Luci di un dolce altrove

Jacopo Giorgi
‘Stella Maris’ di Jacopo Giorgi
14 min readJul 10, 2019
Hiroshima. Festival dell’Obon.

Nell’aria fresca delle prime ore del giorno avvistai una libellula. La prima cosa che notai furono le sue ali, come si muovevano rapide nel riverbero di quella luce lieve. Poi, quasi senza accorgermene, mi misi a inseguirla finché ad un certo punto non la vidi posarsi su una ringhiera. Mi tolsi il cappellino e lo tenni stretto tra le mani per catturarla. Era perfettamente immobile, tanto che il mio sguardo finì per inquadrare un particolare che non avevo mai notato prima di allora in quegli insetti. Aveva delle striature bluastre che correvano su quelle sue ali allungate e semitrasparenti. Ricordo che mi fecero pensare ai petali di un fiore raro.

Eccola, è come se l’avessi ancora davanti agli occhi quell’immagine. D’altronde fu l’ultima cosa che vidi prima che tutto intorno a me si volatilizzasse: i ponti sul fiume Kyobashi-gawa, gli alberi di ciliegio, il portantino e il suo risciò, la bancarella degli yakisoba. La scuola che frequentavo, le vie in cui ero solito giocare in quell’estate del 1945.

In altre parole, il mondo intero. Almeno per come poteva conoscerlo allora un bambino di Hiroshima.

*

Non ero mai stato un fanatico d’Oriente, un mistico a buon mercato o uno ammalato di esotismo. Ma avevo bisogno di nuove motivazioni. O semplicemente di emozioni, come mi dicevano alcuni. Fu così che, quell’estate, mi trovai a girare per quel paese, gentile e suadente, alla ricerca davvero non so bene di cosa. In quindici giorni avevo visto Tokyo, il monte Fuji, poi Nara e Kyoto. Avevo anche fatto una puntatina a Hokkaido. Templi buddisti e santuari shinto. Tutti belli, credo. Ogni tanto c’era anche stata qualche chiacchierata con altri turisti solitari, prima di rintanarmi, come sempre, nella sicurezza deserta della mia stanza d’albergo. I giorni si erano alternati a notti lunghe, fatte di un buio denso e informe, popolate di ticchettii sconosciuti, fruscii di futon, ma soprattutto dei tonfi della mia anima. Poi quotidianamente il mondo era tornato a palesarsi, uguale a se stesso. Così fino ad una sera ad Osaka, poco prima della data del volo di rientro. Avevo acceso il televisore, pur sapendo che non avrei capito una parola e l’avevo sintonizzato su un canale a caso. Ero andato a fare una doccia e quando ero tornato mi ero accorto che in stanza regnava il silenzio. Alla TV c’era solo una folla muta, riunita ad ascoltare i rintocchi di una campana. Un reportage della commemorazione del 6 agosto. Il silenzio prolungava l’eco di quel suono metallico. All’infinito.

Il mattino dopo, senza rifletterci troppo, cambiai la data del volo. Non potevo tornare. Non prima di essere stato ad Hiroshima. Non prima di aver sentito quella campana.

Arrivai a Hiroshima la mattina presto con uno Shinkansen. L’aria era già calda e da qualche giardino non lontano arrivava il suono delle cicale. Mi passai il pollice e l’indice della mano destra sulle palpebre, come per prepararmi. Poi mi misi in marcia. Seguii le indicazioni che portavano al Museo della Pace e, percorso un vialetto lungo il fiume e superate le rovine del mausoleo, mi ritrovai all’inizio di una grande spianata. Mi accorsi di avere la campana alle spalle solo quando fui richiamato dai suoi rintocchi. Allora mi voltai e venni investito da un tripudio di ikebana e trecce colorate. Scendevano da tre archi acuti sormontati dalla statua raffigurante una bambina in procinto di spiccare il volo. Aguzzai lo sguardo. Le trecce erano in realtà uccelli di carta di diverse tinte tenuti insieme da un filo. Una leggera brezza li smosse, i colori si mescolarono ed io, per un istante, vacillai con loro.

“Mi scusi, si sente bene?”

Mi girai di soprassalto e inquadrai un anziano con indosso una yukata.

“Lei sembra cercare qualcuno.” Pronunciava il tutto in un inglese un po’ meccanico, ma ciò che davvero mi colpì furono i suoi occhi, come appoggiati su di me.

“Cosa glielo fa pensare?” chiesi facendo un mezzo passo indietro.

Lui non disse nulla. Rimanemmo a guardarci per qualche secondo.

All’improvviso sentii il sudore che mi veniva giù dalla fronte. Avrei voluto asciugarla, ma l’intensità del suo sguardo m’impediva di fare la benché minima mossa.

“Non dobbiamo vergognarci di quel che sentiamo” riprese.

“E lei che ne sa?”

L’anziano volse lo sguardo verso la statua inghirlandata e annuì in silenzio. Quindi, con fare ieratico, inclinò il viso da un lato socchiudendo gli occhi.

“Il dolore a volte va accolto dentro di noi. Se è pietra a farci male, dobbiamo trasformarci in acqua. Se è l’assenza a torturarci, lasciamo che ci riempia.”

Tornò a osservarmi, con la stessa pienezza con cui l’aveva fatto prima.

“Mi segua, voglio raccontarle una storia.”

*

A Hiroshima in quei giorni regnava una quiete surreale. Erano giorni infiniti in cui mi aggiravo in bicicletta nella solitudine del quartiere. Molti bambini, in previsione dei bombardamenti, erano stati evacuati. I più grandicelli no, però. Quelli erano stati mobilitati per creare delle vie di fuga antincendio su tutto il reticolato urbano. Io ero uno degli ultimi bambini della mia età ancora nei paraggi. Quando sentivo il ronzio di un aereo mi fermavo e, con le mani strette sul manubrio, alzavo lo sguardo. La prima cosa che mi colpiva era sempre il brillio della fusoliera. Poi l’occhio andava alla cabina. Tentavo d’intravedere il pilota, come per capire se davvero volesse ucciderci tutti.

Quasi tutte le grandi città del Giappone erano state bombardate. Per qualche strana ragione, fino ad allora, Hiroshima era stata risparmiata. Alcuni dicevano che non eravamo abbastanza importanti. Secondo mia madre, invece, se eravamo stati risparmiati, lo dovevamo ai nostri antenati che avevano protetto la città. Per questo, quando non si dedicava alle faccende di casa, bruciava un incenso dopo l’altro.

Mio padre, però, era di tutt’altro avviso. Così una sera a cena mi comunicò che era arrivato il momento: “domattina, Toshi, andrai a stare da tua nonna” disse prendendo con le bacchette un po’ di riso e umeboshi. Era tutto quel che ancora ci restava da mangiare per via dei razionamenti.

Non mi era permesso ribattere a mio padre, ma era la prima volta che i miei mi dicevano di allontanarmi da casa.

“Per quanto tempo?” osai chiedere.

“Per il tempo che sarà necessario.”

Disse solo questo, masticando piano, con lo sguardo rivolto alla ciotola.

Finii per passare il resto dell’estate da mia nonna, sulle colline che si alzavano lontano dalla città. Lì, grazie a quello che coltivavamo, il cibo non mancava e la guerra sembrava poco più che una fantasia. Non avevo la mia bicicletta, ma potevo correre nei campi fino a tarda sera. E quando rientravo la nonna mi faceva trovare dei dolci alla marmellata di azuki. Pensavo spesso ai miei genitori, ai miei compagni di classe, alla maestra. Più di tutti, però, mi mancava Sadako, la figlia dei nostri vicini. Sadako era più piccola di me, ma io non avevo fratelli o sorelle e neppure lei, per cui ero sempre stato un po’ il suo fratello più grande.

Andavo spesso a casa sua. Mi piaceva stare lì. Sua mamma era la mia insegnante di shakuhachi. Non ero particolarmente dotato, ma sia io che Sadako adoravamo ascoltarla suonare. Il nostro brano preferito era Tsuru no sugomori, il nido della gru. Lei prendeva il flauto, appoggiava le labbra su quel becco di bambù e faceva partire la musica. E noi non dovevamo fare altro che lasciare che quelle note ci entrassero dentro, lente, come la terra che s’imbeve d’acqua.

Poi, per tenerci occupati nei pomeriggi più caldi, la mamma di Sadako, ci insegnava a fare gli origami. Eravamo noi a scegliere la carta decorata per lei.

“Fallo rosso questa volta” dicevo io.

“No, blu! lo voglio blu” ribatteva Sadako.

Avevamo richieste di ogni genere, a dire il vero.

“Voglio vedere come fai la stella mamma!” chiedeva ancora Sadako.

E la mamma si adoperava, sembrava incapace di perdere la pazienza.

“No, non così.” Sadako sapeva essere molto esigente: “come l’altra volta, quando sembrava un fiore!” Apriva le manine per far vedere un fiore che sboccia.

Sua mamma sorrideva e si metteva al lavoro per esaudire ogni desiderio.

Poi, un giorno, Sadako disse: “oggi, mamma, fammi una gru.”

“Una gru? E cosa ne sai tu delle gru?” le aveva chiesto sua madre.

“So che le gru sanno volare.” Lo aveva detto così, con l’innocenza di una bambina che mette insieme idee disparate e anche quella volta fece un gesto con le mani, come disegnando un volo verso la finestra. “Magari possono portare via tutte le cose che ci fanno male o ci fanno paura.”

E per un attimo mi era parso che potesse davvero essere così. Che le gru potessero alzarsi dal nido, levarsi in cielo e magari cambiare i pensieri dei piloti.

Una mattina mi svegliai presto per il caldo. Mi guardai intorno e vidi che la nonna dormiva ancora. Fui tentato di rimettermi a dormire, ma non riuscii a riprendere sonno e allora mi dissi che forse sarei potuto uscire a giocare un po’. Di sicuro al mio rientro avrei trovato la nonna sveglia e la mia scodella di misoshiru pronta.

Tutto faceva presagire un’altra giornata afosa. Il cielo sui campi era un po’ velato e l’aria sembrava bloccata. Era stato allora che avevo avvistato la libellula; l’avevo inseguita a lungo, finché non si era fermata ad un passo da me. I primi raggi di sole mi avevano mostrato tutti i colori del mattino, tanto che mi aveva ricordato gli origami della mamma di Sadako. Se riuscivo a prendere quell’insetto, pensai, magari l’avrei potuto portare a Hiroshima e mostrarlo alla mia amichetta.

Poi, d’un tratto, tutto sparì.

Una luce bianca, feroce, s’impadronì di ogni cosa e il mio sguardo cercò riparo da quella cosa per istanti infiniti. Quando riuscii a riaprire gli occhi, vidi un’enorme palla di fuoco, una specie di nuovo sole, che era comparso come dal nulla tra le nubi. Solo allora le mie orecchie percepirono quel rombo. Non avevo mai sentito niente di così forte. Non capivo cosa fosse, ma sapevo che avrebbe cambiato il senso di tutto.

Quando la luce si spense i colori del mondo erano stati spazzati via.

*

Le parole di Toshi mi avevano messo a disagio. Tuttavia ero stato catturato dal modo con cui mi si era rivolto. Era calmo, e usava lo sguardo per creare un amalgama cui non era dato sottrarsi. Una sorta di bagno balsamico in cui mi ritrovai immerso nel bel mezzo di quella giornata. Mi guardai attorno: anche quel giorno, forse come settant’anni prima, l’aria era pesante, ma i bambini non avevano più motivo di temere il passaggio degli aerei. Li guardavo giocare in quello spiazzo, appena sotto le ghirlande di fiori e origami che ornavano la statua. E più mi perdevo in quella visione, più fluttuavo in quella pace senza tempo. Non so se erano state le parole di quell’uomo, ma per la prima volta dall’incidente, mi sembrava che il dolore si fosse placato.

Erano passati tre anni, a dire il vero. Eppure Ana la vedevo ancora, ovunque, qualunque cosa facessi. Mi appariva all’improvviso, dietro un angolo o riflessa in una vetrina del centro. A volte mi pioveva addosso tra le note di una canzone, o spuntava in mezzo agli alberi di quel parco che frequentavamo nelle domeniche d’inverno, nella speranza di ritrovarvi i colori che erano spariti con la fine dell’estate. Ana se n’era andata una sera sull’asfalto bagnato di una curva a gomito. Che il dolore mi avrebbe fatto a pezzi lo avevo capito subito. Che la sua scomparsa significasse l’inizio di una perenne stagione d’assenza, però, ancora stentavo ad accettarlo.

Tornai a guardare Toshi. Lo feci quasi di sottecchi, senza ruotare il collo, cercando di non farmi notare. Era passato solo un minuto, ma lo trovai già cambiato. L’uomo in yukata seduto a fianco a me aveva perso l’aura di sacralità che gli avevo cucito addosso qualche istante prima. Si asciugava i palmi delle mani sul tessuto grezzo della tunica e respirava più veloce. Pensai che, in fondo, era solo un anziano, debole e traumatizzato da memorie indelebili.

*

Anni dopo, mentre mi preparavo ad andare all’università, Sadako si ammalò. Mia madre me lo disse al rientro da scuola con quella sua voce fioca con cui l’avevo sempre sentita parlare. Anche quel giorno presi la mia bicicletta e pedalai forte come sperando che andando veloce sarei riuscito a mutare il corso delle cose. Arrivato in ospedale non sapevo ancora cosa avrei detto. Mi avviai verso la sua stanzetta rimestando le mille cose che avevo pensato in quel breve tragitto, ma al trovarla vestita in quel camicione bianco da ammalata, non riuscii a spiccicare parola.

Bastò che Sadako alzasse lo sguardo e mi accogliesse con il suo sorriso per capire che non ci sarebbe stato bisogno di nessuna frase speciale.

“Hai visto, Toshi? Mi sono ammalata. Ma le gru si stanno prendendo cura di me.”

“Le gru…” Fu come raschiare le parole fuori dalla gola. Non mi riuscì di finire la frase.

“Sì” disse lei, facendo scorrere lo sguardo tra me ed un foglietto di carta che teneva tra le mani. “Se arriverò a farne mille, guarirò.”

Stava finendo un origami, lo stava piegando come aveva imparato da sua madre. Mi accorsi che in grembo ne aveva un’altra mezza dozzina. Tutte gru, tutte di colori diversi.

“Ti ricordi cosa dicevamo allora? Se continuiamo a sognare torneremo a vivere.”

Forse non erano semplici foglietti di carta, mi dissi. Erano sogni. I suoi sogni.

Il gonfiore che le era apparso sul collo nei giorni precedenti il suo ricovero non lasciava spazio a dubbi: presto le fu diagnosticata una leucemia.

Sadako continuò a produrre centinaia di gru colorate, l’una dopo l’altra. Sembrava che, con quel suo gesto, volesse dimostrare al mondo la sua volontà di non arrendersi. Alla fine dell’estate, però, le sue condizioni di salute si deteriorarono.

Giunse quindi il momento in cui non era più in grado di continuare la sua opera.

Il giorno in cui la notizia della morte di Sadako raggiunse casa mia decisi di andare ancora una volta in ospedale. Una volta di più stentavo ad accettare la realtà. Sul letto, nella sua stanzetta, regnava ancora il bianco livido dei giorni precedenti. Solo lei non c’era. E io mi attendevo che, da un momento all’altro, il silenzio e il vuoto di quella stanza venissero rimpiazzati dalla voce di Sadako e dai colori dei suoi origami.

Mi ci volle poco. Fu come quando si sente il ghiaccio scricchiolare all’apparire del primo sole di primavera. Iniziai ad ansimare. Poi sentii che le gambe cedevano e dovetti trovare un posto dove sedermi prima di cadere. All’improvviso tutto s’iniettò di un rosso sangue, come quel giorno di dieci anni prima. La silhouette di una bambina vestita solo di un camicione d’ospedale sparì assorbita nella luce proiettata da una palla infuocata che si alzava in cielo. La bambina alzava le braccia facendole ondulare prima piano, poi con più forza, mimando un battito d’ali, come per librarsi più in alto. Come anni prima, fui costretto a chiudere gli occhi per proteggermi dalla luce insostenibile. Quando li riaprii, ritrovai quel letto vuoto ed immerso nell’assenza di qualunque colore.

Trascorsi i giorni successivi solo con me stesso tentando di capire perché tutto l’ardore poetico che aveva animato la mia amica avesse dovuto spegnersi in un freddo eterno vuoto. Ripensai a quel letto sfatto, al bianco gelido che lo avvolgeva. Accostavo quell’immagine alle gru colorate che avrebbero dovuto portare in salvo Sadako, ma non riuscivo a trovare un appiglio.

Poi, quasi senza rifletterci, l’errore mi fu evidente. Ricordo che quasi sorrisi di me stesso. Tentare di dare una spiegazione al divenire delle cose era un atto contro natura. Fu così che trovai conforto nell’idea che la morte di Sadako non significava la sua dipartita e che, infatti, la morte in generale non era il contrario della vita. Ne era parte integrante.

Non solo. Mi fu anche chiaro che il testimone era stato passato.

Così presi anch’io a fabbricare gru di carta, giorno dopo giorno, così come avevo visto fare da sua madre e poi da Sadako. Quelle piccole creature, quasi impalpabili al tatto, prendevano vita nelle mie mani come pervase da una forza che già esisteva nella carta. Non ero io a dare a loro una forma. Erano i sogni di Sadako.

*

A quel punto Toshi fece una pausa. Anzi, smise proprio di parlare. Il suo racconto era finito, ma per qualche ragione sembrava attendersi qualcosa, che so, una mia reazione. Io alzai le spalle. Avevo ascoltato con attenzione, sì, ma non avevo nulla da dire.

“Lei non arriva a comprendermi vero?” mi chiese corrugando leggermente la fronte. “Mi guarda come se provasse pena nei miei confronti. La sua reazione è naturale, lo sa? Ho capito subito che lei era stato legato in maniera forte a qualcuno che non c’è più. Avendo provato quel dolore io stesso, so come ci si può sentire di fronte a uno sconosciuto che ci viene a dire certe cose. Ma sento anche che qualcosa sta facendo breccia in lei.”

Riempì l’addome per poi sgonfiarlo poco dopo. Poi, con lo stesso tono pacato con cui mi aveva avvicinato, fece una proposta.

“Senta, questa sera c’è la festa dell’Obon. Vuole venire alla celebrazione?”

Quel pomeriggio richiusi la porta della mia stanza pronto a lasciarmi cadere sul letto a peso morto. Cominciai a svuotare le tasche, come ogni sera. Il telefono mi proponeva Sonic Youth e Beck su Spotify. Lo ignorai per andare a cercare il brano di cui aveva parlato Toshi, quello di sua madre. Accesi l’aria condizionata e mi misi in ascolto. Finendo di svuotare le tasche trovai anche un foglietto per origami che Toshi mi aveva consegnato piegato. Lo aprii. Riportava in una calligrafia perfetta il suo indirizzo di casa e alcune indicazioni su come arrivarci. Guardai fuori la luce del giorno che si scoloriva accompagnata dal brano tradizionale che avevo selezionato sul telefono. Il suono emesso da quella canna di bambù mi predispose a una quiete inaspettata. Non era più uno strumento, era una voce, un richiamo.

Durante il breve tragitto sul trenino locale il mio stato di rapimento non sembrava cessare. Presi un trenino che, dal centro di Hiroshima, mi condusse lungo la costa fino all’attracco dei battelli per Miyajima. Una volta sceso controllai di nuovo le indicazioni di Toshi. Seguii un passeggio fiancheggiato da salici piangenti lungo gli argini in pietra di un ruscelletto. Si era anche alzata una brezza leggera e io assaporai con ogni parte del mio corpo il sollievo dal caldo umido di quella giornata. La vegetazione sopra di me frusciava accompagnando i miei passi. Le luci delle case si accendevano una dopo l’altra, mentre, tra i rami, iniziavano ad intravedersi le prime stelle.

Trovai Toshi seduto davanti a casa, nella postura tipica che ho sempre ammirato negli orientali, capaci di piegarsi sulle ginocchia senza sedersi a terra. Come mi vide, balzò in piedi e mi salutò con un mezzo inchino prima di stringere la mia mano tra le sue. Un gesto non molto orientale, pensai. Forse l’aveva imparato scimmiottandolo da noi occidentali. Non mi diede il tempo di farci troppo caso, però. Mi fece subito strada verso un punto dove i salici si diradavano ed il corso d’acqua si apriva in un bacino dalla forma irregolare. Oltre un ponte in legno laccato spiccava il profilo rosso di una pagoda a due ordini su cui iniziava ad arrampicarsi la luna.

Toshi mi passò una sorta d’involto di carta ripiegata in più punti e tenuta insieme da un cordoncino. Mi parve che, una volta slacciato, potesse andare a formare una qualche struttura. Mi fece cenno di aprirla chiedendomi d’imitare i suoi gesti. Le mie mani si mossero un po’ goffe mentre seguivo i suoi movimenti. Poi la carta cominciò ad assumere una sagoma quadrangolare e infine ne venne fuori il paralume di una lanterna, più o meno uguale a quella che aveva montato Toshi. Tirò fuori un paio di pennarelli e di nuovo mi disse d’imitarlo. Così lo guardai scrivere, degli ideogrammi o dei caratteri giapponesi, probabilmente un messaggio, sempre nella sua perfetta calligrafia.

“Metta per iscritto il suo desiderio più profondo” disse spalancando gli occhi. “Lo affidi agli spiriti di coloro che non ci sono più.”

“Perché?” chiesi solo.

“Un auspicio, una preghiera. Se la fa sentire a suo agio, lo prenda come un semplice atto liberatorio.”

Lo guardai nei suoi occhi neri e mi parvero più vivi che mai. Esitai ancora un secondo, ma neppure questa volta seppi dire di no.

Presi la lanterna e, su di un lato, mi ritrovai a scrivere queste parole.

“Ana, l’acqua sotto questo ponte è la mia vita: scorre, libera dal mio volere. Io sono la terra che calpesto perché qui sono nato ed è qui che mi è dato vivere, mentre tu sei il fuoco che ha illuminato mio passaggio su questa terra, che ha scaldato la mia anima. Ma se per te ora è giunto il momento di librarti nell’aria, ti prego allora, vai.”

Toshi prese la lanterna dalle mie mani e l’accese. L’agganciò ad un bastone col quale la poggiò sull’acqua per poi lasciarla andare. La vidi fluttuare unendosi a tutte quelle che altri avevano calato nel ruscello. Le luci andavano a formare un caleidoscopio in cui il rosso del fuoco che aveva incendiato Hiroshima quel giorno lontano si fondeva con il verde degli alberi che erano cresciuti nei mesi successivi e con il blu del cielo di un’estate che poteva sembrare eterna.

Vidi una donna dall’aspetto familiare girarsi verso di me. Per un istante ebbi l’impressione che mi stesse sorridendo. Teneva per mano una ragazzina vestita solo di un camicione. Le vesti di entrambe erano bianche, ma assunsero mille colori prima di coprirsi di un piumaggio argentato. Le loro braccia si fecero ali, s’aprirono e si sollevarono dolcemente. Le guardai finché lo sguardo me lo permise.

Poi si persero in una notte di stelle e lanterne.

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Jacopo Giorgi
‘Stella Maris’ di Jacopo Giorgi

Qui scrivo storie. Che poi, stringi stringi, vuol dire parlare di due o tre cose della vita. E magari trovarci un senso.