Non possiamo non dirci stoici …

Antonio Gallo
Lo Stoico del terzo millennio
7 min readMay 18, 2021
Foto@angallo

Lo stoicismo è l’unica filosofia possibile oggi: concreta, nobile, al di là dei dualismi. Una specie di aristocrazia del pensiero. Dialogo con Giuseppe Raciti.

Come tutti i maestri autentici, Epitteto non scriveva: l’insegnamento non può stare nella spirale dei paragrafi, tra il veleno dei verbi, perché le parole coltivano il fraintendimento, tendono a variare un sussurro in legge, l’istante in norma. Piuttosto, è un segno il fatto che Arriano abbia raccolto, con l’acribia del discepolo, i testi di Epitteto — il Manuale e le Diatribe — e scritto una delle più imponenti biografie di Alessandro Magno: pur abitando vite contrarie, una stessa aristocrazia definisce l’opera del sapiente e l’azione del guerriero, uno stesso fuoco freddo, dilatato, blu. Celato in una nebulosa biografica, Epitteto vive tra I e II secolo, nasce a Ierapoli, schiavo, poi liberato da chi ne deteneva la proprietà, un ricco segretario di Nerone. La leggenda lo vuole zoppo, in grado di sbriciolare il dolore in gloria; non si sposa, non ha figli, vive in nobile candore — solo chi ha, può indossare la rinuncia –, apre una scuola a Nicopoli. Pare che il futuro imperatore Adriano fosse affascinato dai suoi insegnamenti: ad ogni modo, così Marguerite Yourcenar — con la sua scrittura sprezzante, stoica, pia — immagina il loro incontro. “Ero andato a visitare il vecchio Epitteto nel suo tugurio alla Suburra, pochi giorni prima che Domiziano lo esiliasse. L’antico schiavo, al quale un padrone brutale anni prima aveva spezzato una gamba senza riuscire a strappargli un lamento, il fragile vecchio che sopportava paziente i lunghi tormenti dei calcoli renali, m’era sembrato in possesso d’una libertà quasi sovrumana. Avevo contemplato con ammirazione quelle grucce, quel pagliericcio, quella lampada di terracotta, il mestolo di legno nella ciotola di creta, gli utensili semplici di una vita pura. Ma Epitteto rinunciava a troppe cose, e ben presto m’ero reso conto che, per me, nulla era più insidiosamente grato della rinuncia. L’indiano, più logico, ricusava addirittura la vita”.

Epitteto non insegnava a espropriarsi da sé, esponendosi a estasi fameliche, ma a capire che nulla ci è proprio, e che è appropriato, semmai, accettare, accogliendo la tassonomia del fato. I suoi detti, ineccepibili come cristalli, risolti in una logica al contempo violenta e regale, hanno trapassato i secoli: è stato Leopardi, nella straordinaria traduzione dell’Enchiridion, nel 1825, a fare di Epitteto il primo dei moderni, il filosofo adatto, da comodino. Scriveva, Leopardi, che la filosofia di Epitteto gli pareva “più delle altre profittevole nell’uso della vita umana”, concentrata sull’unica felicità possibile, “rinunciare, per così dir, alla felicità, ed astenersi quanto è possibile dalla fuga dal suo contrario… cioè non curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice”. La lingua che Leopardi inventa per Epitteto è bella, sferica, risoluta, metallica: “Tu non déi cercare che le cose procedano a modo tuo, ma voler che elle vadano così come fanno, e bene starà”. C’è quasi una fatalità taoista — ma priva di foga tra i contrari — in questi aforismi, che sgorgano sgargianti. A partire dalla riproposta di quella traduzione, prima pietra del neo-stoicismo (Aragno, 2021), Giuseppe Raciti — già autore della nuova edizione del Tramonto dell’Occidente di Spengler, per Aragno — compila uno studio, che termina con una domanda-risposta da boxeur tanto radicale — “È forse possibile, oggi, un’altra filosofia, cioè un’altra esperienza della materia? Credo di no. Parafrasando Croce, non possiamo non dirci stoici” — che ho insistito per interpellarlo.

Scrive, al termine del suo ragionamento, nella postfazione del libro, «non possiamo non dirci stoici». Cosa significa?

Le antitesi che da secoli e secoli contrassegnano il nostro modo di pensare — anima/corpo, spirito/materia, mente/cervello, software/hardware ecc. — e in genere i modi di ragionare che procedono per dicotomie, per coppie prefabbricate, ci sono diventati indigesti. Occorre un antidoto. Gli stoici ne hanno uno a portata di mano: basta pensare all’anima come a un corpo, alla mente come a un corpo e così via. Se, poniamo, spirito e materia sono corpi: diversi, certo, ma sempre corpi, l’antitesi svapora. Siamo liberi. La parafrasi del detto crociano allude, ironicamente, a questo senso di libertà. Anzitutto libertà dal cristianesimo e dal suo impianto dicotomico. Inoltre, le antitesi sono facili. Semplificano la vita, ma bloccano il pensiero. Ragionare sui gradi di diversità tra due corpi è più complicato che fissare da un lato il corpo e dall’altro il suo opposto, cioè l’anima. In fondo, si tratta di restituire al ragionamento la sua dignità. Ragionare non è facile. In un certo senso, è un fare contro natura; di sicuro è un fare impopolare.

Che rapporto c’è tra lo stoicismo e la prassi politica? Epitteto, a differenza di Seneca, non si cura di scrivere libri né di ragionare sul governo, semmai sul governare se stessi.

C’è una parentela stretta tra Epitteto e Seneca. Musonio Rufo è a un tempo discepolo di Seneca e maestro di Epitteto. Sicché non può esserci troppa differenza tra il governo di uno stato e quello di se stessi. Il nesso c’è e va dissotterrato. Concetto Marchesi disse una volta che Seneca è stato il vero direttore della politica imperiale al tempo di Nerone. In altri termini, Seneca ha governato la più complessa realtà politica del mondo antico. Ma nei suoi scritti, come nei ragionamenti di Epitteto tramandati da Arriano, si insiste sopra tutto su un concetto: il governo degli altri passa attraverso il governo di sé. Questo è anche il titolo, appena variato, dell’ultimo corso accademico di Michel Foucault. Questo grande pensatore francese ha capito meglio di chiunque altro il senso dello stoicismo: governare se stessi è il frutto della disciplina etica e questo è il presupposto del governo degli altri. Non si tratta, tuttavia, di eticizzare la politica; questo è precisamente l’approdo della più alta riflessione liberale (e penso di nuovo a Croce); si tratta invece — è questo il nodo stoico da sciogliere — di strappare alla politica il primato dell’azione per restituirlo all’etica. Se ne cava un bel paradosso: l’atto è solo etico, la politica non agisce. Nel Novecento è stato Robert Musil a ripensare l’etica in questi termini.

Che rapporto ha lo stoicismo con il ‘mercato’, con l’economia, con il denaro?

Il rapporto è strettissimo. Lo stoicismo è una vera e propria filosofia del denaro. Il ruvido Spengler ha scritto che i Romani diventavano cristiani quando non potevano permettersi un maestro stoico. Era un problema di soldi. Al centro della scena c’è di nuovo Seneca. Tacito allude alle sue ricchezze favolose. E su questo patrimonio grava l’ombra dell’usura. Paul Veyne la racconta in modo diverso: Seneca è stato il primo a fondare un istituto di credito. Ma il pensiero del Cordovano trova questa sintesi: è cosa lodevole maneggiare il vasellame d’argilla come fosse d’argento; ma è altrettanto lodevole maneggiare il vasellame d’argento come fosse d’argilla. E conclude: solo i deboli non sono capaci di reggere la ricchezza. La stessa forza impiegata a governare il corpo agisce sulla ricchezza. Chi vive nel lusso non “regge” il denaro, vi soccombe.

In quali autori (al di là di Leopardi) vediamo in filigrana il pensiero di Epitteto?

Il 1825, l’anno in cui Leopardi porta a termine la sua straordinaria versione del Manuale, è per me il simbolico atto di nascita dello “stoicismo europeo”. Prima ho fatto cenno a Musil, a Foucault, ma bisogna parlare anzitutto di Nietzsche, che dagli stoici eredita il suo concetto più radicale: l’eterno ritorno delle stesse cose. Anche l’attenzione nicciana alle prescrizioni dietetiche viene dagli stoici. La Logique du sens, il testo più importante di Deleuze, è una riflessione sulla logica stoica. La sfuggente aforistica jüngeriana tradisce la medesima origine. Ma torniamo rapidamente a Leopardi. La sua versione del Manuale è un testo fondativo: non una semplice traduzione, ma una reinvenzione di Epitteto. C’è il Manuale di Arriano, che seguiva le lezioni del maestro a Nicopoli, e c’è il Manuale di Leopardi, che riplasma i dettami stoici per la modernità. Il Preambolo del volgarizzatore illustra questo programma nel modo più conseguente.

Che cosa ci insegna lo stoicismo di Epitteto rispetto al corpo, all’anima, al loro legame?

Dell’anima tace. Preferisce parlare di hêgemonikon, cioè del principio direttivo. L’hêgemonikon traccia il perimetro delle tue potenzialità. Se non lo conosci, se non lo misuri con precisione, la tua vita sarà una catena di fallimenti.Del corpo dice: puoi farne quello che vuoi, tanto non è tuo. Al di là della battuta, la questione è seria. L’insistenza stoica sulla morte, cioè sulla perdita del corpo, contiene una critica radicale del concetto di proprietà. Si perde il corpo come un qualsiasi patrimonio. La rinuncia al possesso del corpo è con ciò il presupposto della critica della proprietà. Se rinunci al possesso del corpo, rinunci a ogni altra proprietà, perché il nostro irresistibile istinto al possesso nasce dall’illusione che il corpo ci appartenga. Qui Epitteto dimostra la sua affinità con Seneca: corpo e denaro, carne e patrimonio, sono di qualcun altro, bisogna pertanto governarli, “reggerli”, come se non ci appartenessero. Nel Manuale c’è quest’altra immagine: abita il mondo come se fosse una locanda, la mobilia e il resto non ti appartengono, ma tu abbine cura. Governo senza proprietà, ecco la formula stoica del benessere.

Cosa direbbe Epitteto di fronte a fenomeni come la cancel culture, il ‘terrorismo dei benpensanti’, l’era del dominio della statistica, del numero, del controllo?

Se qualcuno t’insulta, suggerisce Epitteto, non ti devi difendere, ma devi dire: grazie per aver citato solo una minima parte dei difetti che mi affliggono. Jünger riprende il concetto in questi termini: tu e il tuo avversario tirate la fune da estremità opposte, se invece molli la presa, lui stramazza.

Infine: che cos’è la felicità?

Se lo chiede a me la risposta è ovvia: non ne ho idea. Se lo chiede a Epitteto lui risponde: felicità è rinuncia all’idea e alla prassi della proprietà.

Davide Brullo — L’Intellettuale Dissidente

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Antonio Gallo
Lo Stoico del terzo millennio

Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.