La caccia (1)
“Respiro ancora una volta l’aria carica di salso, ma la mia mente é già altrove.”
Seduto, le braccia annodate attorno alle ginocchia, osservo le onde innalzarsi sull’Oceano. Si alzano sempre di più rimescolando questa massa sconfinata che solo stamattina pareva così placida. S’inalberano, quasi vivessero di vita propria, per poi lasciarsi lusingare dallo scodinzolare ardito dei surfisti. Un momento dopo si rompono in prossimità della riva, inghiottendo per qualche secondo quelle figurine che avevano tentato di domarle. E il fragore mi ricorda che sono solo una molecola sospesa nel respiro dell’universo.
Ho finito gli esami al college due settimane fa e non ho nessuna voglia di lasciare questa spiaggia, ma tra due ore mi aspetta l’aereo per Sidney. Non fosse stato per quella chiamata di papà, tutto così misterioso, ma insistente anche, me ne sarei rimasto qui nel Queensland qualche altro giorno. Ma tant’è, lui è fatto così. Non sono mai riuscito a dirgli di no in vita mia.
Saluto i due tizi appena conosciuti sulla spiaggia, Angus e Julia, due freakettoni scozzesi venuti a svernare a Brisbane e dintorni. Mi metto la tavola sotto il braccio. Respiro ancora una volta l’aria carica di salso, ma la mia mente é già altrove.
*
Mio padre è puntuale come non mai. Quando lo vedo all’uscita del terminal, mi sta già correndo incontro. Correndo, insomma, si fa per dire, visto che sta su una sedia a rotelle. Yusuf, mio padre. Un tempo, nel 1992 per essere precisi, era stato il tenente Yusuf Hasanovic nelle file all’ Armja, l’esercito della Bosnia Erzegovina che aspirava all’indipendenza. Poi un giorno era stato catturato e sbattuto al Keraterm. Ossia nel campo di concentramento fuori Prijedor, nella Repubblica Serba.
“Yusuf, già qui? Cos’è, sapevi anche che l’aereo sarebbe atterrato in anticipo?”
Lui mi guarda senza neppure fingere un sorriso. Tipico. Nessuna smanceria, solo un colpetto sul braccio: “sono qui da mezz’ora, in caso ne dubitassi.” Il piglio militaresco, beh quello non l’ha mai perso. Piroetta su stesso e inizia a spingere forte sulle ruote verso l’uscita dall’aeroporto. Con la stessa speditezza poi sale in auto, piega la sedia a rotelle e la infila nell’abitacolo. Questo è Yusuf, mio padre, e questo è un saggio del suo inesauribile orgoglio partigiano.
“Tua madre è un po’ stanca, mi sa che stasera se ne va a letto un po’ presto.”
Mi giro per capire il senso di quest’informazione. “Che c’ha? Un’altra delle sue crisi?”
“E chi lo sa?” Stringe forte il volante, sembra volerlo rompere.
Mia madre Lejla, e i lunghi silenzi in cui, sin da quand’ero bambino, l’ho sempre vista prima perdersi e poi spegnersi. No, non sempre, infatti. Ricordo la sua voce intonare le canzoni dell’ex-Jugoslavia mentre cambiava Amira o mentre faceva la pita. Quando vivevamo tutti assieme, con i miei nonni a Hambarine. Se mi concentro la sento ancora ridere il giorno di Bajram. Mi ricordo che anche io avevo voluto fare il digiuno, per dimostrare che non ero tanto piccolo e la mamma e il papà che mi prendevano in giro. E ridevano. Sembra una vita fa. I silenzi di Lejla sono venuti più tardi, così come le crisi di pianto. E’ stato poco prima che quelli della Croce Rossa recuperassero mio padre e lo portassero a Zagabria e poi quelli delle Nazioni Unite ci spedissero dall’altro lato del mondo. Sani e salvi. O se non proprio sani, almeno salvi. Almeno noi tre, perchè della piccola Amira non si è saputo più nulla. Io all’inizio manco lo sapevo cos’era l’Australia. Avevo anche pianto pensando che non avrei più corso dietro alle pecore di mio nonno.
“Che ti posso dire, è un po’ di giorni che va avanti così tua mamma”, risponde Yusuf. Non stacca lo sguardo dalla strada. “La conosci, Edin. Quando va giù è così. Le passerà.”
I clacson delle auto rendono più vivo il silenzio tra noi. Le insegne dei pochi locali aperti la domenica sera si specchiano sul vetro dell’auto. Ci pensa Yusuf a riempire il vuoto.
“Dicevo, Lejla non sta bene. E a casa non c’è nulla di pronto. Meglio se ci fermiamo da qualche parte a prendere un boccone.” S’interrompe portandosi il pollice e l’indice della destra alle labbra. Quando rimette la mano sul volante il tono è più grave. “Ti devo parlare, Edin. E’ importante.”
*
Ci sediamo ad un tavolo vicino alle finestre, da Mike Wong. Una giovane coppia seduta ad un tavolino in un angolo del ristorante sembra cercare una privacy che questo locale non è in grado di garantire. Al bancone un gruppetto di amici beve birra. Aprono dei dolcetti cinesi facendoli schioccare e poi leggono il messaggio a sorpresa. Ad ogni messaggio il gruppo scoppia in una risata fragorosa che scombussola il locale.
Io finisco i miei gamberoni allo zenzero con il riso saltato, mentre Yusuf ha mangiato meno della metà della sua anatra glassata. Ora giochicchia con uno stuzzicadenti, facendolo roteare tra due dita di una mano. So che non sta nella pelle dalla voglia di fumarsi una sigaretta. Ma so altrettanto bene che non lascerà il tavolo prima di dirmi quello che mi deve dire. Che poi è il motivo stesso per cui oggi ci troviamo qui.
“Edin, ti ho mai parlato di un certo Predrag?”
“No papà, non mi pare”. L’ho sempre chiamato Yusuf, come la mamma l’ho sempre chiamata Lejla, per cui mi sorprende di averlo chiamato papà. Ma forse non quanto sorprende lui. Infatti gli ci vogliono un paio di secondi per riprendere il discorso. Poi, quasi preso da un raptus, spezza lo stuzzicadenti e sbotta: “Predrag, o meglio il sergente Predrag Popović, è quel figlio di puttana che mi ha ridotto in questo stato! Lui e quei cetnici bastardi, sono la ragione per cui tua madre non trova pace da vent’anni.”
Prendo in mano il bicchiere e dò un altro sorso alla mia Coca Cola. Vorrei che dicesse qualcosa, che lo facesse alla svelta. Lo fisso.
Yusuf si morde il labbro, tale e tanta è l’enfasi. Una gocciolina rossa si fa largo sulla lacerazione che si procura. Non perde tempo a pulirsi con il tovagliolo, però. “Sono anni che gli sto alle calcagna e ora l’ho scovato.”
Attende ancora qualche secondo, sembra ansimare un po’.
“Predrag ce la deve pagare, Edin.”
Non sono certo di aver capito bene, o forse non voglio capire. Una famiglia entra nel locale: non mi volto, ma sento voci di bambini ed il cameriere che parla coi genitori e li fa accomodare un paio di tavoli più in là.
Yusuf riabbassa lo sguardo che un attimo prima si contorceva infiammandosi e, in maniera più pacata, emana il suo editto. “Io non lo posso fare. Ma tu sì.”
A quel punto mi passo la lingua sul palato, cerco il gusto del cibo o della Coca, qualcosa che mi tenga attaccato a quell’istante, che mi confermi che sono ancora lì. Nonostante tutto, nonostante la richiesta di papà. Ma non sento nessun sapore. Riesco solo a guardarlo, mentre il suo viso si appiana di nuovo e la voce si appiana.
“E’ tornato a vivere a Prijedor. Se n’era andato dopo la guerra.” Accenna un sorriso amaro. “Per lasciare che la situazione si calmasse, sai.” Già l’abbozzo di sorriso è svanito. “Però è tornato, con famiglia e tutto.”
Non so esattamente cosa dire, per cui butto lì una domanda qualsiasi: “e tu questo come lo sai?”
Tengo entrambe le mani sul tavolo, i palmi tastano il liscio della tovaglia.
“Non ha importanza. Quel che conta è che sappiamo dove si trovi. Cosa fa.” Tira un sospirone: “ce l’abbiamo in pugno, Edin.”
“Yusuf, cosa mi stai chiedendo di fare?” la mia voce è arrochita, irriconoscibile.
“Che ti chiedo? Edin, non ci sarà fine alla nostra pena finché Predrag è in giro.”
Alla fine tira fuori sigarette e accendino. Poi chiede il conto.
Io fatico ad alzarmi sulle gambe, ma so che devo seguirlo. Uscendo, inquadro la famiglia appena arrivata, gli amici ancora seduti al bancone e la coppia che si bacia quasi di soppiatto. Va tutto bene, mi dico.
*
Quando si vive ‘down under’, dall’altra parte del mondo, ogni posto finisce per essere lontano. E infatti mi ci vogliono ventidue ore di volo e tre scali per tornare lì dove il mio viaggio è cominciato.
Alla stazione di Zagabria avvisto una panetteria e mi dico che dovrei comprarmi qualcosa da mangiare per il viaggio in treno. Al bancone vedo diverse pita. Chiedo un paio di striscette con il formaggio e altre due con gli spinaci. Poi mi dirigo al binario masticando: buone, ma nulla a che vedere con quelle di Lejla. Alla fine mi ritrovo in uno scompartimento vuoto che sa un po’ di muffa. Scosto di poco la tendina, c’è un sole miracoloso che sfida i freddi e le piogge dell’autunno balcanico. Mi basta quel pensiero per sentirmi, per la prima volta da che sono partito, davvero dall’altro lato del mondo. In quella luce inattesa, cerco qualcosa di molto sedimentato nell’esistenza della mia famiglia. Poi mi lascio cullare dal leggero scuotimento del treno. Sento le palpebre farsi di piombo.
Nel dormiveglia sento il treno che procede a velocità ridotta. Tento di aprire un occhio: c’è una piana sconfinata, interrotta di tanto in tanto da qualche macchia di betulle. L’odore un po’ pungente non mi è nuovo. E’ quello della Krajna dopo la pioggia. Lo stesso che devo aver sentito quel giorno a Hambarine. E, come in un’immagine febbrile, sono di nuovo lì. Le esplosioni e gli spari. Le voci pesanti dei soldati, qualche risata grassa e poi urla e pianti. Mia madre che corre fuori dalla porta sul retro con la piccola Amira in braccio. Io che la cerco, le cerco. Attimi, minuti infiniti. Ancora la voce di un militare, un ordine credo. Attorno qualche raffica di mitra, quel suono metallico e ripetuto. Una pausa e poi si ripete. Sono perso, non trovo più il nonno, la nonna, la mamma. Infine la vedo che mi viene incontro. Mio nonno la sorregge. La riabbraccio, e quasi mi aggrappo a lei per fare in modo che non vada più via. E solo lì che mi accorgo che la piccola non c’è, che non è più con noi. “Amira!” grido.
Quando davvero riapro gli occhi il cielo si è oscurato e la luce si è fatta più obliqua. I binari sfrecciano a fianco di un bosco di frassini. Non si vede anima viva, ma la macchia verde sembra volermi dire qualcosa. Tendo l’orecchio, ma la voce del controllore mi riporta al qui e ora: “Biglietto prego.”
Lo trovo nella tasca del mio zaino, dentro al taccuino dove ho scritto tutte le indicazioni di Yusuf, e glielo mostro senza proferire parola. Mi parla lui, però, da sotto la visiera del cappello, mentre buca il cartoncino che gli ho dato. Sono parole veloci, come uno sgocciolio d’acqua piovana. “Dopo il fiume c’è Dubica. Poi Prijedor.”
Il mio aspetto e l’abbronzatura fuori stagione mi devono identificare come uno straniero. Infatti il controllore aggiunge in inglese: “lì, dopo il fiume, c’è la frontiera. Prepari il passaporto.”
La foschia avvolge il fiume Una. Di qua e di là del ponte delle torce fendono il buio che avanza. E’ un viaggio a ritroso verso un tempo che avevo seppellito.