di Nicola Grolla

La faccia pulita del partito dell’elefante ha i tratti caraibici. Marco Rubio, 44 anni, è il candidato su cui punta l’intero establishment repubblicano per mettere i bastoni fra le ruote alla corsa di Donald Trump. Sull’avvocato di Miami, nato da genitori cubani emigrati negli Usa nel 1956, sono riposte le aspettative di un’intera classe dirigente che ha sottovalutato la propria una deriva estremista. A confermare il ruolo di Rubio ci hanno pensato i risultati delle ultime settimane. Nelle primarie in Nevada del 23 febbraio, si è piazzato alle spalle di Trump con il 23% delle preferenze, staccando per la seconda volta consecutiva Ted Cruz e rilanciando la sua candidatura. In New Hampshire, infatti, la corsa di Rubio aveva subito uno stop dopo l’incoraggiante testa a testa dell’Iowa (in cui si è piazzato terzo, a sole quattro lunghezze da Cruz e due da Trump). Un fuoco incrociato d’accuse aveva messo a dura prova le sue capacità di confronto e oscurato la sua retorica basata sul sogno Americano. Ma proprio da qui è ripartito in vista del Super Tuesday.

Nato a Miami nel 1971, Rubio e la sua famiglia si spostano a Las Vegas dove il padre fa il barista e la madre la signora delle pulizie. Grazie alle sue abilità atletiche entra al college con una borsa di studio dedicata ai giocatori di football. Non si tratta del solito sportivo tutto palla ovale, allenamenti e stadio. Tornato in Florida, si laurea a pieni voti in legge nel 1996 e quattro anni dopo inizia la sua carriera politica alla Camera dei Rappresentati dove, dal 2006 al 2008, sarà il primo speaker cubano-americano. L’esperienza in Florida finisce nel 2011, quando viene eletto senatore grazie al sostegno del Tea Party. Il viaggio verso Washington è benedetto da amicizie importanti. Una fra tutte, quella con Jeb Bush di cui ora sembra l’erede politico. Stessi modi educati, stesso interesse per l’elettore moderato. Eppure, solo Rubio è riuscito a non farsi schiacciare da Trump. Merito della sua politica economica liberale che si richiama all’esperienza di Reagan e allo sfruttamento delle energie fossili. Ma soprattutto, merito della sua politica estera e di sicurezza: lotta all’Isis (boots on the ground compresi), stretta all’immigrazione e opposizione a ogni tentativo di controllo delle armi. Proposte articolate che fanno breccia nell’elettorato del Grand Old Party: per il 43% dei sostenitori repubblicani sarebbe il candidato ideale per affrontare i democratici.

Tutti i più grandi amori, però, hanno le loro crepe e nel caso di Rubio tocca il suo punto forte: la sua storia personale e famigliare. Nel 2011, infatti, un’inchiesta del Washington Post aveva mostrato che la famiglia Rubio era giunta negli Stati Uniti due anni prima della presa di potere di Fidel Castro durante il governo filoamericano di Batista. Immigrati economici irregolari, insomma. Nessuna fuga dal regime comunista. Tanto che il nonno di Rubio a Cuba ci era anche ritornato, frustrato dalle difficoltà socio-economiche che aveva patito nella capitalista America. Una piccola macchia a cui Rubio controbatte il physique du role da chierichetto. D’altronde, lo stesso Rubio ha affermato che se non fosse diventato un politico avrebbe intrapreso la strada da predicatore televisivo sorretto dalla sua fede evangelica, funzionale ad attrarre le simpatie dei conservatoti cristiani. Per farlo, ancora una volta Rubio punta sulla famiglia. Sposato con Janette, ex cheerleader, Rubio ha quattro figli e una posizione molto chiara su matrimonio (uomo e donna, niente omosessuali), aborto (tollerato, ma da ridurre il caso in cui si può effettuare) ed educazione (estensione del diritto allo studio, miglioramento della scuola pubblica e nessuna discriminazione verso gli istituti paritari).

Ma sul piatto, oltre alla candidatura, c’è molto di più. Rubio rappresenta quella Generazione X che sta scalando le posizioni in tutto il mondo politico. Dalla sua ha la giovane età, l’autonomia dalle frange estremiste del partito e la capacità di aggregare le minoranze (grazie anche al supporto del ritirato Tim Scott, il solo candidato afro-americano). Per contro, con una carriera quindicinale nella politica statuitense e nulla più, Rubio presta il fianco a quanti lo giudicano ancora inesperto. Insomma, quello che potrebbe fare la differenza in un dibattito in cui vince chi la spara più grossa alla fine potrebbero essere i contenuti. Per metterli in circolazione Rubio non ha badato a spese: con 83,4 milioni di dollari (quattro volte più della media) la sua è la quinta campagna elettorale più costosa fra i candidati di entrambe le parti. E con l’endorsment di numerosi esponenti repubblicani (l’ultimo in ordine di tempo il sentaore Alexander del Tennessee) anche la sua retorica si sta facendo più affilata. Trump è un manager di successo? “E cosa mi dite delle persone che hanno pagato 36mila dollari per la Trump University e ora gli hanno fatto causa”, la risposta nel dibattito del 28 febbraio. Per non parlare della Trump Tower: “L’ha fatta costruire agli immigrati irregolari”. E dell’ennesima affermazione xenofoba: “Ragazzi è la quinta volta che si ripete”. Rubio e il partito sono passati al contrattacco.

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