La necessità di sbagliare sapendo di sbagliare

Sebastiano Pirisi
Design & Systems Diaries
9 min readSep 9, 2016
Foto di Daniele Brotzu

Settembre. Serranda abbassata a metà per schermare i raggi del sole che esplodono sul balcone. C’è silenzio.
Mi trovo a chiedermi, come ormai succede da qualche tempo: come racconteremo l’ultimo decennio?
Spesso me lo sono chiesto, ricordandomi quando, a scuola, ogni tanto sfogliavo il libro di storia e andavo a vedere le ultime pagine. Quelle che rimangono intonse, inviolate da appunti, sottolineature e disegnetti. Quelle che il programma scolastico non raggiunge mai.
Sono le pagine della storia contemporanea.
Ora mi chiedo, cosa ci sarà scritto tra venti, trenta, cinquant’anni su quelle pagine alla fine del libro di storia dell’ultimo anno di liceo?

Sono certamente tempi strani, incerti quelli che stiamo vivendo. Tempi in cui non è facile fermarsi a pensare. Lavoro, traffico, la spesa, i telegiornali, i disastri così lontani o così vicini, il terrorismo così vicino, le bollette, lo squallore televisivo, la disoccupazione, la crisi economica, la partita, il letto. E domani si ricomincia.
Sento profondamente il bisogno di domandarmi: è questo il modo in cui vogliamo vivere?
Mi sto convincendo della necessità sempre più urgente di cambiamento. A tutti i livelli. Nella gestione economica, nel sistema politico, in quello produttivo e nelle nostre strutture sociali. Sento il bisogno di un’evoluzione.
Che direzione vogliamo dare alla nostra evoluzione? Come specie, come società, come comunità e come individui, come vogliamo sia il nostro futuro?Penso sia ormai chiaro che l’attuale sistema economico non sia il migliore (per usare un eufemismo), che il nostro modo di vivere, di consumare e di sfruttare le risorse abbia un impatto insopportabile, che la gestione politica a qualsiasi livello sia spesso inaccettabile. Servono soluzioni per correggere e virare la rotta. La domanda è: come facciamo a sapere qual’è la soluzione giusta per il nostro futuro?

Siamo abituati ad aspettare che esperti e politici calino dall’alto della loro esperienza e del loro sapere soluzioni perfette per il mondo intero. I sistemi politici, economici, la manodopera e le materie prime, le grandi ideologie, le religioni, le scelte economiche e la supremazia hanno cimentato e costruito il cammino dello sviluppo umano fino ad ora. Gli esempi di alternativa sono sempre stati visti come inefficaci su larga scala o soffocati (spesso brutalmente) da sistemi inglobanti e totalizzanti.
C’è stato un momento in cui il sistema economico dominante è diventato il neoliberismo. Dopo due guerre mondiali abbiamo scelto che il sistema giusto per noi era la democrazia rappresentativa, con un parlamento formato da camera e senato, con le regioni e il loro consigli, con votazioni ogni cinque anni e così via. La storia europea ha visto cambiare i suoi confini interni spesso e ora abbiamo un certo numero di nazioni e di popoli che ci vivono dentro. Sono state scelte fatte per dei motivi chiaramente legati al contesto storico e alla situazione contingente a quel preciso momento.
Penso sia arrivato il momento di mettere in dubbio tante nostre certezze e realtà date per scontate e provare ad evolverci in maniera differente.

È chiaro che un nuovo sistema economico, politico o qualsiasi altro nuovo paradigma dovrà sostituire quello attuale tramite un percorso. Questo passaggio però dovrà essere, com’è naturale e normale, graduale. Ci sarà una serie spropositata di errori e tentativi. Ma dovremo essere pronti, da chi ha un ruolo nell’amministrazione a chi finora ha votato ogni cinque anni. Tutti.

“Nel metodo per tentativi l’elemento casuale non è poi così casuale, se lo portate avanti razionalmente e utilizzate l’errore come fonte d’informazione. Se ogni tentativo vi fornisce informazioni su ciò che non funziona, potete concentrarvi su una soluzione, e così ogni tentativo diventa più utile e più simile ad un investimento che a uno sbaglio.” Nassim Nicholas Taleb, Antifragile.

Educare e sperimentare, educare è sperimentare (e viceversa). La sperimentazione è necessaria in modo che le possibili soluzioni vengano collaudate in un ambiente sicuro. Nessuna ottima teoria sulla carta dev’essere ciecamente applicata senza un tempo e uno spazio di applicazione sperimentale. Quindi, iterazioni brevi, piccole porzioni di percorso che prevedono continui pit-stop in cui immagazzinare informazioni, aggiustare il tiro e ripartire. Dei piccoli slanci a corto raggio che sono le innumerevoli tappe di un viaggio lunghissimo.
Passiamo la vita a sbagliare, perché allora non cominciamo a costruire luoghi dove sbagliare e imparare? Ovunque, anche nella nostra pubblica amministrazione.
Dev’essere previsto uno spazio sicuro di sperimentazione all’interno di percorsi mirati a degli obiettivi a lungo termine concordati dalla cittadinanza.
La comunità e la politica devono avere degli obiettivi chiari, trasparenti e concordati dalla comunità. Obiettivi a lungo termine. Come raggiungerli è questione di scelte.
Non parlo delle decisioni spicciole che possono riguardare un nuovo lampione o il rifacimento del manto stradale, parlo di decisioni strategiche come l’energia, lo sfruttamento del territorio, il turismo, il cibo. Scelte fondamentali che determineranno la qualità della vita della comunità nel futuro prossimo e remoto.
Per fare questo ci vogliono amministrazioni coraggiose e cittadini preparati a fare la propria parte. Serviranno tempi e spazi di ascolto, di progettazione, di incubazione e accelerazione di progetti comunitari.
Esistono decine di tecniche e metodologie per la risoluzione dei conflitti e per la progettazione collaborativa, esistono ottimi professionisti che fanno questo di mestiere. La progettazione comunitaria e collaborativa si può fare.
Per poterla attivare è importante capire che l’abitudine alla delega ha fatto il suo tempo.
Una reale democrazia pretende coscienza, scelta e responsabilità. Bisogna allenare il muscolo della democrazia in modo che funzioni sempre meglio e che diventi sempre più forte e resistente. Continuare a delegare non porterà altro che poca trasparenza e creerà una popolazione di rammolliti che finirà per agognare un salvatore che risolva tutto con la bacchetta magica. Un popolo così è solo una mandria di pecore, che ha bisogno di un condottiero e dell’uomo solo al comando, una massa informe capace solamente di lamentarsi. Serve iniziativa, spazio di sperimentazione, educazione e, ripeto, responsabilità.

“Un’autentica cittadinanza si fonda su una cultura politica vissuta, vale a dire su una formazione del carattere, un’etica e una razionalità che possono essere conseguite soltanto grazie a un’interazione profonda tra individuo e comunità, e su una concezione della politica come veicolo per acquisire saggezza grazie alla discussione della cosa pubblica.” Murray Bookchin — Democrazia Diretta

Per far si che questo sia possibile è necessario costruire una comunità recettiva. Educare le persone, a qualsiasi livello, alla sperimentazione e al cambiamento, creando spazi e tempi sicuri in cui sia possibile fare errori.

Ed è per questo che il ruolo dell’educazione in questo processo è centrale. Deve essere un cammino di pazienza e lenta formazione di una mentalità adattiva, pronta a relazionarsi col fallimento come col successo, preparata al cambiamento e a un percorso dinamico, consapevole della dimensione complessa della natura e del mondo in cui viviamo.

Bertrand Russell scriveva “la maturazione della conoscenza somiglia alla maturazione dei frutti: per quanto possano concorrervi delle cause esterne, è il vigore interno, la virtù dell’albero, che ne fanno maturare al punto giusto la polpa” sottolineando la necessità del tempo, della pazienza affinché si intraprenda il percorso verso una presa di coscienza. È un percorso individuale che dev’essere stimolato, ma che dev’essere intrapreso singolarmente. Dobbiamo costruire le condizioni perché questo avvenga.
Nel mondo possiamo ammirare gli esempi attuali della Finlandia in cui si stanno eliminando le materie e i voti. Ottimo esperimento, se avrà successo, se sarà il metodo giusto, non possiamo saperlo adesso. L’educazione è un processo lento. È un esperimento, è una delle strade percorribili. Possiamo adottarlo anche noi? Forse, ma il contesto è differente e potrebbe facilmente fallire. Ciò non toglie che ci dobbiamo provare. Dobbiamo assolutamente scuotere e rivoltare un sistema ibernato.

Nella realizzazione di un sistema che dia la possibilità della sperimentazione continua, sarà necessario che le soluzioni da sperimentare non siano calate dall'alto, ma siano proposte proprie delle comunità, che non andranno a cercare la soluzione a tutti i problemi del mondo, ma cercheranno di risolvere i propri problemi progettando la soluzione a propria misura. Per questo la comunità deve educarsi a proporre e a ricevere proposte.
Nessuna iniziativa, esperimento, processo partecipativo avrà senso se non c’è un qualcuno adatto a ricevere. Per avere una comunità stigmergica*, una leadership distribuita e una amministrazione collaborativa dei beni comuni è necessaria una solida educazione che stimoli la presa di coscienza e il senso civico. Lo stare insieme e collaborare per costruire qualcosa di buono e utile alla comunità deve avere delle solide fondamenta. Per avere menti fertili è necessario dare tanti buoni stimoli e facilitare il processo di ideazione. La scuola è la palestra in cui i ragazzi devono imparare a progettare il mondo che hanno davanti, gli insegnanti devono essere dei facilitatori allenati a sviluppare i differenti talenti di ognuno. Le istituzioni devono essere esattamente allo stesso modo. Facilitatrici di processi collettivi. Attraverso la tecnologia o in qualsiasi modo sia più giusto per il proprio territorio. Le amministrazioni devono trovare le capacità di stimolare e accogliere le proposte. In tutta Italia già esistono e fioriscono progetti virtuosi che mirano all’autosufficienza e alla costruzione di comunità spesso recuperando borghi abbandonati o fortemente spopolati. L’istituzione pubblica ha il dovere di accompagnare, facilitare, promuovere e capire come integrare questi progetti in un processo più ampio di innovazione e crescita dell’intero paese.

Comunità collegate, autonome e rigogliose. Me l’immagino così, una rete di comunità indipendenti ma interdipendenti, in cui ogni territorio gode di autonomia e trova il modo più giusto di essere utile a se stesso e agli altri. Un corpo unico, composto da cellule autonome e connesse che evolvono in base alle esigenze e in base ai propri tentativi, imparando dai propri errori e diffondendo le buone pratiche. Smettere di cercare la soluzione a tutti i problemi, trattare gli standard per quello che sono: aberrazioni non compatibili con il nostro essere natura. Ognuno di noi è differente, all’interno di una stessa comunità che a sua volta è differente dalla comunità accanto.

Mi convinco sempre di più che questa possa essere la strada giusta, ma che contenga in se delle chiare limitazioni, soprattutto se si cercasse di applicarla in comunità troppo grandi. Comunità più piccole hanno la possibilità di una maggiore partecipazione e di una significativa distribuzione delle responsabilità. Si può progettare su qualcosa che si conosce per raggiungere obiettivi a breve e medio termine che incidano effettivamente e il cui impatto possa essere misurato.

I piccoli paesi, le comunità che stanno subendo maggiormente lo spopolamento, le cosiddette zone marginali, possono essere il luogo ideale per sperimentare la sperimentazione. Possono essere il teatro dell’innovazione senza la pretesa di cercare gli strumenti assoluti e perfetti e una metodologia unica che valga sempre e ovunque. Piuttosto sarà opportuno sfruttare una mappatura di buone pratiche e provare ad applicare metodologie differenti.

Il tempo delle comunità è adesso. L’essere umano ha bisogno di creare, crescere, sbagliare ed evolversi insieme ad altri esseri umani. I territori devono trovare il proprio cammino all'interno della cornice nazionale e internazionale, sviluppando e valorizzando le proprie specificità e dando spazio all'innovazione territoriale e all'educazione aperta al cambiamento.

Riprendiamoci la voglia e il diritto di cambiare il mondo. Smettiamo di pensare a “voglio la pace nel mondo” “voglio cambiare il mondo” come a frasi fatte dette da piatti partecipanti a qualche incomprensibile concorso di bellezza e ricominciamo a pensare che queste frasi dovrebbero essere piantate nella testa di ogni bambino, di ogni adulto e ogni anziano per sempre. Con piantate intendo proprio come un seme che mette radici e da cui nascono soluzioni per raggiungerla quella pace.
Sembra così stupido a pensarci. La pace nel mondo. Diamo così per scontato che sia impossibile da scartare a priori anche solo il concetto che c’è alla base.
Ad ogni modo, io lo sento. Non che possiamo cambiare il mondo, ma che possiamo far crescere i semi che prima di noi sono stati piantati e restituire il dono a nostra volta piantando nuovi semi. Negli anni sono stati piantati semi forti, robusti, che hanno dato fiori e frutti, ma è come se fossero macchie di colore in un vastissimo terreno ancora brullo.
La tecnologia e la connessione possono aiutarci a colorare questo campo, mettendo insieme e in relazione tutte quelle realtà che fanno, nel proprio territorio, un lavoro straordinario nonostante tutte le difficoltà.

Nella storia non siamo mai stati così connessi l’uno all’altro, forse è il momento di fiorire tutti. Tutti insieme.

Michel Onfray nel suo splendido libro Il Post-Anarchismo spiegato a mia nonna, dopo aver parlato del principio di Gulliver e della micro-politica, conclude con queste parole (scusate lo spoiler, che comunque non vi rovinerà la lettura del libro):

“Se ci sarà la rivoluzione, non arriverà dall'alto, con la violenza, il sangue e il terrore, non sarà imposta dal braccio armato di un’avanguardia “senza fede né legge”, ma dal basso, in modo immanente, contrattuale, capillare, rizomatico, esemplare. Il lavoro non manca.”

*Il principio della stigmergia è che un’azione fatta in un ambiente stimola le prestazioni e l’azione successiva di un’altro attore. In questo modo, le azioni conseguenti tendono a rafforzare e costruire uno sull'altro, portando alla comparsa spontanea di un’ attività sistematica e coerente.

--

--

Sebastiano Pirisi
Design & Systems Diaries

Systemic designer and Territorial Activator. Dreamer, writer, learner.