L’economia digitale e il futuro dei libri

Nane Cantatore
StreetLib Italia
Published in
6 min readAug 24, 2018

L’economia, certamente nella percezione comune e senz’altro anche nelle riflessioni di molti esperti, si basa su un’assunzione di fondo che non sempre viene adeguatamente messa in questione. Si tratta dell’idea che un bene, per avere valore, debba essere scarso: non necessariamente in termini di oggettiva rarità, ma per lo meno per la fatica che costa ottenerlo. L’idea di valore, del resto, è necessariamente al centro di qualsiasi riflessione economica, dal momento che lo scopo fondamentale dell’economia è proprio quello di incrementare il valore disponibile o, nella sua versione più teorica, di studiare il modo in cui avvengono gli scambi sulla base delle unità di valore: in ogni caso, si parte dal presupposto che il valore sia qualcosa di prezioso e finito, anzi, tanto più prezioso quanto più è scarso.

La classica immagine della correlazione tra scarsità e valore: quanto è preziosa una bottiglia d’acqua nel deserto?

Provo a spiegarmi: al mondo esistono due teorie economiche fondamentali, basate su altrettante (e opposte) concezioni del valore:

  • La teoria oggettivista, secondo la quale il valore dipende in ultima analisi dalla quantità di lavoro necessaria a produrlo: questa teoria nasce con Adam Smith ed è stata fatta propria, tra gli altri, da Marx. L’equazione di valore e lavoro ha un importante aspetto positivo, dato che permette di gestire le risorse disponibili in modo semplice e coerente, ma ha un grosso problema nella rappresentazione della realtà;
  • Infatti, la teoria soggettivista, che è alla base del pensiero neoliberale o, come dicono quelli che hanno studiato, neoclassico, si basa sul valore che i diversi soggetti presenti sul mercato attribuiscono a un bene e lo determina come il risultato di una negoziazione in cui ognuno cerca di massimizzare il proprio profitto ma, visto che le esigenze sono diverse, tutti possono ottenere un guadagno (per fare un esempio: se Gianni produce formaggio e Francesca produce scarpe, ognuno tenderà a dare maggior valore al bene che non è capace di produrre, per cui Gianni riuscirà sempre a trovare vantaggioso scambiare un paio di scarpe con una quantità di formaggio che Francesca troverà conveniente). Il problema intrinseco di questo modello è che, al crescere della quantità e della complessità degli scambi, introduce una quantità insostenibile di astrazioni e di presupposti indimostrabili.

Il vero problema con entrambe queste teorie, però, è un altro: siamo sempre all’interno di un paradigma della scarsità. Da una parte, infatti, vale di più ciò che richiede maggior lavoro e, visto che il lavoro è faticoso e che comunque ognuno può lavorare solo per una certa quantità di tempo, per produrre una cosa che vale tanto bisogna pagare un prezzo alto, per lo meno in termini di tempo e fatica. Il lavoro, insomma, è un costo di per sé elevato, qualcosa di cui si farebbe volentieri a meno.

Dall’altra, il valore viene determinato attraverso un criterio di scarsità percepita: Gianni e Francesca riescono a trovare un punto di equilibrio nei loro scambi soltanto perché ciascuno ha scarsità dei beni di cui l’altro ha abbondanza o, meglio, di cui ha abbondanza relativa, perché se, poniamo, Francesca avesse una quantità infinita di scarpe, ogni paio avrebbe un valore prossimo allo zero, tanto da rendere impossibile lo scambio.

Il problema è che già oggi gli oggetti digitali sfuggono a questa regola e, in tempi molto rapidi, beni e servizi prodotti da robot utilizzando energie rinnovabili altamente efficienti potrebbero estendere questa condizione anche al mondo fisico. Per chiarire ulteriormente la situazione, pensiamo a una “copia” di un oggetto digitale, sia esso un film, un libro o una canzone: che cosa distingue la millesima copia dalla milleunesima, o dalla milionesima? Nulla di concreto, nessuna quantità davvero rilevante di lavoro o di risorse è stata spesa per produrla e certo chi ha una copia di un file non è meno ricco di chi ne ha diecimila.

Gli oggetti digitali sono identici; anzi, sono letteralmente lo stesso oggetto, Certo, si dirà che chi ha scritto il libro o partecipato alla produzione del film o del pezzo musicale ha ben lavorato e, anzi, ha prodotto qualcosa che vale grazie a una capacità estremamente rara: il proprio talento, la passione e l’impegno che ha profuso nella creazione di qualcosa che per lo spettatore, il lettore o l’ascoltatore ha indubbiamente un valore.

Il sistema che viene usato oggi per riconoscere questo valore è quello della proprietà intellettuale o, più propriamente, del copyright: per riconoscere un giusto compenso a chi ha prodotto cose belle, profonde, intelligenti o divertenti, nonché a chi ha contribuito a farle arrivare al pubblico, si prevede che si paghi una certa quantità di denaro (che, a sua volta, è semplicemente un mezzo per quantificare il valore) per ogni copia di questo prodotto dell’ingegno. In pratica, l’autore ha il diritto intrinseco a controllare la diffusione della sua opera e a goderne i frutti e, per realizzare questo diritto, vi associa un altro soggetto che la riproduce e distribuisce usando la sua organizzazione industriale. È significativo che questo particolare sistema di tutela del diritto d’autore, con le relative leggi sul copyright, si sia sviluppato verso la metà del Diciannovesimo secolo, vale a dire in concomitanza con lo sviluppo dell’editoria moderna e poco prima della nascita delle tecniche di incisione del suono, che hanno portato allo sviluppo dell’industria discografica proprio all’interno di questo quadro legale.

Il punto è che questa cosa funziona solo se la produzione delle copie non è immediatamente disponibile a chiunque: per esempio, per stampare un libro serve una tipografia (che ha sua volta permette un enorme risparmio rispetto alla copia manuale) ma, perché i libri abbiano un valore per i lettori, ci deve essere scritto qualcosa di valido. Nessuno, infatti, comprerebbe un volume pieno di lettere a casaccio, bisogna che ci sia una storia interessante da leggere; lo stesso vale per un disco o per il biglietto del cinema. In altre parole, a essere venduto è l’oggetto fisico e il contenuto immateriale, le parole i suoni le immagini che racchiude, sono la ragione per cui lo si compra.

A dar valore ai libri è il testo che contengono, non la carta su cui sono stampati

Che le cose stiano così è chiaramente mostrato dalla continua lotta tra l’industria editoriale (discografica, cinematografica, televisiva) e le diverse tecnologie che ne ne hanno minacciato il monopolio produttivo: dalle fotocopiatrici alle videocassette, dagli MP3 agli ebook, si è sempre cercato di impedire l’uso completo di questi strumenti, attraverso disposizioni legali o artifici tecnologici variamente malriusciti (come i famosi DRM). Insomma, l’idea di vincolare il riconoscimento del diritto d’autore all’acquisto di una copia fisica è il prodotto di una certa condizione dell’industria, che a sua volta si basa su una certa tecnologia e sulle relazioni da essa sviluppate, tra una produzione centralizzata e un pubblico disperso, che viene raggiunto da un sistema di distribuzione capace di mettere in relazione i due estremi della catena.

Per questo motivo l’industria editoriale vede con comprensibile sospetto gli e-book e, di fatto, ne sta sabotando lo sviluppo. Questo sabotaggio avviene in tre diversi modi:

  • con una politica di prezzi che ne mina ogni competitività nei confronti dei libri di carta: gli ebook sono troppo cari rispetto alle copie cartacee, tenendo conto che si producono e distribuiscono a costi vicini allo zero e senza anticipare spese;
  • con soluzioni di impaginazione e gestione del testo spesso indecenti, per cui gli e-book sono spesso versioni digitali del testo su carta, senza nemmeno delle funzioni di ricerca e di indicizzazione appena accettabili;
  • con mille trucchetti per cui ogni device di lettura è tendenzialmente legato a uno specifico distributore.

Insomma, la rivoluzione digitale sta iniziando a modificare in profondità tanto le modalità di organizzazione dell’industria, quanto la definizione stessa del valore. Ci sono fortissime resistenze, ma credo, per parafrasare Sergio Leone, che, quando un uomo con un regolamento incontra un uomo con una tecnologia, l’uomo con il regolamento è un uomo morto.

Nel prossimo articolo cercherò di esplorare che cosa sia questa trasformazione del valore e in che modo la si possa gestire da protagonisti, senza restare vincolati a modelli obsoleti e, anzi, provando a fare qualcosa di nuovo, interessante e proficuo. Si tratta, insieme a quella ambientale, della questione più importante dei nostri tempi: affrontarla non è solo necessario, può essere anche una gran figata.

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