La connessione tra età e voglia di fare

Alberto Gerin
Tasc
Published in
8 min readFeb 23, 2015

Una correlazione effettiva tra età e capacità imprenditoriale? C’è.
O almeno questo è ciò che sostiene Malcolm Gladwell, sociologo e giornalista canadese. E uno studio del Babson College, Massachusetts, datato 20 Marzo 2014, conferma parte della teoria di Gladwell. Ma le posizioni all’interno della scena imprenditoriale e scientifica, e tutto ciò che le circonda, sono decisamente differenti.
Noi proviamo a rifletterci assieme.

Nati fortunati

Dall’introduzione dei microprocessori nei primi anni ’70, solamente gli ingegneri informatici usciti dall’università qualche anno prima erano a conoscenza di questi dispositivi e del loro funzionamento. Dunque, chi era nato prima del ’50 non era in grado di far funzionare tali macchine (nella maggioranza dei casi).

Quando furono introdotti i personal computer nella vita quotidiana, soltanto coloro che li utilizzavano sul luogo di lavoro da diverso tempo scelsero di dotarsi di un PC anche in casa; vuoi per l’alto costo del prodotto, vuoi per la scarsa curiosità che il cittadino medio dimostrava nei confronti di tale tecnologia, coloro che si trasformarono poi in imprenditori legati al digitale partirono molto presto: un’analisi sugli studenti-imprenditori tech del MIT di Boston ci mostra effettivamente che l’età passa da 40 anni nel 1950 a soli 28 nel 1990. Tralasciando la stretta correlazione tra studenti informatici e imprenditori del digitale, lo studio afferma che la distribuzione dell’età tra gli anni ’50 e ’90 risulta essere molto simile anche nell’imprenditoria generale. Fortu-nati dopo gli anni ’50, dunque.

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La formula magica del successo

Nel saggio Outliers: The story of success Gladwell ripercorre tutte le tappe che portano al successo di un imprenditore, dalla più banale alla meno comprovata, delineando così una figura-tipo. Ma davvero è così semplice? Davvero basta leggere un libro per raggiungere soldi-fama-potere?

Sembra tutto così certo e definito da una formula: 10000 ore, 1250 giorni di pratica e potrai essere un maestro in qualsiasi cosa. E se anche Hemingway riteneva che

success is 1 percent inspiration and 99 percent perspiration

chi siamo noi, per opporci e non credere?

Gladwell, nella prima parte del libro, mette in luce come ciò che ci circonda influisce sulle circostanze e sulle nostre possibilità di successo, approfondendo poi l’importanza dell’ambiente, della cultura e degli eventi globali all’interno dei quali cresciamo. Tutto ciò porta alla formulazione finale del termine outlier, fuoriclasse, come colui a cui sono state concesse opportunità e che ha avuto la forza di coglierle e sfruttarle fino in fondo.
Non si accenna mai al termine intelligenza, dunque, e nemmeno alla fortuna, condimenti sempre presenti ma considerati secondari nel susseguirsi delle opportunità.

La teoria di Gladwell, tuttavia, non è una novità: nel lontano 1977 William Chase ed Herbert Simon analizzarono le strutture percettive dei giocatori di scacchi, enumerando le 10000–50000 ore di esperienza soltanto come grandezza ideale del percorso esperienziale, e NON definendo (e concludendo) tale numero la cifra perfetta per il successo in una disciplina; anche perché non esistono dati analitici che confermino quel numero. Nel 1993 uno studio dello psicologo Anders Ericsson riprende questa cifra nella statistica dei violinisti più bravi, che si sono esercitati all’incirca per 10000 ore, a discapito di quelli meno bravi e delle loro 4000 ore di allenamento.

Alla fine di questo paragrafo penserete che la pratica, costante e prolungata, potrà portarvi ad eccellere in qualsiasi cosa, e da domani vi applicherete nella fisica cronometrando queste esasperanti diecimila, pronti per il CERN. Bè, non è proprio così.

Talent + Preparation

Talento innato, ovvero predisposizione ad un certo tipo di materia, più preparazione: ecco una formula semplificata per raggiungere il tanto agognato successo. In quei campi definiti ad alta complessità cognitiva, che vanno dall’arte alla scienza, l’allenamento non basta; e non basta nemmeno la predisposizione naturale, ma la combinazione tra questi fattori in varia misura, e dunque non quantificabile nelle già citate 10000 ore.

D’accordo, vi siete chiariti le idee e dunque pensate di essere migliori medici piuttosto che fisici. Un po’ di allenamento e si diventa primari in cardiochirurgia! Nemmeno stavolta posso lasciarvi andare.
Già, perché la pratica non è così semplice ed immediata come l’allenamento; Ericsson (assieme a Michael Prietula e Edward Cokely) l’ha definita pratica deliberata, ossia un miscuglio di altissima concentrazione, tenacia, espansione della conoscenza, forzatura dei propri limiti ed onestà. Un percorso intimo di crescita a 360 gradi, in 10000 ore, ma anche meno, o più.

Dalla musica alle arti, alla matematica, alla neurologia, sembra che i fatti più rilevanti in termini di successo (ancor più rilevanti del quoziente d’intelligenza) siano la pratica intensiva, l’aver studiato con buoni maestri ed essere stati sostenuti con entusiasmo dalle famiglie. La quantità e la qualità della pratica restano comunque cruciali. Questo significa che gli esperti si costruiscono, non vengono fuori all’improvviso. Insomma, nessuno nasce imparato, e non ci sono scorciatoie.

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Giovane, cambia le regole!

Eravamo partiti da età e voglia di fare, e siamo finiti a parlare di talento e preparazione?! Sarete un po’ confusi, perciò ritorno a focalizzarmi sulla tesi iniziale, ovvero sulla connessione tra i primi due.

I tre fattori fondamentali, che risultano imprescindibili per favorire l’incontro di età e capacità imprenditoriale, sono creatività, istruzione ed esperienza. Esplorando l’argomento in maniera più dettagliata (riferimento allo studio Born Lucky), scopriamo che Steve Jobs e Sir Henry Bessemer sono le eccezioni che confermano la regola. Perché? Nessuno dei due ha una laurea, nessuno dei due viene ascoltato dalle compagnie a cui cerca di vendere le proprie idee ed i proprio prodotti; entrambi hanno idee rivoluzionarie ed entrambi, dopo numerosi e costanti rifiuti, aprono la propria azienda. Possiamo definirli imprenditori per caso, che hanno dato il LA al loro successo grazie a fondi di investimento e business angel.

La verità è che, Bessemer più di Jobs, l’eccezione davvero in grado di cambiare le regole del gioco è qualcuno esterno al gioco stesso. Al tempo dei loro successi, nessuno dei due era più un giovanotto, avevano fatto esperienze (positive e negative) ed erano convinti di aver sviluppato un buon prodotto in grado di portare novità e cambiamento; piccoli inventori, ingegneri non per titolo ma per manualità, hanno rivoluzionato settori quali l’acciaio e la tecnologia. Ma ciò che ci salta all’occhio, sfogliando lo studio sopra citato, è quando e da dove sono partiti i grandi imprenditori in grado di cambiare i paradigmi nel mondo della tecnologia.

Quant’è importante l’età in un imprenditore?

Gli studi effettuati a riguardo mostrano un picco che si aggira attorno ai 30 anni, andando a scendere fortemente dopo i 40, mentre la parabola ascendente parte molto presto, addirittura attorno ai 16 anni (ma questo è un fenomeno ancora sotto esame, visto che i decenni dopo il 2000 sono i primi a coinvolgere direttamente con la tecnologia più avanzata la fascia di età 14–18). Inoltre, si nota come i più giovani, mancando d’esperienza, raggiungono e concludono con successo un progetto imprenditoriale soltanto dopo aver lanciato altri business meno innovativi e spesso fallimentari, mandando l’esperienza adatta.

Quindi, avviso ai ventenni naviganti: se avete un’idea geniale in mente, covatela bene, sviluppatela pian piano e quando avrete sbagliato ed imparato a sufficienza, quello sarà il momento giusto per diventare imprenditori; ciò non implica assolutamente il “non darsi da fare” bensì l’aspettativa di successo dei propri progetti. Specialmente in un’epoca in cui lo sviluppo è più rapido dello schiocco delle dita ed il processo tecnologico appare senza freni, i giovani hanno la freschezza giusta per avere idee così visionarie da essere davvero rivoluzionarie.

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Personalmente, non ritengo positiva una “corsa all’imprenditore giovane” alla quale stiamo assistendo negli ultimi anni; trainata dal successo e dalla ricchezza che alcuni popolarissimi nomi hanno raggiunto, prima ancora di compiere 25 anni, sta raggiungendo picchi a dir poco distruttivi. Un esempio? Zuckerberg e Thiel (cofondatore di PayPal), nel 2011, hanno creato una culla dorata per 24 giovanissimi, pagandoli a peso d’oro per lasciare gli studi ed imbarcarsi in un’avventura “che cambi il mondo”. Credo che Thiel e lo stesso Zuckerberg abbiano raggiunto il successo grazie alla loro formazione ed educazione (Stanford entrambi, Zuckerberg non ha completato gli studi), perciò è utopistico credere di poter creare piccoli geni senza un’adeguata preparazione scolastica, quella che ciascuno dei signori della Silicon Valley ha potuto assaggiare.

Quando a fare la differenza non sono età ed esperienza, ma il giusto approccio mentale

Partendo dalla definizione di gap generazionale (la differenza di idee, opinioni e comportamenti che separa le generazioni più giovani dalle precedenti), ci si ritrova a fare i conti con uno scontro che, di questi tempi, è decisamente accentuato: da una parte, le generazioni nate fino agli anni ’80, legate fortemente alla comunicazione verbale e dall’altra i cosiddetti baby boomers, ovvero i nati dopo i primi anni ’90, abituati ad avere la conoscenza a portata di mano, facilmente reperibile in qualsiasi luogo, e strettamente connessi di modo da poter lavorare dovunque e con l’immediatezza di comunicazione.

La preposizione più interessante è, secondo me, non tanto legata alla linea di divisione che separa età e preferenze dello stile di vita, quanto al mindset capace di andare oltre tutte le differenze (età, genere, formazione e geografia); è proprio focalizzandoci sulla mentalità, sull’attitudine e sui valori che possiamo superare l’ostacolo di un muro-contro-muro generazionale, quali vero elemento di differenziazione nel momento della selezione della squadra di lavoro.

Quali caratteristiche, dunque? Tralasciando l’età, ci sono valori comuni alle persone di talento e di successo, che molti studiosi sono concordi nell’identificare in aspetti definiti comunemente secondari, ma che nella realtà valgono ben più di un titolo di studio o della provenienza geografica. Coloro che non aspettano che le cose accadano, ma capaci di mettersi in gioco per realizzarle, evidenziando una visione diversa da quella preponderante ed un approccio non convenzionale; i cosiddetti pensatori indipendenti, che si nutrono di passione vede energia positiva per realizzare le cose in cui credono senza delegare responsabilità o scuse ad altri, dimostrano di avere una capacità imprenditoriale innata, che li spinge al successo (non ai soldi facili) attraverso duro lavoro, assumendo la responsabilità delle proprie azioni e facendo tutto questo con un approccio collaborativo che supera le barriere aziendali/personali. Ancora troppo spesso le aziende tradizionali assumono i propri dipendenti sulla base dei valori tradizionali del curriculum e dei costi, ma lo spiraglio, per questi leader di domani, si dimostra vincente nelle scelte delle start up e dei dominatori del mondo digitale, con un meraviglioso sistema di affiancamento di generazioni diverse, in grado però (grazie all’approccio mentale) di completarsi, con esperienza ed energia in costante collaborazione, abbattendo così barriere generazionali ritenute insormontabili.

Da dove vieni, che scuole hai frequentato, quanti anni hai e ciò che hai realizzato prima d’ora, tutto questo è meno importante della tua visione di ciò che è possibile fare.

A voi la palla: fateci sapere che ne pensate!

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Alberto Gerin
Tasc
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Personal-growth addicted, some music&books&films lover, editor & copywriter.