La caccia (4)

Jacopo Giorgi
‘Stella Maris’ di Jacopo Giorgi
8 min readApr 19, 2020

“Le campane, come nella canzone. Ma oggi non è domenica e qui non canta nessuno.”

Di nuovo nella mia stanza d’albergo. Un tipo inglese in giacca e cravatta, occhi piccoli e accento fino, un tale Paddy qualcosa, pontifica in TV sul processo di riconciliazione. Menzogna romantica, l’avrebbe chiamata qualcuno. Mi accorgo che mi si è dipinto in faccia un mezzo sorriso.

Il pensiero, però, torna subito al al pranzo di quest’oggi. Non ero pronto, lo sapevo, mi dico con lo sguardo perso nel viso rugoso al centro dello schermo appeso al muro. E mentre mi torturo rivisitando ogni singolo istante di quel pomeriggio squilla il telefono sul comodino. Abbasso il volume della televisione, torno a stendermi sul letto e mi allungo alla mia sinistra per alzare la cornetta.

E’ la reception: “Buonasera, signor Hasanović. C’è qui il Signor Predrag Popović. Chiede di lei”.

Non so cosa rispondere. Non pensavo l’avrei rivisto così presto. Stringo forte il telecomando trattenendo il respiro per un attimo, poi lo butto sul letto buttando fuori l’aria dal naso. “D’accordo, gli dica che scendo tra qualche minuto”.

Mi prendo un buon quarto d’ora per tentare d’immaginare la scena che mi si parerà davanti. Cammino su e giù per la stanza, come misurandola. Mi consola solo il pensiero che chi avrò davanti è il cane che ha ridotto mio padre nello stato in cui si trova. Il resto non mi riguarda nel modo più assoluto. E allora prendo la porta e la sento sbattere alle mie spalle.

Predrag mi aspetta al piano terra, seduto a un tavolo all’angolo del bar dell’hotel. Non c’è anima viva, tanto più che il bar sta per chiudere. Quando mi vede si alza in piedi.

“Buona sera, Edin. Mi spiace disturbarti a quest’ora.”

“Domani parto presto per Banja Luka, di lì andrò a Travnik e a Sarajevo.” Sto inventando a ruota libera. La rabbia mi aiuta a tirare fuori scuse a caso. “Starò via qualche giorno” dico anche.

“Senti, Edin, non ti tratterrò molto. Ma credo di doverti una spiegazione.”

Lo osservo mentre appoggia il cappello sul tavolo, quasi con delicatezza Gli faccio cenno di sedersi e lui risponde al mio gesto con un movimento cauto, come avesse paura di rompersi da un momento all’altro. Tutto d’un tratto mi sembra un anziano, uno di quelli che immagini uscire la mattina presto per fare la spesa per la moglie o perder tempo alla bocciofila con gli altri sopravvissuti della loro generazione. Mi siedo anch’io.

“Quando ho ricevuto la notizia della morte di Momir non sono più riuscito a darmi pace. Non potevo accettare di averlo perso.”

Mi parla e scuote la testa con lo sguardo che vaga nel vuoto. Alza le mani a mezz’aria, sembra voler tentare di bloccare qualcosa. Forse la vita stessa.

“Chissà, magari Momir avrebbe comunque seguito quella strada, ma per me la sua scelta non poteva che esser nata dalle mie convinzioni. E lì il senso di colpa ha cominciato a mangiarmi dentro. Non mi lasciava più vivere.”

Al sentirlo parlare di senso di colpa, avverto una punta di amaro in bocca, ma lascio che continui.

“Mi sono guardato indietro, Edin, e quel che ho visto mi è parso terribile.” Ora Predrag riprende fiato. Le mani stringono il cappello fino a piegarlo. E’ arrivato il momento difficile. La penombra in cui siamo sprofondati mi dà l’impressione di essere in un confessionale.

“Edin, ho fatto del male nella mia vita. E non riuscivo a vivere con quell’idea. Io e Dunja abbiamo deciso di provare ad avere un altro bambino ed è nata Olga. Ma neppure questo è bastato a placarmi. Così ho lasciato casa, mia moglie e mia figlia. Per quasi cinque anni mi sono rinchiuso nel Monastero di Ostrožac, in Montenegro. Mi sono separato dal mondo e ho cercato conforto nella preghiera. Ma poi ho capito che non era Dio che cercavo. Capisci?”

Predrag butta la testa indietro. Io continuo a guardarlo e mi rendo conto che sto facendo segno di sì con il capo.

“Io dovevo rifarmi una vita tra gli uomini. Momir non sarebbe tornato, come non sarebbero tornati a vivere tutti quelli che non c’erano più. Che anch’io avevo ucciso. Dovevo saldare il mio conto con il mondo, non con Dio.”

Quando Predrag finisce di parlare cala una quiete cimiteriale, simile a quella di oggi pomeriggio in casa sua. Anche la musica che proveniva dalla radio del bar, d’incanto, cessa. Rimaniamo così per un tempo che non saprei calcolare.

Ci salutiamo con una stretta di mano e con la promessa di risentirci al mio ritorno a Prijedor.

Quando salgo in camera da letto trovo il cellulare che squilla.

Il numero è quello di mio padre. All’improvviso mi sento l’anello di congiunzione tra due epoche. Ma io non ne faccio parte, è qualcosa di più grande di me. Alla fine, comunque, rispondo.

“Yusuf, come stai?”

“Bene, Edin. E tu?”

“Sto bene. Comincia a farsi tardi. Me ne vado a letto tra poco.”

Sento la superficie liscia del cellulare nel palmo della mano.

“Hai novità? Dico, su Predrag?”

“Ci sto lavorando. Mi sto avvicinando a lui…”

Non voglio raccontare cos’è è successo. Non ora, almeno. Ho la fronte imperlata di sudore. Le stanze sono iper-riscaldate qui, ma non è l’unico motivo, ovvio.

Yusuf sta avvertendo un’ombra di dubbio nella mia voce, ne sono sicuro. Alza la voce, lo sento infervorato. “Edin, quell’uomo ha torturato e ucciso. Ricordatelo!”

Se chiudo gli occhi, la stanza gira tutta.

*

Chiamo Predrag qualche giorno dopo. Gli racconto che sono stato in giro, ma ora sono tornato a Prijedor e c’ho pensato su. Sì, sull’idea di andarsene fuori a caccia. Mi incuriosisce, dico. E lui mi propone subito un giro al lago di Bardaća, nel nord.

“Le anatre sono le ultime ad andarsene. Prima di volare al caldo si radunano. Le troveremo da quelle parti.” Lo dice contento.

Sento che si fida di me, forse gli ricordo Momir.

Mi viene a prendere quel sabato mattina. Quando esco dall’albergo, è seduto al volante col motore acceso. Ha un sorriso ebete stampato in faccia e un paio di doppiette appoggiate sul sedile posteriore.

Non si accorgerà di nulla, penso. E se per caso dovessero fermarmi, potrei anche cavarmela dicendo che è stato un incidente. Un colpo sparato da lontano da un principiante.

Arriviamo a Bardaća la mattina presto o forse è solo una mia impressione che sia così presto, perché il sole oggi sta tardando ad uscirsene dal suo nascondiglio. E’ un tondo di un colore smorto che non scalda l’aria quello che vien su all’orizzonte. E infatti il lago è praticamente ghiacciato: un leggero strato opaco ricopre tutte le insenature. Stendo lo sguardo fin dove riesco a distinguere quel che ci circonda. Campi arati a perdita d’occhio. Qualche fattoria. Poi sento le chiese riecheggiare lontane come domenica scorsa, davanti a casa sua. Le campane, come nella canzone. Ma oggi non è domenica e qui non canta nessuno. Un po’ più lontano intravedo il minareto di una moschea solitaria. Quello tace, invece.

Ci appostiamo ad un metro dal lago sotto la copertura di un canneto. Lo vedo imbracciare il fucile ed infilare due bossoli nel caricatore. Faccio lo stesso. Comincia un’attesa silenziosa. Il respiro che esce dalla bocca di Predrag forma una nuvoletta di vapore che si disperde subito. Mi ricorda che è vivo, ma anche che tra qualche minuto non lo sarà più. Uno schiocco tra le canne ed un piccolo gruppo di anatre si libra in volo. Vedo Predrag alzarsi e prendere la mira. Un colpo, un altro. Il secondo sembra andare a segno e Predrag quasi si mette a ridere. Poi si muove nella direzione del bersaglio per andare a riscuotere il bottino e m’invita a seguirlo.

Imbraccio il fucile e muovo qualche passo verso di lui. E’ a una ventina di metri da me, mi avvicino ancora. Dieci metri, anche meno. Prendo la mira all’altezza della schiena, non posso sbagliare. All’improvviso Predrag si volta, forse per assicurarsi che lo stia seguendo.

E il sorriso gli muore in viso. Lo vedo fermarsi, farsi di ghiaccio anche lui. Avanzo ancora, un passo o due, lo tengo sotto tiro sebbene il cuore mi batta nelle vene della gola. Allora mi fermo e respiro profondo per calmarmi un po’.

Predrag all’inizio forse non capisce che quella cosa stia davvero succedendo. Poi scuote la testa e s’inginocchia tremando. Si bagna i pantaloni anche. Gli faccio segno di rialzarsi, ma lui non si muove. Un filo di bava gli scende dal labbro. L’unica cosa che gli riesce di chiedere è: “perché?”

“Per mio padre, Yusuf Hasanovic.” Mi ascolto mentre pronuncio quelle parole. Mi escono come un fiotto di bile. Prendo fiato e aggiungo: “e per tutti quelli che hai massacrato, Pedja. O dovrei dire Sergente Predrag Popović?”

Al sentire come lo sto chiamando, il suo sguardo si dilata. Abbandona il fucile scarico davanti a sé e unisce le mani davanti al petto, come l’altro giorno. Una sorta di preghiera. Punto proprio lì. La mano ormai salda sull’impugnatura del fucile, l’indice sul grilletto.

Guardo l’uomo genuflesso. Il suo desiderio di perdono magari è autentico, ma è tardivo. Il male, le sofferenze, di mio padre, di mia madre e di molti altri, sono presenti come non mai. Aumento la pressione sul grilletto e sento il cane del fucile alzarsi. La tua storia, Pedja, l’hai scritta tu. E io…

Proprio in quel momento si apre un varco tra le nuvole ed un raggio di sole, prima flebile, poi più intenso, rischiara la figura di Predrag. Poi la luce scende sul lago e in qualche secondo si spande sui campi e su tutto ciò che ci circonda. Sento le voci dei paesani nei pressi della chiesa o nei campi, ed un altro stormo di anatre ci sorvola, ma in direzione opposta. Ora la luce investe anche me, mi scalda le dita delle mani e sento l’arma, si è fatta fredda, lontana. Dove prima c’era il ghiaccio, ad un tratto, rivive un verde intenso costellato di macchie rosse e gialle. Papaveri e ginestre. Il disco del sole ora è alto su di noi, come quel giorno quando me ne stavo sulla spiaggia coi surfisti. Nelle orecchie mi torna il fragore delle onde e mi sembra sia l’unica cosa che conti. E’ come una voce che mi racconta qualcosa, che mi ricorda quale sia davvero la mia storia. E, come d’incanto, torno ad essere quella creatura impercettibile nello splendore dell’universo.

Un primo ed un secondo botto esplodono nella piana. Alzo il polso quanto basta per far volare i colpi sopra la testa di Predrag.

*

Lo sguardo è puntato verso la pista su cui si alternano atterraggi e decolli. Sento la voce della speaker e non posso fare a meno di notare il suo accento croato anche ora che annuncia il mio volo. Mi decido: seleziono la voce Yusuf, premo il pulsante e mi metto in attesa.

ll telefono squilla a lungo. Alla fine si fa viva la voce di mio padre. Per quanto distante, è un calmante ad effetto istantaneo.

“Yusuf, mi senti?”

“Edin, sei sparito di nuovo!” Il tono è concitato anche se è notte fonda a Sidney. Non attende che dica qualcosa. “Come stai figliolo?”

“Bene, torno a casa. Prendo l’aereo tra due ore.”

“…”

Ora sono io a non dargli il tempo di parlare: “non c’è motivo di rimanere qui.”

“Cosa vuoi dire? Che ne è stato di Predrag?”

“Predrag non c’è più. Se ne è andato anni fa, sulle montagne del Montenegro.”

“Ne sei sicuro? E il tipo che hai incontrato? Chi è?”

“Non è Predrag. E’ uno, come me o te.”

Socchiudo gli occhi per un secondo infinto. “A presto, papà.”

--

--

Jacopo Giorgi
‘Stella Maris’ di Jacopo Giorgi

Qui scrivo storie. Che poi, stringi stringi, vuol dire parlare di due o tre cose della vita. E magari trovarci un senso.