Il cartellino sopra al campanello, in un cirillico che pure io riesco a leggere, riporta la scritta ‘Famiglia Popović’. Ho già posato il dito sul pulsante, ma qualcosa ancora mi frena.

Poi, quando meno me lo aspetto, si fa viva la voce di una ragazza, un suono flebile, lontano. C’è qualcosa nelle sue corde: come un’eco che viaggia nel tempo. Mi concentro e riconosco il tema: Lepa protina kći. Un tempo anche mia madre la cantava. Senza che me ne accorga, quella voce giovane vince le mie resistenze.

Una signora dall’aria gentile mi apre la porta.

“Buongiorno, Edin. Entra pure.”

Ha un viso fresco ed i capelli un po’ ingrigiti, annodati dietro la nuca. Conosce il mio nome. E a quel punto mi chiedo cosa possa averle detto Predrag di me.

“Sono Dunja, la moglie di Pedja. Siamo appena rientrati, sai?” Le campane di una chiesa lontana mi ricordano che è domenica. “Ma ti stavamo aspettando” mi dice poi.

Tendo la mano in cui reggo la bottiglia di Vranac che ho comprato il giorno prima. Qundi mi accorgo della sua tesa, e mi affretto a stringerla. Dunja sorride, ringrazia e mi indica la porta della cucina.

La canzone che ho sentito là fuori pochi istanti prima continua, ma ora viene da un angolo della casa.

E me ne sono andato per la strada, la prima neve cadeva

Ancora a volte le campane suonano e la portano chissà dove…

“Olga, ci raggiungi? Abbiamo ospiti”

Il canto si arresta. Dei tonfi leggi arrivano dal piano di sopra.

“Olga è tornata da Linz, ieri sera. Studia lì”, m’informa Dunja. Annuisco abbozzando un sorriso, mentre studio l’ambiente. La casa è curata, ma senza fronzoli. La sobrietà sembra il principio fondante dell’esistenza dei Popović. L’occhio si sofferma su un’icona, credo San Giorgio. Noto anche un grosso fucile da caccia appena sopra il caminetto. Potrebbe essere un pezzo d’arredo come un altro, se non fosse per la lucentezza oscura che emana.

Infine arriva Predrag. Ha le maniche della camicia arrotolate fino al gomito. Sembra essere lui il cuoco di casa. Porta un lungo grembiule che gli copre tutto il davanti. La barba è più arruffata del solito. Mi porge la mano ma mi fa segno che è sporca di sugo, per cui stringo più in alto, all’altezza del polso.

“Ben arrivato Edin.” Alza un po’ il mento indicando il fucile: “non t’impressionare: è solo una vecchia doppietta, apparteneva a mio padre.” Tossicchia, ma forse è una risatina.

Butta lì un “Non ti interesserà la caccia, vero?”

E io tento una battuta. “Sono più per il surf, ma non si sa mai”

“Beh, quando inizia la stagione, a me non dispiace farmi un giro in campagna col fucile. Non sono un professionista, capiamoci.” Sorride, sembra riflettere. Fa per tornare verso la cucina, poi si ferma e si volta: “Non è che vuoi venire una volta, eh? Per provare.”

Vorrei evitare l’imbarazzo, non mi va di deluderlo. “Magari!” rispondo veloce. Faccio così anche con mio padre ogni volta che se ne viene avanti con un invito che ha le sembianze di una richiesta.

“Pensaci. Intanto accomodati. Tra un minuto sono lì.”

Nemmeno il tempo di sedermi ed eccolo che arriva con una bottiglia di šlivovica ed un paio di bicchierini.

“L’altro dicevi che all’occasione un goccetto lo accetti, no?”

Tento di abbozzare un’aria che sappia di serenità, ma vedo Pedja un po’ interdetto. Ci riprovo e allargo il sorriso: “quando si tratta di šliva fatta in casa, non posso tirarmi indietro.” Per la cronaca, odio la šliva, la rakja e tutti i liquori che la gente dell’ex-Yugo, a cominciare da Yusuf, ti rifila ogni volta che può.

Alla fine brindo e trangugio in silenzio. Mentre l’alcool mi scalda sento di nuovo il rumore dei passi al piano di sopra. Si fanno più vicini e dalla scala compare una ragazza dall’aria assonnata.

“Questa è Olga, Edin” annuncia Predrag.

La guardo, ha qualche anno meno di me e l’aria disinvolta. Sarà la situazione, il pranzo della domenica, ma tutto mi fa pensare a come sarebbe potuto essere crescere con una sorella. Mi devo essere un po’ imbambolato e Olga mi punta addosso uno sguardo interlocutorio. Durante il pranzo, in realtà, rimane quasi sempre in silenzio. S’illumina solo quando viene a sapere che vengo dall’Australia.

“Ah, OK, da che parte dell’Australia?”

“Sidney.”

“E di tutti gli angoli del pianeta, qui a Prijedor dovevi finire, per di più in questo periodo?” Guardo fuori, ha smesso di nevicare, ma il bianco ricopre ogni cosa.

“Sono qui per seguire degli affari di mio padre” rispondo secco, guardandola dritta negli occhi.

“Edin e suo padre vogliono importare prodotti della regione”, precisa suo padre. “Ma ne parleremo con più calma, sempre che tu ne abbia voglia, Edin.”

Dopo mangiato Olga saluta veloce e, come è apparsa, si dilegua, risucchiata dal piano superiore. Il suo canto, però, riprende dopo poco. E’ l’unico segno della sua presenza in casa. Ancora quei versi che si fanno lontani come il passato.

Dopo pranzo Predrag ed io ci sediamo sul divano in salotto. E’ chiaro che mi dovrò sorbire un altro giro di šlivovica. Provo a temporeggiare guardandomi attorno e chiedo spiegazioni su ciò che mi capita a tiro . Ad un certo punto noto una serie di foto incorniciate su una mensola. Mi alzo e mi avvicino per vederle meglio.

Una un po’ sbiadita raffigura una bambina di tre o quattro anni sorridente, alle prese con un gelato più grande di lei.

“Questa è Olga?”

Pedja fa cenno di sì col capo. Ha tirato di nuovo fuori i bicchierini e sta già per versare il liquore.

Passo ad altre foto: Predrag e Dunja in abito di nozze, è la stessa foto che Pedja tiene in studio. Di nuovo la figlia, più grandicella, in una località sulla costa croata, o almeno mi pare. Infine un’immagine solitaria di un ragazzo in uniforme, sulla ventina d’anni. Assomiglia a Predrag e per un attimo mi pare lui. Penso che la foto è vecchia, ma neanche così tanto. Non può essere lui. Non capisco.

“Pedja. Questo è un vostro parente?” chiedo tirando il collo verso di lui.

Predrag mi guarda. E’ ancora seduto sul divano. Ha fatto in tempo a riempire solo un bicchierino. Lo vedo tenere in mano la bottiglia, quasi non sapesse più che farne. Nella stanza cala il silenzio. E’ un po’ come se non fossimo più soli. Le mie parole hanno evocato qualcosa che ora riempie il silenzio come una parete tra noi. Mi giro del tutto per capire cosa stia succedendo.

Predrag appoggia la bottiglia sul tavolino. Mi rivolge uno sguardo arrossato prima di chiudere gli occhi. Il viso si copre di rughe che fino ad allora non avevo notato. Eppure i suoi tratti li ho studiati a fondo in questi giorni.

Predrag, il carnefice. Il sergente Predrag Popović. No, mi sembra sia solo Pedja in questo momento.

“Quello è Momir, mio figlio.” Raschia le parole fuori dalla gola. “Prima della fine della guerra aveva preso servizio nell’esercito ed è finito a combattere nella Krajna. Quando è caduto il settore Ovest, a Knin, lui era lì. Aveva diciannove anni.”

Il labbro di Pedja inizia a tremare. Poi lo sento quasi singhiozzare e sto per poggiargli una mano sulla spalla, ma il racconto riprende prima che io lo faccia.

“Momir voleva fare la sua parte. Lo diceva sempre. E io stesso ero convinto che combattere fosse la sola cosa da fare. Che solo così avremmo difeso l’onore…” Il petto si alza e si abbassa veloce. Quindi, trattenendo il fiato, mi guarda dritto negli occhi. “Voleva che suo padre fosse fiero di lui. E suo padre era un combattente dell’esercito della Republika Srpska.”

Il sentimento di pietà cui mi sono lasciato andare qualche secondo fa è già scomparso. Io e Predrag ci fissiamo, ma lui non può sapere a cosa sto pensando. Che di fronte agli occhi io ora ho mio padre. E che lo vedo sbattere sugli spigoli della cucina con la sedia a rotelle. Lo sento chiedermi di prendergli la bottiglia di rakja che sta su uno scaffale troppo in alto. Non sa che se mi lascio trasportare vedo anche mia madre. Anzi la sento. Lei e i suoi silenzi. Lepa protina kći non gliel’ho più sentita cantare. Penso alla piccola Amira e mi chiedo, ovunque sia, se anche lei si sarebbe svegliata tardi la domenica mattina. Sto ancora guardando Predrag. Per la prima volta in vita mia mi pare di provare un sentimento di cui non mi credevo capace.

[Continua]

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Jacopo Giorgi
‘Stella Maris’ di Jacopo Giorgi

Qui scrivo storie. Che poi, stringi stringi, vuol dire parlare di due o tre cose della vita. E magari trovarci un senso.