Che fine fanno i nostri dispositivi tech?

Michelangelo Caruso
Tasc
Published in
4 min readDec 12, 2014

Spesso su Tasc ci si ritrova a parlare di nuovi dispositivi e di nuove tecnologie, che migliorano di volta in volta quelle precedenti. Nella corsa al rinnovamento tecnologico nessuna ditta si risparmia, e propone prodotti con cambiamenti, miglioramenti o del tutto nuovi.
Pensiamo al settore degli smartphone: nel continuo susseguirsi di nuovi apparecchi abbiamo schermi sempre più definiti, sottili e luminosi, batterie sempre più capienti, processori sempre più piccoli ma sempre più potenti; da poco più di un anno il processore quad-core rappresenta un requisito indispensabile per un cellulare di fascia medio-alta, e già si affacciano al mercato dispositivi con processori octa-core, in una spirale di evoluzione a ritmi sfrenati.
Tutto questo ovviamente contribuisce a creare un desiderio smodato per l’ultimo modello disponibile.

Non tutti partecipano a questa esasperata corsa all’acquisto (nonostante ci capiti spesso di osservare immagini di code chilometriche di fronte ai vari negozi il giorno stesso del lancio di un dispositivo), ma è anche vero che i più equilibrati subiscono questa influenza, scegliendo di “pensionare” il proprio telefono non a questi ritmi ma sicuramente alla prima occasione possibile. Ma che succede invece quando, una volta acquistato il nostro nuovo oggetto del desiderio, buttiamo via quello vecchio?

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Dietro la tecnologia

La prima cosa da sapere è che i dispositivi elettronici non vengono semplicemente buttati, ma raccolti e poi riciclati per riottenere le materie prime utilizzate nella costruzione: rame, silicio, ma anche oro e palladio, oltre a molti altri elementi. Un comune smartphone può contenere fino a 60 materiali diversi, tutti più o meno preziosi. La brutta notizia è che la stragrande maggioranza di questi viene spedita in Cina, Africa ed India che, a causa delle alquanto permissive leggi in materia ambientale, ne permettono il riutilizzo senza particolari precauzioni: qui infatti, gli oggetti elettronici vengono smontati dalla popolazione locale (spesso anche da minori) per estrarre ciò che serve e rivenderlo.

The Electronic Afterlife

Alex Gorosh, giovane videomaker americano, ha girato il docu-film The Electronic Afterlife domandandosi per l’appunto dove andassero a finire i dispositivi che quotidianamente buttiamo; armato di telecamera ha deciso di andare a vedere coi suoi stessi occhi ciò che avviene in Ghana ad Agbogbloshie, e questo è ciò che ha filmato.

Constatare che le leggi locali sono, come dicevamo prima, più concessive rispetto ad altre nazioni, non stupisce nessuno. Così tanto permissive da permettere che chiunque possa mettere in piedi un “impianto” di smaltimento, dove gli addetti lavorano senza alcuna protezione, né per se stessi né per l’ambiente in cui vivono, per salari che vanno dai 2 ai 5 cedis (dai 60 centesimi di euro a 1,60 euro): nemmeno questo suona di novità. Purtroppo.

Interi agglomerati urbani diventano veri e propri impianti di smaltimento e riciclaggio, gli abitanti attrezzano il proprio posto di lavoro sin dentro casa. La popolazione locale vive quotidianamente in mezzo a cumuli di tecnospazzatura, ed il suo trattamento produce sostanze altamente tossiche (ad esempio, bruciare il materiale isolante attorno ai cavi elettrici rilascia quantità elevate di diossina e furano, due elementi altamente tossici e persistenti).
Ovunque esistano situazioni di questo tipo, la condizione umana è identica: i bambini sfruttati come manodopera e, quando non lavorano, giocano in mezzo ai materiali da smaltire; le acque utilizzate per la pulizia dei materiali spesso sono le stesse che i locali usano per bere, per lavarsi e per le coltivazioni agricole.
Inquietante è il dato relativo alla vita media: ad Agbogbloshie per esempio, si aggira sui 25 anni. Molti posti sono davvero fuori da ogni grazia di Dio, come Guiyu in Cina, nella provincia meridionale di Guandong, una delle città-discarica più grandi del pianeta (qui arriva circa l’80% dei rifiuti tecnologici mondiali) tenuta segreta dalle autorità cinesi e di difficile accesso per chiunque non sia un locale.

Venire a conoscenza di queste realtà è illuminante e deprimente allo stesso tempo, e ci pone forzatamente difronte a realtà che abbiamo sempre ignorato, utile anche per riflettere su una tematica scottante come l’immigrazione, per comprendere da cosa tutti quegli immigrati, di cui quotidianamente si parla e di cui nulla sappiamo, fuggono.
Per comprendere meglio ciò di cui stiamo parlando, è però importante quantificare la portata del fenomeno: secondo il Guardian, che riporta alcuni dati forniti dalle Nazioni Unite, la percentuale stimata di rifiuti elettronici aumenterà del 33% annuo, per un totale di ben 65,4 milioni di tonnellate entro il 2017. Cifra plausibile, se consideriamo che sempre nel 2017 è previsto che saranno attivi ben 10 miliardi di dispositivi mobili.

L’infografica appartiene a Santos Henarejos di Makeshift.

Un’alternativa?

Nonostante le previsioni siano tutt’altro che rosee, esistono anche esempi positivi.
È possibile utilizzare servizi come quello offerto da Gizmogul, l’associazione promotrice del video di Alex Gorosh, che mette a disposizione il ritiro dei vostri vecchi dispositivi, i quali verranno ricondizionati o smaltiti correttamente. Parte di un progetto umanitario è la collaborazione con African Outreach, che vuole donare i computer ricondizionati alla popolazione di Agbogbloshie e, assieme ai fondi raccolti, supportare un progetto di educazione scolastica, con il supporto agli insegnanti, la costruzione di una biblioteca e di un laboratorio tecnologico, senza contare la creazione di un programma formativo concreto e duraturo, alla pari con i paesi ricchi.

Così, quando questo natale riceveremo o ci regaleremo l’ultimo agognato gadget tech, non buttiamo semplicemente via quello vecchio: cerchiamo di dare un senso ad un gesto altrimenti ottuso, come lo spreco di risorse naturali.

Adesso che sappiamo cosa costa gettarlo, di certo faremo più attenzione.

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