La promessa
“Si chiese quanto sola si sentisse lei, nonostante Dio l’amasse e lei amasse Lui più di tutto”
Jamila entrò nel tendone multicolore e si guardò attorno con l’aria di chi si ritrova in un sogno. Anche quel giorno le donne del posto, chiazze multicolori nell’aria densa del pomeriggio, se ne stavano accoccolate sul fondo di stuoie che erano state distese nell’ombra umida. Quasi tutte Fur, qualcuna Zhagawa, forse un paio di Masalit. Erano sette anni che visitava periodicamente quel villaggio ai piedi del Jebel Marra. Ormai le conosceva bene e aveva imparato a distinguere i tratti delle loro tribù. E l’ora che trascorrevano assieme, lontano dagli uomini, dal fuoco, dal cucinare e da tutto quel che aveva portato o tolto loro la guerra era ormai una pratica assodata. Una terapia, ne era certa. Dopo aver visitato i nuovi pozzi d’acqua, i canali in via di completamento e aver stilato il rapporto sulle “attività generatrici di reddito”, Jamila le ritrovava lì, intente a cogliere qualunque parola uscisse dalle sue labbra, le teste avvolte negli scialli che di tanto in tanto scivolavano di qua o di là lasciando scoprire capelli crespi e colli scuri. Non sembravano curarsene, però, a differenza di lei, sempre attenta a far sì che l’hijab rimanesse ben annodato attorno al viso.
“The village”, disse Jamila indicando il disegno abbozzato su una lavagna che pareva incipriata, tanta era la polvere che la ricopriva.
“The village”, ripeterono le ascoltatrici all’unisono.
“The houses.”
“The houses.”
Jamila spostò il dito verso l’estremità della lastra scura dove aveva abbozzato le sagome di una serie di quadrupedi.
“The camels and the goats.”
Mentre l’eco corale le tornava indietro, sollevò con l’indice l’archetto tra le lenti degli occhiali e incrociò lo sguardo di una giovane che teneva in braccio un bimbo di pochi mesi. La madre prendeva appunti su un pezzo di carta spiegazzato appoggiato a terra e, sentendosi forse osservata, sorrise con la spontaneità delle donne di là. E Jamila, la ragazza di Khartoum, non poté non ricambiare prima di soffermarsi per un secondo sugli occhi del piccolo. Sembravano fluttuanti nel vuoto. Invece erano occhi che si posavano per la prima volta sulle cose del mondo. Occhi, pensò, che sapevano davvero guardare al futuro.
Poi un cinguettio dal fondo dello zainetto la richiamò al presente. Un messaggio. Significava che era tornata la connessione, ma per lei poteva voler dire molto di più. Si affrettò a rovistare nella borsa e, infatti, avvistò il display illuminato su quel +36 seguito da una sfilza di altri numeri. Non vi erano dubbi. D’altronde, negli ultimi anni, quello era divenuto l’unico segno tangibile di Ahmed, l’unica conferma che, in qualche modo, lui fosse ancora nella sua vita. Inspirò ed espirò un paio di volte, poi alzò la vista dalla borsa per ritrovare le donne concentrate su ogni minima piega del suo viso. Per la prima volta si sentì nuda davanti a loro. Respirò ancora e salivò la bocca prima di riprendere a parlare.
Salutate le donne alla fine della lezione, andò a riprendere il cellulare e si allontanò dalla tenda. La pioggia era scesa copiosa nell’ultimo mese e la terra rossastra si era trasformata in una fanghiglia densa. Con passo misurato Jamila andò ad appartarsi sotto un’acacia e, con la stessa trepidazione con cui una bambina avrebbe scartato una caramella, aprì il messaggio e lesse.
- Allora, ho trovato il volo Budapest-Ginevra, diretto.
Jamila sentì le dita appena sudate sul vetro del cellulare.
- Alhamdulillah. E quando arrivi?
La risposta non si fece attendere.
- Il 10 agosto, insh’allah. E’ la settimana del tuo corso, vero?
- Esatto… Tu conosci Ginevra?
- No, per nulla.
- E allora come facciamo a incontrarci?
- Mi devo informare… ti manderò qualche indicazione.
Jamila rimase a fissare lo schermo, come chiedendosi se ci fosse dell’altro. E un attimo dopo, come a comando, apparve un nuovo messaggio.
-Ricordati di portare un borsone vuoto.
Rivolse lo sguardo verso il monte non lontano e, senza neppure rendersene conto, iniziò a scandire una preghiera. Il sole ancora alto fendeva le nuvole, un uccello solitario si cimentava in ampi cerchi appena sopra la linea dell’orizzonte. Jamila l’osservò a lungo, incurante del sudore che le imperlava la fronte e, quasi cullata dal suono che producevano le parole dell’orazione, fu rapita da un ricordo.
Erano anni che Ahmed andava dicendo che avrebbe lasciato il Sudan, l’aveva ripetuto fino al momento in cui aveva deciso di andarsene davvero, portandosi dietro anche suo fratello peraltro. E così aveva fatto anche quella sera, quando si erano visti fuori dalla porta di casa dei suoi genitori. Ahmed l’aveva raggiunta al termine di una serata con gli amici. Avevano commentato l’ennesimo massacro in Darfur. Le loro voci erano poco più che un bisbiglio nell’oscurità.
“Credi che in questo paese si tornerà a vivere in pace?” aveva chiesto Jamila.
“Certo che lo credo.”
In realtà Ahmed non sembrava aver fatto caso alla domanda e lei l’aveva incalzato: “ma per te non sarebbe comunque abbastanza, vero?”
Al che Ahmed aveva tirato fuori le sigarette dalla tasca di dietro dei jeans.
“Non è questo, Jamila. Anch’io voglio che le cose cambino qui, ma…”
Se n’era portata una alla bocca, dopo averla lisciata un po’, e se l’era accesa. La brace era un puntino che a tratti rischiarava appena le sue labbra.
“Ma?”
“Hai presente quando ti guardi intorno e pensi che il mondo sia altrove?” Ahmed aveva buttato fuori la prima boccata di fumo. “Che la vita sia qualcos’altro?”
Jamila aveva avuto l’impressione che Ahmed si fosse messo a fumare per coprire l’alito che sapeva di alcool. Se così era, non era riuscito nel suo intento. E comunque non capiva dove se lo procurasse. Soprattutto come potesse convivere con l’idea del peccato, come se per lui non valesse.
“Non dovresti fumare, lo sai.”
Jamila scorse appena il sorriso di Ahmed nella penombra.
“Perché, ora è haram anche questo?”
“Non ti fa bene.” Aveva atteso un attimo prima di aggiungere “e neanche bere ti fa bene, se è per questo.”
“Perché devo sentirmi giudicato? In nome di cosa…?”
Il ricordo di quel dialogo svaporò così com’era arrivato e il riflesso del sole costrinse Jamila ad abbassare gli occhi ben sotto la cima del Jebel Marra. La voce di Ahmed si era dissolta nel nulla, e la preghiera che aveva iniziato a recitare le era morta tra le labbra. Diresse lo sguardo verso terra e notò come la negritudine dei suoi piedi racchiusi in sandali semplici fosse coperta qui e lì del fango rossastro che aveva tentato di schivare e che già andava asciugandosi formando delle piccole crepe sulla pelle. Sembrava solcata, proprio come quella terra rossa. Quella terra così sacra, come solo la vita può essere.
*
Dopo l’annuncio del personale di bordo Jamila guardò fuori dal finestrino. L’aereo si tuffò nella cortina soffice che si stendeva sotto al velivolo a perdita d’occhio e iniziò a nuotare in quel mare lattiginoso finché non sbucò dall’altra parte, sopra a un panorama chiazzato di verde e azzurro.
“Prima volta a Ginevra?”
Fino a quel momento la signora alla sua destra non aveva nemmeno tentato una conversazione, sebbene avessero trascorso tre ore e passa l’una a fianco all’altra, da che erano decollate a Istanbul. Jamila la guardò meglio. Era di un pallore insolito, quasi diafana sotto i neon della cabina, e magra, quasi scavata sulle guance, appena coperte dalla mascherina. Portava un abito sobrio, grigio scuro sopra una t-shirt nera. Nessun gioiello. Solo un paio di occhiali dalla montatura spessa. Fino a quel punto Jamila aveva preferito non misurarsi con tutta quell’austerità. Ora, però, non poteva esimersi.
“Sì, prima volta.”
Si guardarono attraverso i rispettivi occhiali per qualche frazione di secondo e continuarono a parlare senza abbassare le mascherine.
“Tempi insoliti per viaggiare, almeno che non si debba.”
Jamila notò che aveva un forte accento francese.
”Viene a Ginevra per lavoro o per piacere?”
“Diciamo una via di mezzo.” Poi, come riprendendo coraggio, “sono qui per lavoro. Già che ci sono approfitto per visitare la città…”
La donna la studiò un po’.
“Ma sono qui anche per altro. Diciamo soprattutto.”
Jamila sentì la voce strozzarsi e preferì tornare a guardare fuori dall’oblò.
Era una bellissima giornata di sole e ora il lago era ben visibile. Se si faceva bene attenzione si distinguevano le imbarcazioni. Aveva letto che un fiume, di cui non ricordava il nome, defluiva dal lago verso la Francia. La vista, però, cominciò ad appannarsi e il gusto amaro del ricordo le riempì la bocca. In un attimo tornò a una sera di qualche anno prima. Anche lì l’acqua scorreva.
Jamila aveva dato appuntamento ad Ahmed alla congiunzione del Nilo Bianco e del Nilo azzurro, dopo il lavoro. Lo aveva trovato seduto lì che fumava una shisha con lo sguardo puntato sui pescatori che tiravano in secca le barche. Dopo che si erano salutati, si era seduta su una sedia di plastica accanto a quella di lui, rivolgendosi anche lei verso il fiume.
“Bello qui, era tanto che non ci venivo.”
Jamila aveva pronunciato quelle parole lisciandosi la sottana e aveva sentito tutta la tensione nelle gambe sotto i palmi delle mani.
“Guarda come scorre…” Aveva detto Ahmed. Così, senza aggiungere altro, e il gorgoglio della shisha aveva fatto una specie di eco.
Jamila si era girata per tentare di capire dove volesse andare a parare.
“Mi sono sempre sentito molto più parte di questo fiume che di questa terra.”
Lo sguardo di Ahmed era come sospeso, quasi vedesse qualcosa che a lei non era dato comprendere.
“Te ne andrai, vero?”
L’amico aveva tirato un po’ su col naso. Poi si era voltato verso di lei.
“Devi promettermi una cosa.”
*
Dall’aeroporto di Cointrin all’hotel ci volle meno di mezzora in taxi. Jamila aveva trovato un posto non lontano dalla zona commerciale che si sviluppava attorno alla Ronde de Rive. L’aveva scelto accuratamente, consultandosi anche con dei colleghi che erano stati a Ginevra prima di lei. Quando fu nella stanza, la prima cosa che sentì fu il tram che passava. E appena il rumore cessò tutta la stanchezza del viaggio le scese addosso.
Notò il bollitore su un comodino e, dopo averlo riempito dal lavabo in bagno, scaldò l’acqua per prepararsi un té. Attese che la bustina di Darjeeling andasse in infusione facendo un po’ di stretching, quindi accese la televisione. Una speaker della CNN annunciava l’aumento delle morti causate dal virus nel mondo. A quanto pareva, non sarebbe stata un’estate come le altre, né in America né in Europa. Senza quasi accorgersene, Jamila mise su un mezzo sorriso doloroso mordendosi un po’ il labbro. Poi diede un clic deciso sul pulsante di spegnimento del telecomando.
Togliendosi il foulard che ancora le copriva il capo, buttò un’occhiata al materasso, ma resistette alla tentazione di abbandonarvisi. Prese invece un paio di sorsi dalla sua tazza e cominciò a disfare la valigia. Tirò fuori gli abiti uno per uno e li appese sulle grucce o li ripose nei cassetti dell’armadio a tre ante che copriva buona parte di una parete. Quindi, dal fondo della valigia, emerse la borsa scura e vuota: la guardò per un attimo pensando all’appuntamento al lago quella sera, al fatto che non sapeva se avrebbe trovato le parole o il coraggio necessario.
Tornò in bagno per i lavaggi di rito, distese con cura il sajjāda e studiò la posizione della stanza prima di andare a collocarlo. Fu allora che si rese conto di non aver ancora aperto la tenda della finestra che dava sulla strada. Era da poco passato mezzogiorno e una gran quantità di gente faceva su e giù per la via. Jamila si sorprese a fissare con una certa invidia le loro espressioni. Sembravano prive di qualunque tormento. Per loro il virus sembrava non esistere.
Tornò al tappetino, lo srotolò e, rimanendo in piedi, si mise a braccia conserte, con le mani che coprivano gli avambracci sopra l’addome. Chiuse gli occhi.
“Allah Ahbar. Bismillah-ir-Rahman-ir-Rahim…”
A poco a poco, sentì che un po’ di pace tornava dentro di lei.
Si piegò in posizione prona, allineando cuore e testa, prima d’inginocchiarsi.
*
Quando, qualche ora più tardi, le porte dell’ascensore si aprirono davanti a lei, alcuni turisti nord-europei se ne stavano seduti sui divani della reception, immobili, un po’ lontani gli uni da gli altri, ciascuno con la propria mascherina indosso. Dietro al bancone un giovane commesso parlava al telefono con una compagnia di taxi e, come ebbe finito la chiamata, le rivolse un sorriso.
“Come posso aiutarla?”
Jamila sostava di fronte a lui, stringendo la borsa con entrambe le mani, incerta su come porre la sua domanda.
“Mi scusi, mi sa dire come arrivare in Rue des Eaux Vives 104?” chiese infine.
Il commesso non capiva.
“Vuole anche lei un taxi?”
“Mi pare che sia piuttosto vicino.”
Notò di nuovo lo sguardo di esitazione sul volto del giovane.
“Cerca un posto in particolare?”
Jamila ebbe l’impressione che i turisti dietro di lei stessero ascoltando la loro conversazione.
“Sto cercando il Centro Islamico. Come ci si arriva?”
Il ragazzo le sorrise di nuovo, ma con maggior contegno, prima di darle le indicazioni del caso.
Jamila ringraziò. Stava per uscire dall’albergo quando si ricordò di dover chiedere dell’altro: “e il faro di Paquis? Quello è lontano?”
“E’ dal lato opposto del lago, signorina. Ma non le sarà difficile trovarlo.”
“Devo essere lì appena dopo il tramonto.”
Il commesso guardò l’orologio dietro la sua postazione. Le sei del pomeriggio.
“Non si preoccupi.”
Il percorso a piedi era davvero breve e, trovandosi nei paraggi del Centro Islamico con una buona ora di anticipo sulla preghiera della sera, pensò di fare un giro nel vicino Parc Lagrange. Faceva un gran caldo e gli alberi secolari offrivano riparo dalla luce forte, ma non dall’umidità che pareva provenire dal bacino d’acqua a meno di duecento metri. Jamila si diresse allora verso il caffè che aveva intravisto poco oltre il cancello d’entrata e che sembrava l’unico punto di ristoro lì attorno. Comprò una Coca Zero, la stappò e diede una gran sorsata. Il freddo della bevanda che scendeva nel corpo le comunicò un sollievo immediato. Fece per cercare posto sotto uno degli ombrelloni della terrasse e, all’improvviso, l’avvistò. La donna che aveva conosciuto in aereo sedeva sola a un tavolino. Davanti a lei a una tazzina di caffè ormai vuota.
“Buongiorno.”
La signora si girò e corrugò la fronte più che altro per la sorpresa.
“Buongiorno, signorina. Che sorpresa… Non pensavo di rivederla. Non così presto.”
Jamila chiese di sedersi con un gesto del capo. Non ci fu bisogno di una risposta.
“L’ho vista un po’ provata stamattina” fece la donna. “Spero di non aver…”
Jamila scosse la testa. “Faccio fatica a dare spiegazioni, tutto qui.”
“Non ha bisogno di dare spiegazioni, sa?”
Jamila rimase a guardarla, in attesa di un cenno, di un indizio.
“La sua sofferenza parla da sé. E’ questo che intendo. E poi le cose al mondo accadono e basta, mi creda.”
Jamila ebbe un sussulto, quasi impercettibile: “io non la vedo così. Ho un credo, ho Dio, e mi dà forza…”
“Mi fa piacere per lei. Purtroppo non ha mai funzionato per me.”
“Cosa vuol dire?” chiese Jamila.
“Ogni volta che ho affrontato un dolore, beh, l’ho dovuto fare da sola.”
Un alito di vento si portò via la bustina di zucchero vuota che la signora aveva poggiato vicino alla tazzina.
“Forse questo mi ha resa più forte” continuò la donna, “ma non meno sola.”
Jamila la guardò ancora. Si chiese quanto sola si sentisse lei, nonostante Dio l’amasse e lei amasse Lui più di tutto.
Il Centro Islamico era un edificio a due piani affacciato sulla Rue des Eaux Vives. Pochi uomini in jallabah sostavano nei pressi dell’entrata. Uno, in particolare, un anziano con un rosario in mano, la scrutava come per capire le sue intenzioni. Jamila sostava sul lato opposto della strada, come sospesa sul ciglio del marciapiede. In quel momento preciso, dal fondo della via, vide un autobus in arrivo. La fermata era a qualche decina di metri. Ebbe un secondo di esitazione, poi prese la rincorsa. Un attimo dopo era a bordo. Guardò la strada di fronte a sé e poggiò di fianco a sé la borsa vuota.
*
Scese alla stazione dei treni, dopodiché consultò Google map e si addentrò nelle vie del quartiere di Paquis fino a raggiungere Place de la Navigation. Jamila si guardò intorno. Una ragazza seduta su una panchina accarezzava un grosso cane dal pelo lungo e bianco ridendo al telefono con qualcuno. Un tipo appoggiato al bordo di una fontana la squadrava finendo il suo cono gelato. Poco più in là, sotto un albero decorato con degli strani lavori a maglia, un ragazzo di colore con le treccine alla Marley dava occhiate di soppiatto a chiunque gli passasse vicino. Jamila verificò ancora una volta il percorso suggerito dal cellulare e puntò dritto dinnanzi a sé. In fondo alla via pedonale che partiva dalla piazza s’intravvedeva uno spicchio azzurro, che immaginò essere il lago. Accelerò il passo fino ad arrivare al tratto in cui, sulla mappa online, la Quai du Mont Blanc sembrava incunearsi nel Leman, salvo poi sterzare per trasformarsi in Quai Wilson. Attese il verde al semaforo e attraversò la strada, diretta verso un’area affollata da alcuni crocchi di persone. Chi in piedi, chi seduto, tutti bevevano birre o drink colorati da bicchieri di plastica. Appena oltre, da sinistra a destra si stendeva lo specchio d’acqua, quasi abbracciato dalle due rive su cui si ergeva la città. Ruotò sulle Nike bianche per passare in rivista tutto quel che la circondava sul lungolago. C’erano i classici tipi da spiaggia, ma anche famiglie a spasso tra le giostrine e i chioschetti le cui lucine tornavano ad accendersi per la sera. C’era un gruppo di sauditi che le ricordarono quel pezzo d’infanzia che aveva trascorso a Jeddah. E poi c’erano gli skater che se la spassavano facendo lo slalom tra bambini, donne in nihab e ragazzotti tatuati che parevano aver atteso quel momento per tutto l’inverno.
Jamila si fece largo tra una babele di lingue fino a raggiungere il tornello d’accesso alla Jetée dei bagni di Paquis, la lunga striscia di cemento e ghiaia che portava verso il centro lago. Superò un ponticello e, con le sirene di un autoscontri che trillavano alle sue spalle, s’incamminò verso la zona più popolata del molo. Il Leman era una tavola argentata appena crespa. Per sentire il rumore delle onde che sbattevano contro il frangiflutti, però, dovette raggiungere il punto più a sud, quasi di fronte al grande getto d’acqua che veniva su dal versante di Eaux Vives, proprio lì dove un faro s’illuminava.
Gli ultimi bagnanti arrotolavano i loro asciugamani. Su uno scoglio una coppia solitaria si consumava in un abbraccio. Ricontrollò il messaggio sul cellulare: le indicazioni corrispondevano. Quello era il posto dell’appuntamento. Stese lo sguardo verso il monte che delimitava l’orizzonte, per predisporsi a pregare, ma il ricordo di un altro tramonto si fece vivo portandola altrove.
Il sole stava andando a sedersi dietro alla bouganville nel giardino dietro casa infiammando i suoi fiori rosa, la prima cosa su cui si poggiavano gli occhi di Jamila la mattina, l’ultima visione che il mondo le regalava, giorno per giorno. E lì, quel +36 e qualcosa, si era fatto vivo, proprio come era successo per la prima volta qualche mese prima.
“Jamila…”
“Ahmed! Co… come stai?”
“Sto bene.”
“Sei… sei sparito!”
Al che aveva fissato il display come a volte si fissa il rubinetto della doccia sperando venga giù almeno qualche goccia.
“Lo so” fu la sola risposta di lui.
“Quando eri in Turchia, in Grecia, chiamavi sempre… do-dove sei ora?”
Il tremolio nella voce tradiva tutta la sua preoccupazione.
“Sempre a Budapest, Jamila.”
“Ancora a Budapest? Ma non dovevi andare in Svizzera?”
“Sì, ma poi…”
“Poi, cosa? Ahmed…”
Dall’altro capo era arrivato solo un sospiro lacerato.
“Quanto rimarrai ancora lì?”
“Jamila, come te lo spiego? …non si passa. Dobbiamo rimanere qui, ho fatto domanda d’asilo.”
“In Ungheria? Anche Yousef?”
“Certo, certo… è con me.”
Jamila aveva provato a cercare le parole per smussare l’imbarazzo di Ahmed, ma non le era venuto in mente nulla, per cui se n’era uscita con una domanda qualunque: “e come si vive lì?”
“E’… non so, ci guardano strano.”
“In che senso?”
“In tutti i sensi.”
Di nuovo, aveva atteso invano, prima di rilanciare.
“Ahmed, la libertà è quel che ha sempre contato di più per te.”
“Hai ragione…”
“Non ti è mai interessato quel che pensavano gli altri.”
La conversazione non era durata molto. Ahmed aveva raschiato qualche altra parola dalla gola tentando di sembrare un po’ più ottimista. Poi era calato uno strano silenzio. La pianta e i fiori là fuori, il cielo e il mondo intero si erano tinti del blu dell’ora in cui anche le speranze vanno a spegnersi.
Uno scalpiccio, un passo che si avvicinava, la chiamò fuori da quel ricordo. Si voltò per dirigere lo sguardo verso la città alle sue spalle. E lì incontrò la figura di Ahmed. O meglio, di colui che, da sempre, gli assomigliava come una goccia d’acqua.
“Salam aleikoum, Jamila.”
Riusciva a malapena a deglutire, ma si fece forza: “aleikoum Salam, Yousef.”
“Eccoci qui” disse lui, “alla fine ce l’abbiamo fatta.” Una frase così, quasi Yousef avvertisse il bisogno di Jamila di rifiatare.
Lo guardò meglio. La prima volta che aveva incontrato il fratello gemello di Ahmed, l’aveva lasciata senza parole E quella somiglianza, anche dopo tanti anni, continuava a colpirla.
Yousef poggiò a terra il contenitore che reggeva sotto un braccio con un gesto pieno di cautela.
“Non c’è stato altro modo” disse tornando a guardarla per un momento.
“Me l’hai detto.”
“Gli ungheresi si sono inventati qualunque scusa…”
“Lo so, Yousef.”
Ma lui continuò: “…non ci sono posti nei cimiteri, non avete l’autorizzazione, il vostro permesso di soggiorno… scuse su scuse.”
C’era tanta rabbia in quelle parole e Jamila non osò tornare a parlare.
“Anche il funerale è stato difficile. Non volevano che lavassimo il corpo, abbiamo dovuto aspettare. Anche avvolgerlo nel lenzuolo, non si poteva, dicevano che solo il personale medico poteva maneggiarlo. Dio solo sa cos’altro. Per cui, alla fine…”
Fino a quel punto aveva puntato gli occhi sulla riva opposta, verso quel getto d’acqua scintillante di luce. Si girò di scatto verso di lei: “credimi, io non volevo.”
Senza dire nulla, Jamila raccolse la teca dove Ahmed, o quel che restava del suo corpo, era contenuto. Lo trovò molto meno pesante di quanto si aspettasse.
“Ma tu puoi riportarlo a casa.”
Jamila si chinò per prendere il borsone che aveva portato.
“Nella nostra terra, perché possa finalmente riposare” aggiunse Yousef.
Jamila stava per aprire la zip, ma al sentire quelle parole s’interruppe. Alzò lo sguardo per incontrare quello di Yousef. Gli occhi di lui trattenevano a stento le lacrime e Jamila avrebbe voluto poggiargli una mano sulla spalla.
“Ahmed non apparteneva a nessuno. E forse nemmeno a questa terra.”
Jamila diresse lo sguardo verso i flutti. Fece qualche passo, prima di mettere un piede su uno scoglio. Poi con un mezzo balzello, attenta a non far cadere la teca, scese più in basso. L’acqua le bagnò la punta dei piedi. La sentì calda tra le dita.
“Che fai?” provò a chiedere Yousef.
Jamila si voltò ancora: Yousef ora piangeva come un bambino. Tolse il coperchio al contenitore e l’inclinò facendo scivolare in acqua buona parte delle ceneri. Subito giunse una piccola onda e le disperse. Jamila fece un altro passo in avanti e l’acqua le salì fino alla coscia inzuppandole i jeans. Prima di appoggiarla su una roccia, vuotò quel che rimaneva nell’urna. Allora s’immerse ancora di più, un passo dopo l’altro. E come sentì l’acqua che le riempiva le orecchie chiuse gli occhi per sparire appena sotto la superficie. Rimase lì istanti infiniti, ascoltando solo il proprio respiro e il suono delle onde. Sembravano sussurrare una parola, come un’eco infinita. Dicevano: “pace, pace… pace…”
Quando riemerse, spalancò gli occhi e puntò lo sguardo verso l’alto.
Il cielo di quella sera di fine estate era pieno di stelle.
“And sometimes we make promises we never mean to keep.”
The Promise, Arcadia.