Irene, un’attrice in sala

Silvano Fantini
Storie di Bobbio
Published in
3 min readApr 2, 2017

Una storia d’oggi tra il Trebbia e il trebbiano

Una storia d’oggi, quella di Irene, una come ce ne sono tante, eppure unica. Ci accorgiamo di lei per il piglio con cui s’impone alla nostra attenzione. Deve raccogliere le ordinazioni da trasmettere alla cucina. È svelta, di proporzioni minute, conciliante e decisa, sembra che abbia fatto questo mestiere da sempre. Io e il mio amico ci scambiamo uno sguardo: perché non lei? ci diciamo con gli occhi. Non sarà facile, sospiriamo all’unisono. Si destreggia attorno alla nostra tavolata mentre noi cerchiamo di immaginare con quali parole potremo convincerla del nostro progetto.

Abbiamo bisogno di lei per una cosa importante, le diciamo infine. Non c’è modo di farle un discorso coerente, ma tra una portata e l’altra snoccioliamo la nostra proposta. Un’intervista. Qualche foto. La nostra esercitazione. Rientra in cucina dubbiosa, ma quando ne esce sembra divertita. Il mio amico ed io ci strizziamo l’occhio. È fatta!
Aspettiamo che siano andati via tutti, quindi cominciamo a farle qualche foto mentre sparecchia, nel frattempo le spieghiamo meglio le nostre intenzioni. Prime domande improvvisate e prime risposte carpite al volo.

Non è di qui, viene da Sesto San Giovanni, a Bobbio c’è venuta per coltivare le vigne. Siamo stupiti. Come sarebbe? Sono arrivata un anno fa, con una mia amica, eravamo decise a reinventarci la vita, a ricominciare daccapo. Abbiamo preso in affitto delle vigne e ci siamo messe a lavorare duro. Thelma e Luise, ci viene in mente. Due donne coraggiose, estroverse, decise a non farsi mettere sotto da nessuno. Poi la sua amica si è arresa, troppe difficoltà: gli animali che si mangiavano tutto, la terra che rendeva poco, una certa carenza di investimenti. E poi da sole. Ci sono cose che una donna, da sola, non ce la fa… Ci vorrebbe un uomo, azzardo. Lei sorride, un sorriso così bello e dolce che in altri tempi mi avrebbe fatto sciogliere come un cero. Eh, magari, sospira.

Spunta la padrona, qualche spiegazione gliela dobbiamo dare, dopotutto stiamo rallentando il lavoro di una sua dipendente. Le chiediamo di fare qualche foto anche in cucina. Per ambientare la scena, le diciamo. Lei acconsente, vuole aiutarci, ma ci rendiamo conto che intorno a noi ferve il lavoro e stiamo dando fastidio. Meglio se ci togliamo dai piedi. Avvisiamo Irene che l’aspettiamo fuori: abbiamo ancora molte domande da farle.

Quando ci raggiunge avverte: non ha molto tempo, proprio oggi sono venuti a trovarla i suoi genitori, l’aspettano a casa e lei non può proprio permettersi di trascurarli. Le promettiamo che faremo presto, prestissimo. Ci concede il tempo di una sigaretta. Ma è un fiume in piena. È come se, aperta una diga, l’acqua fluisse dolcemente, senza sforzo, verso valle. Così ci racconta di sé, come si fa tra vecchi amici che non si vedono da tempo.

A Milano stava con un musicista, lei faceva teatro, andavano d’accordo, ma lui non l’ha voluta seguire nella sua avventura. Le manca? Sì, ma non troppo, le dispiace di più non essere riuscita a portare avanti il suo progetto. Ma non si arrende. Adesso fa la cameriera e lavora anche come dipendente presso un viticoltore del luogo. Il suo sogno è soltanto rimandato. Da un po’ il mozzicone di sigaretta giace spento nel posacenere. Lei se ne accorge. È tardissimo dice, devo scappare, ma non sembra dispiaciuta per il tempo perso. Ci chiede i nostri nomi, ci abbracciamo. È già a metà del viale quando le faccio un’ultima domanda: cosa farai se non riuscirai a fare la vignaiola? Non hai un sogno di riserva? Vorrei fare il pagliaccio, dice.

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