Il tasso di sconto e i suoi impatti

Tangram
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6 min readSep 27, 2018

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In questo articolo, tratterò un argomento molto importante dell’economia monetaria, che quasi ogni giorno è al centro dei discorsi proposti dai mass media: il tasso di sconto.

Con tasso di sconto viene inteso il tasso d’interesse al quale le banche e, più in generale, gli istituti di credito, pagano una liquidità monetaria offerta dalla banca centrale alla quale fanno riferimento. In sintesi, è il tasso di interesse sui prestiti che vedono le banche nella posizione di cliente, niente di più e niente di meno.

Questo concetto svolge un ruolo chiave nella definizione del tasso di interesse che il cliente finale, che andrà a farsi prestare una somma di denaro per un investimento, pagherà alla banca. Da ciò segue una prima considerazione fondamentale, ossia che le due misure sono proporzionali: se cresce il tasso di interesse che pagano le banche, aumenterà anche quello dei consumatori, e viceversa. Di conseguenza, è un ottimo indicatore di quanto un investimento possa essere sul lungo redditizio. Questa è la motivazione infatti per la quale questo argomento occupa ampio spazio nei dibattiti politici ed economici odierni. Quando infatti un’economia affronta una fase di recessione, un tasso d’interesse troppo elevato sugli investimenti tende necessariamente a ridurne il numero, siccome il rendimento atteso dell’operazione è inferiore agli interessi pagati alla banca per la fornitura del capitale, conducendo ad una perdita.

Questa è una delle tematiche che per più tempo ha occupato i discorsi degli economisti, conducendoli quasi sempre alla stessa conclusione: durante i periodi positivi per l’economia, un alto tasso d’interesse è sopportabile e premia chi rischia il proprio capitale, mentre in periodi di recessione è necessario il suo abbassamento (quasi fino al suo azzeramento) per invogliare gli investimenti. Tutti discorsi matematicamente corretti. Diversamente da cosa però si possa pensare, nella pratica, sebbene altrettanto utilizzato, non ha quasi mai raggiunto gli obiettivi prefissati, rivelandosi molto spesso marginale se non addirittura totalmente inefficace.

Cercheremo brevemente di spiegare in pochi punti chiave il perché, per poi giungere insieme a delle conclusioni, anche relative ai giorni nostri.

In primo luogo, un grossissimo limite di questa congettura è data dalla sua propensione a non considerare gli effetti psicologici che un periodo di recessione si porta dietro. Infatti, come da definizione, un periodo di recessione successivo ad una crisi (anche chiamato “scoppio della bolla”) consiste nel ristagnamento dell’economia, con una marcata diminuzione della rendita degli investimenti. In questa circostanza, sebbene determinate attività possano mantenere una previsione positiva anche al netto dell’interesse pagato su un capitale prestato, può accadere che tale utile di esercizio non sia sufficiente a giustificare il rischio di cui l’imprenditore si fa carico (ossia, per utilizzare una terminologia tecnica, l’utilità marginale è inferiore al suo minimo atteso di mercato), oppure semplicemente in questo modo venga percepito. Di conseguenza, il tentativo di una banca centrale di incentivare gli investimenti non sortisce risultato alcuno.

In secondo luogo, sebbene come abbiamo visto in potenza esso possa avere un valore di incentivazione, al tempo stesso limita quello di un istituto di credito, in quanto la resa netta di un prestito viene drasticamente diminuita, intaccando il proprio utile. Questo fattore non sarebbe in sè un problema troppo elevato ai giorni nostri, in quanto le banche hanno da anni ampliato i servizi offerti dai quali creano margine di guadagno, non fosse che, nella delibera di una linea di credito, è intrinseca la possibilità di una insolvenza futura del debitore. Per insolvenza, viene intesa l’inadempienza al pagamento delle rate concordate, con la conseguente mancata restituzione del capitale, o di una sua parte. Quando il guadagno delle banche si assottiglia, aumenta il rischio che le insolvenze (che, nel loro stadio più avanzato, prendono il nome di sofferenze) superino l’ammontare degli interessi che un istituto di credito ha ottenuto durante un esercizio. Di conseguenza, analogamente a quanto accadeva nel primo punto citato, le banche saranno meno interessate a cimentarsi in questa forma di investimento, portando ad una contrazione delle linee di credito offerte sul mercato.

Inoltre, in quasi tutte le situazioni di recessione è stata ampiamente sottovalutato un ulteriore fattore: il risparmio privato. Nei periodo fiorenti, infatti, la popolazione è più indotta al risparmio, soprattutto nelle condizioni in cui il salario reale (ossia il potere d’acquisto) è maggiore in vista di periodi futuri meno prosperi. In questa circostanza di conseguenza una minor percentuale di persone, sopratutto nei primi anni, sarà incentivata al prestito di capitale, in quanto in modo accorto già aveva provveduto da sé. E se in questi periodi di crisi il risparmio diminuisce, senza condurre ad un aumento dei prestiti effettuati dalle banche, non solo esse perderanno interessi (sebbene magari felici per non incappare in rischi), ma perdono anche affidamenti che negli anni si erano fatti ingenti, incidendo negativamente sulla loro liquidità.

Quest’ultimo punto ci porta ad analizzare quindi una questione che, negli anni, ha screditato la visione di una politica monetaria in grado da sola di dominare la crescita e la decrescita economica (teorie molto amate dagli economisti americani dei primi decenni del XX secolo). Essa infatti, senza interventi economici esterni importanti, è un vecchio timone che non è in grado di dominare la nave durante una tempesta, incapace di riportare in acque amiche il substrato economico. Anzi, molto probabilmente l’economia monetaria ha proprio il ruolo limitato di corollario ad un più ampio disegno macroeconomico e politico, col compito di aggiustare determinate situazioni, piuttosto che cercare da solo di ribaltarle. Nei periodi precedenti alla nascita delle industrie la moneta era davvero Davide che riusciva a uccidere Golia, ma dalla rivoluzione industriale in poi, con la nascita di grossi accumuli di capitale e dei cicli economici, questo ruolo è decisamente andato scemando.

La condizione particolare dell’Unione Europea

Arriviamo quindi ai giorni nostri, che è un discorso che maggiormente ci appartiene. Mi scuso per la lunga premessa, ma era necessaria per definire ed in parte già esaurire l’argomento del corpo dell’articolo.

La Banca Centrale Europea è l’istituzione di riferimento di tutte le banche e gli istituti di credito che operano nell’Unione Monetaria Europea. Essa decide il tasso di sconto ed anche l’introduzione o il ritiro di denaro contante dal mercato, per gestire l’inflazione e per incentivare gli investimenti.

La BCE purtroppo però opera in una situazione decisamente svantaggiata rispetto alla Federal Reserve americana, in quanto l’Europa dei giorni nostri non è né una confederazione, né una federazione, ma un insieme di Paesi a sé stanti, che condividono (chi più e chi meno, come si vede proprio in questi giorni) determinati ideali, valori e regolamentazioni comuni. Non a caso infatti lo stesso Euro non è adottato dalla totalità dei paesi dell’Unione Europea.

Una situazione di questo tipo, come analizzato nella conclusione dell’introduzione, rende di fatto molto ristretto il suo margine di azione, dovendo andarsi a sposare con le più disparate politiche economiche dei vari Paesi aderenti. Ecco che, anche durante un periodo di recessione di stampo globale, non le stesse operazioni porteranno i medesimi vantaggi ai singoli Stati, andando sovente addirittura a penalizzarne alcuni. Questo comporta quindi ad un valore più simbolico nel campo pratico dell’economia di quello che realmente viene mostrato, attraverso pirotecnici comunicati, spesso giocati su significati oscuri della parola (su questo argomento, consiglio la lettura del libro di Alberto Orioli, “Gli Oracoli Della Moneta”, Edizioni Il Mulino, San Giovanni Persiceto (BO), 2016). Purtroppo però, fino a quando non cambieranno le condizioni politiche dell’Unione verso un maggiore avvicinamento politico degli Stati, poco potrà cambiare. I monetaristi di Francoforte continueranno ad idolatrare il proprio valore, supportati dai veterani di Bruxelles, senza tuttavia avere reali possibilità di dominare lo sfondo economico. In questo scenario appare quindi scontato come l’impatto della BCE sia ampiamente limitato dal sostrato economico e politico stesso della divisione, non potendo modificare la propria politica economica per ogni singolo Stato.

Per le Nazioni stesse di conseguenza una politica indirizzata alla ripresa economica non si vede sufficientemente spalleggiata da un’economia monetaria idonea e studiata per sposarsi alla perfezione con le innovazioni nell’ambito della politica introdotte. Sebbene un’ingresso nell’Euro sia di per sé irreversibile (ed ho motivo di credere che un suo abbandono altro non possa avere che risultati disastrosi), i giorni odierni hanno dimostrato come, senza un’unione politica e senza una vera e propria economia comune, il sistema così studiato abbia enormi limiti intrinsechi.

Spero con questo articolo di aver chiarito i concetti chiave del discorso. Non possiedo personalmente una posizione contraria alla presenza dell’Italia nell’Euro, ma credo sia lecito, giusto e doveroso mostrare come determinate ideologie, anche se non condivise, abbiano comunque un fondamento, e di come soltanto una critica interiore profonda da parte delle istituzioni possa portare ad un miglioramento delle condizioni. La politica monetaria non è tutto, come già ho spiegato, ma rimane un ottimo strumento correttivo all’interno del sistema capitalistico, che dovrebbe avere la possibilità di muoversi di comune accordo col mercato, per assicurarne la sua stabilità. Senza però avere delle solide basi, la sua funzione rischia, come accade in Europa, di avere effetti solamente marginali e simbolici, spesso ottenendo in aggiunta risultati opposti a quelli attesi.

Andrea Massardo

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