di Alessio Chiodi

Per certi versi è lui il vero outsider di queste primarie. Non ha mai fatto politica attiva all’interno dei due principali partiti americani. Donald Trump è un personaggio fuori dagli schemi, uno che non le manda a dire e che insegue una linea mediatica caratterizzata dall’impatto. Per lui il suo capello biondo e il dito inquisitorio agitato freneticamente durante i suoi discorsi sono elementi che rimangono nella memoria dell’elettore. Rimane impresso. Ci si ricorda di lui, nel bene e nel male.

Newyorkese doc, nato il 13 giugno 1946, Trump ha costruito la sua popolarità a suon di bigliettoni e tv. Ha rilevato l’azienda del padre Fred, la “Elizabeth Trump & Son” ribattezzandola “Trump Organization” e ha prodotto e condotto il fortunato reality show “The Apprentice” tra il 2004 e il 2015.

Trump ha iniziato la sua carriera politica nel 2000 con la sfortunata candidatura alle presidenziali nel Partito della Riforma. Fallito il “rush” di inizio millennio, Trump si avvicina al Partito Democratico per poi appoggiare pubblicamente il repubblicano John McCain alle presidenziali del 2008. Dopo aver riflettuto sulla possibilità di candidarsi per le presidenziali del 2012, Trump è tornato nuovamente sulla scena politica candidandosi per quelle del 2016 appoggiato da una gran fetta dei Repubblicani. La sua retorica, nel senso nobile del termine, ha saputo innanzi tutto conquistare gli Stati del sud, facendo leva sulla volontà di far rinascere un’America che non c’è più. “Make America great again” recita il suo slogan, sbandierato fin dai primi comizi in Alabama nell’estate 2015.

L’imprenditore di Manhattan ha mostrato subito i muscoli e un lato ultraconservatore; contrario alla riforma sanitaria di Obama e al controllo sulle armi da fuoco, Trump ha anche proposto il divieto di ingresso negli States di immigrati di fede islamica. “In God we trust” recita la banconota da un dollaro. Trump ha preso alla lettera questo motto, ponendo l’identità nazionale americana in primo piano. “Costruiremo un muro con il Messico e sarà il Governo messicano a pagarlo”, ha dichiarato.

Secondo i profili descritti dal sito americano Insidegov, Donald Trump è il meno progressista tra i Repubblicani in gara nelle primarie. È antiabortista e contrario alle unioni omosessuali ed è fortemente legato ai valori cristiani del suo Paese. Ma è uno dei più liberali quando si parla di economia. Contrario all’aumento delle tasse è favorevole all’aumento dei finanziamenti per la pubblica sicurezza attraverso le privatizzazioni e l’ampliamento del comparto militare (nonostante abbia più volte criticato la gestione degli interventi in Medioriente).

Nonostante un patrimonio personale di 9 miliardi di dollari, la sua forza non sta nel portafogli. Al 31 gennaio 2016, a sostegno della sua campagna elettorale Trump ha raccolto 27 milioni di dollari. 25 dal suo comitato ufficiale (Donald J. Trump for President, Inc.) e 1,7 milioni dal Pac (Political Action Commitee). La spesa totale si aggira intorno ai 25,3 milioni. Rispetto agli altri suoi rivali il magnate di New York ha accumulato e speso meno. Marco Rubio (59 mln), Ted Cruz (61 mln) e Ben Carson (63 mln), ad esempio, pur con spese maggiori, non hanno ottenuto risultati esaltanti. Nella classifica dei budget, il suo nono posto stride con il successo elettorale. Dopo aver subìto lo sgambetto di Cruz nello Iowa, Trump ha ripreso a correre e a incendiare le folle. Gli elettori del South Carolina e del Nevada gli hanno dato il loro appoggio facendolo diventare il candidato più quotato a vincere le primarie repubblicane e a sfidare i democratici a novembre.

Vince nei piccoli centri e nelle campagne, vince tra gli evangelici e tra gli ispanici. Nelle aree urbane di Las Vegas e di Reno. Vince tra i laureati. Secondo RealClearPolitics, Trump è in testa. La sua verve e le sue frasi ad effetto lo hanno piazzato in cima alla piramide repubblicana con un saldo 33,6% nei sondaggi. Piace perché è politicamente scorretto, perché rappresenta l’alternativa ai “soliti” politici dei palazzi che per l’opinione pubblica sono i responsabili dell’aumento dell’ineguaglianza sociale e della crisi economica degli ultimi anni. Se fino ad adesso gli Stati Uniti hanno fatto solo da osservatori esterni allo spettacolo populista messo in scena di recente in Europa, ora si ritrovano un candidato presidenziale che ricalca molto la linea politica di una Le Pen o di un Farage.

La sua popolarità corre anche online. Il suo profilo twitter ha più di 6 milioni di follower per quasi 40 mila cinguettii dall’inizio della campagna elettorale. È il più social tra i candidati, sia tra i repubblicani che tra i democratici. È lì che lancia stilettate ai suoi rivali (e non solo) quando non sale sul palco. «Farò quello che Mitt Romney è stato incapace di fare. Vincere!», ha twittato il 25 febbraio scorso, definendo l’ex governatore del Massachussets il peggior candidato repubblicano di sempre. Chiaro il riferimento alla sua disfatta nel 2012 contro Obama.

«Voglio essere associato a belle citazioni», ha detto in un’intervista alla Msnbc quando gli vengono chieste spiegazioni sul riferimento a Mussolini sul suo profilo Twitter. Infatti, è lì che corre ora la polemica innescata da un retweet dello stesso Trump. Il blog di gossip Gawker aveva creato un profilo falso chiamato “@ilduce2016” postando la frase “meglio un giorno da leoni che 100 da pecora”. Al miliardario non è sfuggita la citazione e l’ha retweettata. «Abbiamo realizzato un account con Mussolini per vedere se Donald Trump era stupido abbastanza da retwittarlo. Lo è stato», ha annunciato Gawker sul suo profilo twitter. Trump non è sembrato curarsi troppo delle polemiche. «Me ne frego, di essere associato a Mussolini». A lui la frase suonava semplicemente bene.

I suoi modi un po’ folklorici e irriverenti lo rendono il candidato più titolato a sfidare i democratici per la Casa Bianca. La televisione gli ha insegnato un linguaggio e una mimica accattivanti. È un catalizzatore, di voti e critiche.

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