#Montevarchinità 2.0

Un.Dici
StorieDaMontevarchi
6 min readSep 6, 2017

Tornare a parlare di #Montevarchinità (laddove in un modo o nell’altro, tutti ne parlano) non è così complicato come può sembrare. Lo abbiamo provato a fare con la regia di Minatore Interiore e la presenza scenica di Cristina Ioana Laurentiu, con questo video (preparato per l’evento tenutosi all’Anfiteatro della Ginestra lo scorso 5 Settembre, “I Sogni Son Desideri”). Che non è altro che la trasposizione visuale del testo che segue.

Foto di Massimo Anselmi

Mi chiedete di parlare di #Montevarchinità, quasi fosse una parola sussurrata che prende corpo, aumentando di tono al passaggio da vicolo in vicolo del nostro centro storico. Una parola priva di tangibilità effettiva, che sempre più spesso si trova nella bocca della gente: quasi fosse unica, rispetto a qualsiasi descrizione identitaria relativa al senso di appartenenza di una cittadina analoga alla nostra.

Se ne parla, se ne dice, si prova a descriverla. Ma non è facile.

Effettivamente però, se di caratterizzazione identitaria si parla, l’unicità è necessariamente alla base della struttura di questo neologismo, destinato ad invecchiare con il tempo.

La Montevarchinità è uno status racchiuso in una cittadina che aspira a paragoni più grandi di lei, con l’irriverenza che può contraddistinguere quello che fu crocevia mercantile di connessioni tra Firenze, Arezzo e Siena. Città di passaggio, città di mercato.

La senti nei bar, tra i nonni che giocano a carte ed i quasi nipoti che si consumano le loro birre, con i padri di passaggio per un caffè. La senti nell’identità di storie che si rinnovano al rinnovarsi di prodezze proporzionali ai tempi vissuti, oppure in quelle che riecheggiano da generazioni.

A volte la Montevarchinità ha il colore ingiallito delle foto di quando si andava a scuola con i pantaloni corti anche d’inverno, delle ginocchia sbucciate, del pallone sotto braccio nei pomeriggi di primavera.

Altre volte porta con se l’elettrica pigmentazione delle foto in posa prima di iniziare l’ennesima sfida tra “scapoli ed ammogliati”, o le immagini scattose delle prime videocamere, accese per immortalare quei giovanotti che — con le camice a maniche corte attillate dentro i pantaloni a zampa — si prendono a pacche tra capo e collo in attesa dell’ arrivo della corsa ciclistica di Pasquetta, sorridendo.

Altre volte ancora è caratterizzata dall’opacità di quelle polaroid che immortalavano i ragazzi sopra distese di motorini, simili a quelli con i bomber rovesciati di qualche anno dopo, quelle che rimandano per molti ai tempi dell’Impero, e di chissà cos’altro.

Insomma, si tratti di Montevarchinità o meno, il comune denominatore tra quelle epoche, e quelle diverse colorazioni di immagine, sembra essere il senso comune (a prescindere dalle generazioni) che quei tempi erano migliori. Che allora, tutto era possibile. Che si stava meglio, forse, quando notoriamente si stava peggio.

Succede così ovunque, non intristitevi.

Foto di Sabina Broetto

Succederà anche ai vostri figli di rimpiangere la Montevarchi di oggi, quella che vi fa tanto incazzare, quella che vi barrica talvolta dietro le persiane chiuse a sbirciar tra le aperture, mentre passate insicuri le dita su una tastiera, con gli occhiali sul naso.

Io credo che il ricordo e la memoria siano la ricchezza più bella che siamo destinati a portarci dentro, e che un po’ di nostalgia ne sia necessaria conseguenza, ma troppa diventi deleteria per il futuro. Quei ricordi contemporaneamente dolci ed amari, intendo. Quelli degni di restare nella nostra memoria a lungo se non per sempre.

Ad esempio, mio padre tutte le domeniche prima di andare a pranzo dalla nonna, mi portava alla Torrefazione Bronzi a comprare le caramelline gommose: c’era sempre il jazz in sottofondo, ed una foto di Louis Armstrong che suonava la tromba. Poi, dopo pranzo, me ne andavo sempre in terrazza, rivolta verso il Brilli Peri. Entravano le squadre in campo, e sentivo lo speaker che nominava i giocatori. Poi sentivo i cori, sentivo il tifo, sentivo il calore. Mi immaginavo i colori, quelli delle bandiere che ancora — quando si giocava in trasferta — venivano esposte o meno fuori dai bar in base al risultato della squadra.

Se avessi oggi nostalgia di quei momenti, significherebbe che forse non starei continuando a passare anni in quella curva, su quegli spalti.

Significherebbe che non starei continuando a cantare, a gioire, ad imprecare e ad esultare per quella maglia. Come ha fatto mia padre. Come ha fatto mio nonno.

Eppure, malgrado non ci fossi, è come se avessi esultato anche io per il gol di Piero Bencini al Marassi, forse tanto simile a quello di Cellini all’Artemio Franchi.

È come se fossi partito anche io alla volta di Empoli per lo spareggio con la Massese, ad impazzire per quel pallone che si stampò sul palo alle spalle di Marchisio, regalandoci la C1.

Oppure se prima ancora del 2002, avessi già visto i colori rossoblù trionfanti nello stadio fiorentino ai danni stavolta della Pistoiese, nel 1972.

Perché i bei ricordi si tramandano, vivono e si plasmano nelle nostre menti attraverso il racconto: e quando si parla di una società sportiva che è orgoglio ed anima di una cittadina dal 1902, è chiaro che di storie e di aneddoti ce ne sono a migliaia da raccontare

Quindi, se cerchiamo il comune denominatore a differenti epoche e differenti generazioni, non possiamo far altro che bussare sempre alla stessa porta. Quella che metaforicamente rappresenta l’accesso effettivo alla cosiddetta Montevarchinità tanto indagata, quella del Brilli Peri, la casa dei colori rossoblù.

Eppure tra le tante memorie, gli anniversari, le celebrazioni, quelle maglie bicolore che cambiano con il tempo nel tessuto e nelle trame, è forse cosa buona e giusta fermarsi un attimo e prenderci del tempo per noi, nel presente.

Guardare lo stadio di nuovo gremito, la curva che palpita, la gente che sorride e scherza durante quella partita di qualche mese fa, quella che ci ha regalato di nuovo la Serie D, dopo anni amari ma vissuti irriverentemente ed in modo orgoglioso.

Foto di Zita Sgrevi

Tornare ad uscire di casa, magari da soli e fare due passi per le nostre strade, come per inseguire un bellezza che ci sembra andata, che oggi può tornare a prender forma con un po’ di magia.

Basta osservare, lasciarsi guidare dalla personificazione di questa bellezza.

Inseguirla, per tornare a guardare i nostri angoli con uno sguardo nuovo, quello attento e meravigliato della prima volta.

Abbandonando le frustrazioni quotidiane, e cercando il bello con gli occhi illuminati, gli stessi che brillavano quella domenica pomeriggio di qualche mese fa allo stadio, prima e dopo il fischio finale.

Prendetevi una pausa, tornate bambini per le vostre strade, come quelli che ancora calciano un pallone in piazza.

Se volete, per una volta, seguite l’entusiasmo di chi per una vita si è lasciato trasportare da gioie e dolori con il rossoblù nel cuore, guardando stavolta anche oltre il Brilli Peri.

Prendetevi quindi una pausa dalla Montevarchinità.

Foto di Giuliano Benci

Una pausa utile a riveder di nuovo Montevarchi risplendere, perché infondo la magia è solo questione di semplici punti di vista: è cambiamento di percezione.

E perché forse il segreto della Montevarchinità sta proprio nascosto in noi stessi: tornare ad innamorarsi della nostra città, così come non abbiamo mai smesso di amare la nostra squadra. Così come non abbiamo mai smesso di amare i colori rossoblù.

Con gli occhi degli anni felici, qualsiasi siano stati per voi, guardando il presente rivolti al futuro.

Foto di Roberto Ceccherini

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Un.Dici è l'universo di Julian Carax, doppio di Davide Torelli, che sarei io. Qualcosa in più qui: https://linktr.ee/davidetorelli