Manuela Pacella
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3 min readMay 16, 2015

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Displacements. The Trouble With Being Human These Days

di Francesca Ragone

Displacements. The Trouble With Being Human These Days, 2015. Installation View. Ex Elettrofonica, Rome. Photo: M3 Studio, Rome.

La galleria Ex Elettrofonica ha ospitato (sino al 13 maggio 2015) una mostra collettiva di artisti di varie nazionalità accomunati dalla medesima dimensione del viaggio: l’irlandese Ursula Burke (1974), la romena Iulia Ghita (1986), il danese Nikolaj Bendix Skyum Larsen (1971), l’italiano Diego Marcon (1985) e l’ungherese Timea Oravecz (1975).

Sembra necessario specificare, seppur brevemente, qualche tratto esperienziale di ognuno degli artisti, cominciando dall’irlandese Ursula Burke la quale nasce e cresce nella Repubblica d’Irlanda, la parte del paese a maggioranza cattolica e si ritrova a un certo punto a trasferirsi nell’Irlanda del Nord, a maggioranza protestante, dove attualmente vive e lavora: un luogo storicamente e socialmente molto difficile, che ancora oggi, sin dalla seconda metà del 1600, è continuamente minacciato da atti terroristici di gruppi paramilitari, sia cattolici sia protestanti, con conseguenti risposte repressive da parte delle forze di sicurezza inglesi e la morte di molti civili. Va da sé che il “viaggio” della Burke sperimenta territori duri che vanno oltre l’esperienza personale identitaria dell’artista, abbracciando la storia di quei luoghi intrisi di “perversioni” religiose pronte a esplodere. Come in effetti accade. Eppure quello d’Irlanda è anche territorio di visionari, di gnomi e di fate, dove le verdissime spianate immobili vengono cavalcate da gigantesche nuvole sovrastate da un cielo quasi sempre tetro e pesante, che d’improvviso si apre per poi — quasi subito — richiudersi. Ursula Burke utilizza la scultura, la fotografia e la porcellana, un materiale — quest’ultimo — tradizionalmente inglese.

In effetti questa collettiva ha avuto il merito di ricordare alcuni eventi della storia umana — se nella storia si crede — più vecchi e attualissimi, non “coi” ma “entro” i quali l’uomo si misura ancora oggi, sconfinando naturalmente in orografie territoriali ed esistenziali dove ogni sensibilità sceglie un luogo (non necessariamente quello d’origine) da abitare e raccontare. Ecco che allora Timea Oravecz, originaria di Budapest, ci racconta attraverso le opere i suoi innumerevoli viaggi di studio nell’Europa del trattato di Maastricht, tra Berlino e Venezia. In mostra, oltre ai visti di viaggio timbrati all’entrata e all’uscita dell’Ungheria, l’artista ha realizzato un’istallazione al centro della sala composta come una valigia piena di cose inutili.

Il danese Skyum Larsen, con i suoi lavori sui flussi migratori, tocca l’emergenza del mediterraneo e non solo. L’artista ha esposto una scultura, che fa parte di una serie di sculture del mare per la maggior parte esposte — attualmente — a Istanbul, e alcuni fogli di rame di piccolo formato incisi con le parole dei migranti che raccontano il loro viaggio. La terribile sensazione che si ha osservando la scultura realizzata con sacchi di iuta induriti dalla sabbia e trattati con altri collanti — di origine naturale e non — è quella di ritrovarsi in riva al mare a guardare dei cadaveri.

I due artisti più giovani e quasi coetanei, Iulia Ghita e Diego Marcon, sembrano avere una relazione più diretta con lo spazio della galleria: l’una realizzando un disegno a matita direttamente su una delle pareti della galleria, che rappresenta una tavola con alcuni commensali; l’altro con una video-installazione in cui compaiono gradualmente alcuni oggetti (una tenda, una sedia, un uomo) che pongono la questione della centralità dell’esperienza umana — attraverso l’immaginazione — rispetto alla realtà. Entrambi utilizzano effetti sonori localizzati: Ghita frantuma il Tavolo del silenzio (Brancusi, 1937–38) con il verso metallico di uno stormo di corvi, creando nel suo spazio una dimensione ansiogena; Marcon ci de-responsabilizza parzialmente esprimendo un commento come nota a margine del suo video, forse per non lasciare che la pigrizia verso un esercizio concettuale del pensiero, che quest’opera impone, sopravvenga.

Ex Elettrofonica — Vicolo Sant’Onofrio, 10–11

www.exelettrofonica.com

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