Il Leccio dei Cappuccini a Montevarchi
Il Castellare di Montevarchi era l’antico castello che dominava quello che oggi conosciamo come il Colle de “i Cappuccini”, ancora oggi sovrastante l’estensione cittadina.
Venne costruito dai marchesi Bourbon del Monte Santa Maria -casata medioevale tra le più importanti della Toscana, in seguito fra le famiglie aristocratiche più importanti del principato mediceo- in un periodo indicativo che va tra il 1014 e il 1027, all’interno del Marchesato di Ranieri. L’idea nacque proprio dal fratello di questo, il Vescovo di Arezzo Elemperto, e dalla sua volontà di trasformare il Monastero della Ginestra in ospedale per pellegrini e viandanti che percorrevano queste terre, in direzione Roma.
Ad oggi tutto quel che rimane proprio del monastero di Sant’Angelo alla Ginestra è la chiesa di Santa Croce: prima struttura intitolata proprio alla figura dell’Arcangelo San Michele in tutta la diocesi di Arezzo, costruita tra il 615 ed il 620.
Con la trasformazione del Monastero, erano necessarie strutture dedite all’accoglienza che garantissero spazi di sicurezza in un tragitto, al tempo, piuttosto selvaggio ed incolto, ed il Castello di Leona (che dominava in altura la via che da Roma portava a Firenze, situato in zona Levane) risultava troppo distante per il controllo della zona, seppur il più vicino in linea d’aria precedentemente alla fondazione del Castellare.
La struttura abitativa pensata ed instaurata dai Bourbon sul cosiddetto Poggio di Cennano, però, non aveva fatto i conti con la struttura effettiva del terreno: una gigantesca massa arenaria conseguenza del progressivo prosciugamento di un lago pliocenico in età preistorica, geomorfologicamente instabile e quindi tanto impraticabile da iniziare a franare sotto il primo nucleo del borgo circostante il Castellare. Fu così che le prime famiglie montevarchine scesero a valle, stabilizzandosi in quella che era la zona destinata al mercato locale.
Parte dell’antico borgo fu così destinato a franare, e con lui le mura protettive, che lo resero chiaramente vulnerabile sotto tutti i punti di vista: quando Firenze prese il controllo del feudo di Montevarchi, infatti, decise di spostare fortificazioni e protezioni a valle, nel nuovo borgo, dove ancora oggi è possibile riconoscerne (grazie principalmente a testimonianza toponomastica) l’antico collegamento con il Colle dei Cappuccini (e quindi il Castellare).
Si tratta dell’attuale Vicolo del Guicciardo, chiamato così perché posizionato laddove esisteva quell’apertura ad est che collegava il borgo al castellare — e quindi Montevarchi ai Cappuccini — la Porta del Guicciardo, ovviamente sparita nel tempo insieme alle mura.
Una delle motivazioni tecnicamente meno ufficiali, ma più pratiche (e quindi realistiche) riguardanti l’abbandono del Castello, fu principalmente conseguente alla volontà di accamparsi il più vicino possibile nella Valle già sede del Mercatale, ma soprattutto crocevia di trasporti importanti da controllare.
La Chiesa di San Lorenzo –contenuta all’interno del Castellare- venne così spostata a valle, con l’abbandono della zona anche da parte della popolazione, destinata a rimanere così in rovina fino al 1538 (tre secoli dopo), quando gli spazi della vecchia chiesa vennero dati in concessione all’ordine dei Frati Cappuccini, che vi costruirono il loro convento. Questo, sfruttando le strutture appartenenti ai vecchi ruderi del Castello, venne completato appena due anni dopo.
Lo Spazio Sacro sovrastante l’attuale città di Montevarchi è stato testimone di numerose vicissitudini nei secoli a venire, spesso di pari passo con i destini della città: sarà la vicinanza a quella che notoriamente è intesa la “sede divina” rispetto al suolo, sarà la misticità che ne circonda e accompagna l’approdo, ma il ruolo da esso ricoperto tutt’oggi è quello di spazio meditativo e in un certo senso di speranza.
Ne avevo già accennato parte della storia (quella che lo collega a filo diretto con la Congrega dell’Addolorata) qui:
Più o meno contemporaneamente alla fondazione del Convento, si dice, un’altra piccola istituzione cittadina fu letteralmente impiantata nell’eremo di spicco della sacralità locale: si tratta di un Leccio, albero sempreverde di notoria longevità, capace di superare solitamente i 1000 anni di vita.
In realtà l’età stimata di questo autentico monumento naturale, si aggira tra i 500 ed i 600 anni, probabilmente di poco precedente alla fondazione del Convento, o forse effettivamente coincidente. Ma poco importa.
Assolutamente singolare, comunque, pensare all’esemplare Montevarchino come uno dei più longevi ed imponenti del territorio nazionale, considerandone la caratteristiche, ed anche considerando il luogo esatto in cui sorge. Infatti, se evidentemente la posizione in altura ne aiuta la resistenza nel tempo vista la protezione probabile dall’umido presente nel fondovalle, considerando le motivazioni per le quali il Castellare di Montevarchi venne abbandonato, la sua sopravvivenza nella posizione originale appare quasi miracolosa.
Interessante osservare come un altro Leccio inserito nel censimento relativo agli alberi monumentali nazionali, si trovi comunque in zone limitrofe: si tratta del Leccio di Poggio Amaro nel Comune di Bucine, con i suoi 300 anni di età stimati e 12 metri di altezza.
Il Leccio dei Cappuccini si trova proprio a ridosso del pendio dietro al quale si sviluppa il piazzale del Convento; le sue radici sono quindi ben impiantate in bilico in un terreno che in passato mal aveva sopportato il peso di imponenti costruzioni “artificiali” (o comunque per mano umana). Evidentemente questa meraviglia della natura è riuscita ad amalgamarsi perfettamente (e chissà, magari con un po’ di magia) con il colle che sovrasta la città, che lo ha accolto quasi a protezione simbolica dei destini della stessa. È proprio la posizione delle radici e lo sdoppiamento conseguenziale del fusto che ne determina una forma particolare della chioma, se osservato da basso: quella di un cuore (in realtà favorita recentemente da ovvie scelte di potatura della chioma stessa, ma questo inevitabilmente toglie “poesia” e “pathos” alla sua storia).
Del resto, questa pianta caratterizzata anche dalla produzione di ghiande commestibili ed apprezzate in antichità, genericamente porta con sé numerose simbologie istituitesi nell’immaginario collettivo attraverso leggende tramandate, anche religiose.
Tra il decimo ed il tredicesimo secolo, si è assistito in Italia ad un autentico fiorire di comunità religiose.
Nelle zone limitrofe a Montevarchi, possiamo trovare San Giovanni Gualberto fondatore della Congregazione Vallombrosana a Vallombrosa (nato attorno alla fine del 900 e morto a Passignano nel 1073), il Beato Benedetto Ricasoli anch’egli Vallombrosano e fondatore del Monastero di Coltibuono, San Romualdo fondatore dell’Eremo di Camaldoli e della Congregazione camaldolese (diramazione riformata dell’Ordine benedettino) ed infine San Francesco D’Assisi con il suo Ordine Francescano ed il conosciutissimo Santuario della Verna (dove si narra ricevette le stigmate il 14 Settembre del 1224).
È proprio su San Francesco che la nostra storia deve necessariamente soffermarsi, in primis partendo dall’importanza simbologica dove sorse il Santuario già citato (ancora oggi conosciutissima meta di pellegrinaggio nazionale): un antico luogo di culto pagano, votato alla dea Laverna (come attesta la testimonianza dell’erudito Francescano secentesco Salvatore Vitale).
Divinità della mitologia romana, protettrice “dei ladri e degli impostori”, Laverna era descritta tanto oscura che i suoi templi erano le grotte, dove spesso trovavano rifugio pastori o malfattori. Questa dea è la stessa che da il nome proprio al comune di Chiusi della Verna in quanto anche protettrice dei rifugiati e quindi di anfratti e nascondigli tipici di questo territorio montano. Dello stesso significato era l’antico culto pagano del dio della montagna Pen, da cui deriverebbe altresì il nome Appennino ed il nome del Monte Penna stesso, dove sorge il Santuario.
Ma questo si tratta di semplice curiosità simbolica, indubbiamente meno importante (ai fini della nostra storia) rispetto al periodo storico che abbraccia la vita di San Francesco.
Nato nel 1181, morto nel 1226.
La leggenda popolare relativa al Leccio ed al Convento dei Cappuccini di Montevarchi (al quale l’albero monumentale è necessariamente collegato), narra che durante il suo continuo peregrinare, lo stesso San Francesco in persona sia passato proprio dal colle dove sorgeva il Castellare. Un peregrinare strettamente collegato alla nascita di numerosi conventi Francescani nella zona Valdarnese, come quelli di Figline, Ganghereto e Monte Carlo: ognuno di questi collegati ad una storia relativa ad un passaggio mistico.
Storie che ovviamente risultano per la gran parte delle volte scollegate con quella che risulta essere la tempistica storicamente riconosciuta della fondazione degli stessi, così come –tra l’altro- risulta storicamente impossibile la credenza popolare che attribuisce il passaggio di Francesco d’Assisi in persona dal colle dove sorgeva il Castellare di Montevarchi.
Del resto, secondo gli atti dei Frati Francescani Montevarchini, risulta che già attorno al 1531 esistevano degli alberi riportati su una mappa, tra i quali figurava proprio il Leccio dei Cappuccini. Possiamo quindi ammettere che in questa data l’albero già si trovasse in quella posizione che oggi sembra osservare da un limite di altezza estremo, la città sottostante (e questo può essere confermato dalle dimensioni assunte attualmente), ma questo smentisce ovviamente una leggenda popolare impossibile considerando il suddetto anno di morte di Francesco d’Assisi.
A prescindere dai giustificatissimi ed effettivi limiti temporali della storia, questa leggenda si divide in due storie differentemente tramandate: se da una parte si racconta che il Sacro Leccio sia stato piantato per commemorare il passaggio di San Francesco dal colle (e questa potrebbe anche aver un senso, seppur a centinaia di anni di distanza, e quindi giustificata da un valore simbolico laddove era obiettivamente impossibile stabilire il reale passaggio nel punto in cui la pianta ed il Convento si erano sviluppate), dall’altra si narra di questo come direttamente piantato dalle sacre mani del Santo, come tante altre storie analoghe che si ripetono per altrettanti luoghi di culto dissipati in suolo nazionale. Più esattamente, secondo la leggenda narrata pare proprio che da quello che viene tramandato come un bastone a tutti gli effetti, piantato a terra da San Francesco, si sia miracolosamente sviluppato questa autentica vedetta dei destini spirituali cittadini.
Per quanto la frequentazione del Castellare appaia antecedente la morte del Santo, anche ammettendo che l’albero risalga ad un periodo nettamente precedente all’insediamento monastico sul colle, è a causa di questa leggenda popolare (sostenuta dalla presenza già sottolineata dei Francescani all’interno dell’antico monastero) a determinare l’appellativo di “Leccio di Francesco” per l’albero guardiano del colle dei Cappuccini.
Uno dei motivi per il quale il Leccio dei Cappuccini ha meritato questo appellativo di appartenenza, potrebbe essere anche da ricercarsi nel fatto che in quanto pianta maestosa, ha da sempre funzionato da rifugio accogliente per numerosi uccelli, gli animali più rappresentativi con i quali si riportano i dialoghi tra Francesco e la natura.
Il bosco sottostante al Leccio di Francesco, inoltre, era storicamente popolato da numerose piante appartenenti alla stessa specie, ed era considerato Bosco Sacro fino ai primi anni 60: si tratta di una denominazione descrittiva comune a numerosissimi culti religiosi, tendenti ad accostare a luoghi di natura selvaggia una spiritualità spiccata, tanto da non poter essere frequentabili da tutti.
All’interno del Bosco Sacro dei Cappuccini, era interdetto il passaggio alla cosiddetta “gente comune”, in quanto luogo di preghiera dove si salmodiava in differenti ore del giorno. Esistevano per questo dei passaggi consentiti, destinati a tagliarne gli spazi qualora chiunque avesse sentito la necessità o l’esigenza di raggiungere la vetta del colle, da valle: sentieri da percorrere evitando di invadere così uno spazio destinato al ritiro, alla preghiera o più generalmente alla quiete della natura e della differente fauna che la abitava.
Troviamo i Boschi Sacri all’interno di culti religiosi Romani (dove lo stesso veniva chiamato “Lucus”, termine originariamente descrivente la “radura nel bosco dove arriva la luce del sole), Etruschi, Celtici e Germanici, con una evidente radice comune fondata nel Paganesimo ed in seguito acquisita dal Cristianesimo stesso. Li troviamo anche in India, dove vengono chiamati Devarakudus (letteralmente, “le foreste degli Dei”), e venivano mantenuti dalle comunità locali come aree protette dove era interdetta la caccia ed il disboscamento.
Per quanto riguarda Montevarchi invece, si narrava che il passaggio nascosto e più diretto tra il vertice del Colle ed il centro della Città a Valle, passasse sotto il Bosco Sacro. Pare effettivamente che se questo passaggio più o meno esiste, colleghi un’apertura situata all’interno della Sagrestia della Chiesa dei Cappuccini con la Collegiata di San Lorenzo a Montevarchi, nella Piazza Centrale. Molto più probabilmente esiste invece un cunicolo destinato ad operare un collegamento simile, che non giunge fino al centro cittadino ma ad uno spazio situato a valle del colle, comunemente chiamato “Ghiacciaia”. Si tratta di credenze più o meno testimoniate, alle quali si accompagna una leggenda ovviamente più improbabile destinata però a riguardare sempre il solito albero custode: pare che il passaggio di accesso al cunicolo segreto partisse proprio dalla base del Leccio.
Oggi –come per la stessa leggenda dell’origine per mano di San Francesco- esistono strumenti pratici per smentire tale teoria, che però conferma quando simbolicamente al maestoso albero sia da sempre stato dato un ruolo fondamentale a livello di protezione occulta. Ulteriormente, c’è da valutare quanto già al tempo la base del Leccio fosse ampia, per poter anche solo lontanamente giustificare la costruzione di una storia simile. Effettivamente ancora oggi le misure appaiono imponenti (circa sei metri di circonferenza di base per oltre 22 metri di altezza), per quanto quel posizionamento a ridosso del pendio dove in seguito è sorto dapprima il Piazzale del Convento, e poi un piccolo muro di cinta che ne ha indubbiamente complicato la vita e la regolarità strutturale, ne abbiano minato una “serenità” mantenutasi per quasi 500 anni (ammettendo che l’età dell’albero possa attestarsi attorno ai 600).
In ogni caso, proprio per la maestosità strutturale e la rappresentazione effettiva della rigogliosità della natura, rispetto al rapporto (quantomeno metaforico) tra i Montevarchini ed il Leccio dei Cappuccini si può parlare di autentica venerazione e rispetto.
Guardiano spirituale cittadino, effettiva rappresentazione fisica di una preghiera di grazia infinita, che da terra si erge verso l’Altissimo superando nettamente in altezza il massimo livello raggiungibile dalle mani di un chiunque avesse mai voluto protrarsi verso lo stesso, il Leccio dei Cappuccini è “una lode al Signore”. Almeno da un punto di vista popolare.
E forse è proprio per questo che il Leccio di Francesco rappresenta un’istituzione cittadina importante, tanto radicata nelle origini dell’identità Montevarchina quanto profonde e grandissimi sono le sue radici nel Bosco Sacro sottostante.
Parte delle informazioni riportate in questo testo, derivano da una lunga ed interessante chiaccherata con Paolo Lachi, esperto di flora locale, innamorato della sua Città.
Il testo rappresenta comunque un estratto di una ricerca più ampia e generica sul Leccio in generale, che magari un giorno troverà spazio in altri luoghi o in altre forme.