Alti ottani e storytelling postumano

Mad Max: Fury Road è il quarto capitolo della saga cult di George Miller

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Nuovi sentieri selvaggi o strade già seguite e consumante?

Articolo completo su Quaderni d’altri tempi

Come ha scritto in un tweet Joe Dante, a Mad Max: Fury Road, quarto capitolo della saga cult concepita dal regista australiano George Miller, bisognerebbe associare il sottotitolo: “70-year-old director shows those young whippersnappers how it’s done!”

Altri veterani di Hollywood hanno provato a rilanciare le gloriose saghe: George Lucas con Star Wars, Ridley Scott con Alien, Steven Spielberg con Indiana Jones. Tutti tentativi che non hanno convinto.

Si provi a guardare Indiana Jones e il regno dei frigoriferi a prova di bomba atomica.

Indiana Jones che sopravvive a un’atomica grazie a un frigorifero

Tra l’altro con Fury Road George Miller ha rifondato la sua saga cult senza nemmeno appoggiarsi sulla fama dell’interprete originario, Mel Gibson.

Scarsità di risorse, mutazioni genetiche e lotte per la sopravvivenza e/o il potere: contesto post-apocalisse ideale per un Tom Hardy / Mad Max legittimamente inespressivo. Vorrebbe lasciarsi morire ma non ci riesce. Il continuo bilico tra passato e presente (tormenti flashback con tragedie familiari) sembra niente in confronto a cosa devono aver passato la camionista Imperator Furiosa e le Mogli. Queste ultime sono giovani donne ridotte a proprietà privata a fini riproduttivi e stanno scappando da Immortan Joe, il violento capo-clan che le teneva segregate. Max si unisce al gruppo in fuga.

Mad Max è più che altro un testimone o un ingranaggio che coadiuva Charlize Theron / Imperator Furiosa, eroina mutilata e compendio di guerrieri action cinematografici come Arnold Schwarzenegger in Predator, Sigourney Weaver in Aliens — Scontro finale e Linda Hamilton in Terminator 2.

Il confronto tra matriarcato (fertilità e vita) e patriarcato (distruttività e morte) è nei simboli. Cisterne piene di latte materno contro carichi di benzina: liquidi commerciabili entrambi, ma che rappresentano due sistemi di valori molto diversi. Da una parte la cura affettuosa con la quale la vecchia motociclista custodisce la sua borsa di semi “tutta roba naturale”, simbolo concreto di una possibile rinascita futura; dall’altra la furia nichilista con la quale i guerrieri di Immortan Joe si sbiancano il volto per somigliare a dei teschi e per contribuire all’accumulo di ottani e di possedimenti funzionale al culto petrolifero che corteggia la morte.

L’inseguimento è il pretesto per un big carnival immaginifico e creativamente esplosivo: mezzi di trasporto dalle forme deliranti; mutanti deformati dal fall out atomico che accompagnano la battuta di caccia con tamburi e schitarrate metal; guerrieri che vivono la battaglia come una liturgia religiosa e si esaltano spruzzandosi la bocca con bombolette di vernice spray.

Colori incredibili

A curare la fotografia c’è un altro veterano: John Seale (Rain Man, L’attimo fuggente, Mosquito Coast). Con l’aiuto del fotografo australiano, George Miller ha catturato i contrasti cromatici della natura in Namibia (le location di quasi tutti gli esterni) utilizzandoli per far dialogare la terra umiliata dall’apocalisse ecologica e gli incredibili cieli azzurri di un possibile riscatto.

Nella fantascienza come nel western il paesaggio etico e biologico è segnato da violenti rivolgimenti: la Natura segue il suo corso e la Cultura fronteggia le privazioni instaurando regole più o meno violente, regredendo. Si gioca con le epoche e con le lancette dell’orologio antropologico. In una scena cogliamo il lato umano del dittatore Immortan Joe: intona un canto funebre per salutare un caro defunto. Come il grande capo di una tribù di nativi americani.

La frontiera e il concetto moderno di crescita infinita sono miti non più credibili o perlomeno da riattualizzare.

La saga ideata da George Miller nasce in quella stagione seminale in cui era ancora molto forte la paura della bomba atomica e la fantascienza cinematografica cominciava a entrare in territori mainstream. Nello stesso tempo irrompeva con furia, in molti film di successo, l’automobile. (Sullo sfondo il grande tema sociale delle risorse energetiche.) Il cuore dell’immaginazione tecnologica batteva per l’automobile: si pensi anzitutto a quanto è confluito in Star Wars delle passioni automobilistiche di quel George Lucas ex meccanico di hot rod californiani. Sono anni importanti per l’industria dell’auto: il toyotismo e l’automazione stavano rivoltando le grandi catene produttive; e si pensi al petrolio e agli equilibri geopolitici che gli Usa hanno costruito intorno ad esso.

Tucker: un uomo, un sogno

Con l’automobile, l’oggetto tecnologico diventa sempre più centrale nelle vite umane. Ciò è tanto più vero in società altamente industrializzate e al contempo caratterizzate da geografie enormi come quella statunitense e quella australiana. Con l’automobile anni Settanta e Ottanta, comincia l’era degli status symbol paradossali: prodotti industriali molto amati ma che non sono certo tesori rari o irriproducibili.

Da una parte l’uomo dipende sempre più dalla tecnologia; dall’altra la tecnologia comincia a modificare il mondo del lavoro sempre più violentemente. Forse proprio questa frenesia ha spinto molti artisti del secondo Novecento a interpretare la fascinazione verso l’automobile in termini di amore e morte.

Lo sguardo del cineasta-racer anni 70/80

Se prendiamo Duel (Steven Spielberg, 1971) e American Graffiti (George Lucas, 1974) come punti di riferimento della carsploitation cinematografica possiamo citare una striscia di cult movie distopici e paradossali tra cui spiccano La macchina nera (1977, regia di Elliot Silverstein), Christine — La macchina infernale (1983, regia di John Carpenter), Brivido — Maximum Overdrive (l’unica regia cinematografica di Stephen King datata 1986). E non dimentichiamo quanto è importante l’automobile nella saga di Ritorno al futuro lanciata da Robert Zemeckis nel 1985.

Ma tra tutti i piccoli o grandi film di culto presenti nella lista merita una menzione d’onore quel Peter Weir del 1974: Le macchine che distrussero Parigi (cfr. recensione su “I 400 calci”, 20/05/2015). Meglio noto come The Cars That Ate Paris, è un piccolo horror grottesco pieno di spostati che guidano macchine ricoperte di picche metalliche (omaggiate dal clan dei porcospini in Mad Max: Fury Road). In pratica tutti gli abitanti di Paris, una fantomatica cittadina australiana, amano usare violenza sui turisti di passaggio utilizzando automobili appositamente accessoriate.

Australiani pazzi

Il pretesto è quello di rivendere le parti delle auto conquistate. Ma anche pezzi dei corpi delle vittime destinati alla ricerca scientifica. La caccia splatter come grande rituale basato su quella estetica della morte e quel nichilismo che preconizza l’universo di Mad Max. Le carcasse d’auto che punteggiano i boschi intorno a Paris non sono altro che l’anticipazione del mondo desolato di Mad Max: Fury Road, dove la speranza e la vegetazione appaiono ormai in netta minoranza.

Il filone della carsploitation, con la saga di Mad Max in testa, sfonda in più di un punto il guard rail della questione filosofico-antropologica del cosa è umano. Partendo da Marshall McLuhan, David Cronenberg ha già coltivato, sempre nell’ultimo quarto del Novecento, le audiovisioni più sagaci e morbose per raccontare la condizione postumana. Ma solo con lo storytelling dell’automobile nel cinema mainstream anni Settanta e Ottanta si è imposta a livello popolare la questione di una nuova relazione dell’uomo con i suoi artefatti. Nasce un sistema-uomo nel quale l’oggetto inanimato acquisisce uno statuto che tocca le categorie dell’affettività. Nascono lì, in quelle storie, le prime anticipazioni concrete delle sfide della biopolitica, della cibernetica e della tecnocrazia. Si avvia al tramonto la dicotomia cartesiana che, come una forbice, aveva diviso cose e pensieri (cfr. Marchesini, 2002).

Ma come ho fatto a ritrovarmi in questa situazione?

In Mad Max: Fury Road il genere umano è fortemente legato ad un universo di oggetti e dispositivi inanimati. Indizi di condizione postumana vi sono praticamente in tutti i personaggi. Furiosa non ha un braccio e deve fare uso di una protesi meccanica per guidare il suo automezzo. Le giovani donne di Immortan Joe sono inizialmente bardate con cinture di castità dentate di cui solo il capo tribù possiede le chiavi. Lo stesso Immortan Joe e i suoi figli sono caratterizzati da menomazioni e malattie che obbligano all’utilizzo di congegni per sopravvivere. Altre figure evocative sono le gigantesche nutrici, donnoni legati a una perversa apparecchiatura progettata per mungerne seni al fine di produrre il cosiddetto “latte di madre”. Nonostante il dopo bomba, il genere umano cerca ancora il contatto con gli oggetti e le protesi accrescitive. Del resto le circostanze spingono alla regressione tribale ma non cambia l’orizzonte antropologico dell’uomo tecnologico.

Voglio vivere così…

Teschi, volani di automobili e copertine di dischi metallari come oggetti di culto. La mentalità e i processi cognitivi degli umani sopravvissuti continuano ad abbracciare la materialità degli oggetti esattamente come prima dell’apocalisse: l’inanimato e l’invisibile non sono più semplici riflessi della cultura. Per questa via, George Miller ci fa entrare in quello spazio apparentemente immateriale che è la mente o l’immaginazione di questi uomini che, ancora fasciati da un’armatura cognitiva postmoderna, sono costretti a vivere, di fatto, in una società tribale. Ne scaturisce uno scenario inedito che non può contare sulle tecnologie comunicative, ma che è comunque molto lontano da una società pre-moderna. I processi di trasmissione culturale dovrebbero essere affermati dall’oralità ma, di fatto, anche gli oggetti inanimati e il loro design hanno un ruolo fondamentale.

Torna in mente Tempo di leggere (1959), ottavo episodio della prima stagione di Ai confini della realtà, scritto da Rod Serling.

L’ometto con gli occhiali voleva solo un po’ di tempo per sé, per coltivare la sua grande passione ovvero la lettura. Di libri e di tempo per leggerli ne avrà quanto ne vuole dopo un conflitto totale che rade al suolo la civiltà. Ma cosa accade quando gli si rompono gli occhiali? Che succede quando vengono meno le interfacce culturali e sensoriali che siamo abituati a dare per scontate?

Si sente ovunque in questo Mad Max: Fury Road l’urgenza di cercare una rotta, di esplorare una mappa. Dove si va? Di là un deserto di sale, di qua morte sicura tra le bande di predoni, dall’altra parte una delle tante cittadelle fortificate e meccanizzate. Tutti condannati a vivere per sempre gli schemi del circuito potere-risorse. Ancora una volta abbiamo gli elementi essenziali del viaggio dell’Eroe (cfr. Campbell, 2012). Origini misteriose e perse nel tempo (Furiosa rapita); relazione complicata con la famiglia (Furiosa scappa dalla violenza della Cittadella e dal crudele Immortan Joe); ritiro dalla società e apprendimento di una lezione con l’aiuto di una guida soprannaturale (l’avventura con Mad Max alla ricerca del Luogo Verde); ritorno alla società con nuova consapevolezza.

In questo viaggio la posta in palio è la vita in tanti sensi diversi. Proviamo ora a sovrapporre moderno e post-moderno con una delle mappe più famose della narrativa: il romanzo uno degli archetipi dell’industria culturale basata sui generi. Robert Louis Stevenson anticipa molti aspetti del futuro immaginario fantavventuroso spingendo il tasto della paura con situazioni insolite, la diffidenza nei confronti del diverso. Soprattutto ci sbatte in faccia la menomazione fisica e le forze diaboliche che ne conseguono. Arti amputati, guance tranciate e ricucite, vecchi ciechi infuriati, strane forme tumorali che sembrano vivere autonomamente sottopelle: tutti elementi che avvicinano il film di Miller al capolavoro di Stevenson, L’Isola del Tesoro (2014), sul piano della tensione emotiva. Ma Mad Max: Fury Road è un racconto postmoderno: la mutazione e la menomazione sono in tutti, buoni e cattivi. L’altra differenza è che il bottino è la sopravvivenza della specie, non l’accumulo di capitale.

Immortan Joe coltiva una violenta estetica della morte, sapendo bene però quanto sia centrale il preservare la vita (i giardini pensili della Cittadella, l’estrazione dell’acqua-cola, le Mogli). Incoraggia un culto basato sul design di strumenti di caccia sempre più creativi e micidiali e, nello stesso tempo, tiene chiuse in cassaforte le sue donne.

Le ispirazioni sembrano venire da vecchie copertine di dischi heavy metal miracolosamente scampati alle deflagrazioni nucleari. Grazie a questo universo simbolico Immortan Joe arriva a convincere un esercito di schiavi e kamikaze dell’esistenza di una strada che conduce a un mistico e non meglio precisato Valhalla. Sul filo del rapporto tra il potere, l’invisibile e la trasmissione dei miti.

Furiosa intuisce che bisogna salvare l’unico vero bene di questa folle società postatomica: le donne in grado di generare figli senza malformazioni genetiche. Il nucleo profondo di questa storia di una società futura passa per un discorso sul corpo umano.

Savannah, raccontaci una storia che il tv non funziona

Città, mass-media, sistemi di informazione ultraveloci: ormai postumani, abbiano perso quello che McLuhan chiamava “il mondo interiore dell’uomo orale” (McLuhan, 2008), ovvero quel “groviglio di emozioni e sentimenti complessi che il pratico uomo d’Occidente ha da tempo corroso o eliminato a vantaggio dell’efficienza e della praticità” (ibidem). In un mondo privo di tecnologie per comunicare, si sogna un passato che sembra sempre più un miraggio man mano che si succedono le generazioni. Si fantastica di un tempo in cui esisteva una cosa chiamata intrattenimento. “Ognuno aveva il proprio show”: ecco come ricorda lo storytelling la vecchia motociclista mentre scruta il cielo notturno osservando la corsa ormai insensata di un vecchio satellite. Cosa trasmetteva? Canali tv a pagamento? Internet? YouTube?

Liberté, egalité, fertilité

Allora dove si va? Il fatto che Max sia un tizio sull’orlo della follia la dice lunga sul posizionamento del fattore umano nel perimetro della questione. Coltivare il verde, creando giardini tramite le tecnologie? O dimenticare ogni tecnica e cercare un nuovo luogo naturalmente fertile? Auguriamo alle Mogli-Madri-Nonne della banda messa insieme da George Miller tutta la fortuna necessaria per il loro viaggio tra umano e post-umano, tra genetica e merci. Saranno queste le uniche storie che valga la pena raccontare in futuro? E in che modo le racconteremo? Mad Max: Fury Road propone uno sguardo che va oltre i generi, oltre le formule, oltre le trame.

LETTURE

  • Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, Torino, 2012.
  • Roberto Marchesini, Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.
  • Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 2008.
  • Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro, Einaudi, Torino, 2014.

VISIONI

  • John Carpenter, Christine La macchina infernale, Sony Pictures, 2015 (home video).
  • John Ford, Sentieri Selvaggi, Warner Home Video, 2000 (home video).
  • Stephen King, Brivido Maximum Overdrive, Studio Canal/Pulp Video, 2014(home video).
  • George Lucas, American Graffiti, Universal Pictures, 2014 (home video).
  • George Miller, Mad Max Oltre La Sfera Del Tuono, Warner Home Video, 2015 (home video).
  • Rod Serling, Ai confini della realtà — Stagione 1, Dnc Communications, 2005 (home video).
  • Elliot Silverstein, La macchina nera, Universal Pictures, 2005 (home video).
  • Steven Spielberg, Duel, Universal Pictures, 2015 (home video). — Peter Weir, Le macchine che distrussero Parigi, RHV — Ripley’s Home Video, 2011 (home video). — Robert Zemeckis, Ritorno al futuro, Universal Pictures, 2010 (home video).

Originally published at www.quadernidaltritempi.eu.

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