Il rito, il gesto e la contemporaneità

Appunti su “Minimacbeth” di Taddei, Marconcini, Daddi #1

[minimacbeth, ph Lorenzo Gori]

Una stanza chiusa da tende bianche con al centro un lungo tavolo di legno grezzo completamente ricoperto da foglie secche, due sedie di egual fattura alle estremità e a terra lampade e alcuni lucernari sotto il tavolo.
L’impatto visivo di Minimacbeth è molto forte, sembra quasi di trovarsi di fronte a una sorta di tableau vivant con gli spettatori parte essi stessi della scenografia dello spettacolo.
All’entrata in scena dei due attori con indosso ampi vestiti di lana cotta dal sapore ancestrale e dai colori terrosi e fangosi che vogliono richiamare la terra, il sangue e la guerra, l’aspetto estetico e l’importanza figurale degli accostamenti e delle immagini diventa ancora più forte e pressante.
Ha inizio infatti un gioco di luci e ombre, bui improvvisi e densi ai cambi di scena e fiammelle o piccoli fuochi accesi e poi spenti a scandire gli atti del Macbeth, ridotto ma pur presente con la sua storia e i suoi temi nelle fasi più pregnanti e importanti, alla presenza della densa notte in cui è ambientata la tragedia, costellata dalla presenza di fuochi e luci crepuscolari.
E pur nella puntualità del testo scritto da Andrea Taddei appositamente per Dario Marconcini e Giovanna Daddi, più che seguire la trama, si resta da spettatori piuttosto colpiti ed affascinati dalla gestualità dei due attori: i piedi scalzi che calpestano il suolo, i salti sul tavolo, lo strisciarvi sotto. Sembra quasi di assistere ad una performance di arte contemporanea, soprattutto di una certa matrice, nella ritualità dei gesti che rimandano ad un chiaro periodo degli anni ’60 che ha visto come protagonisti artisti come l’Abramovic ad esempio.

[Minimacbeth, ph Lorenzo Gori]

E in effetti la storia stessa di Marconcini e la Daddi è segnata dalla rivoluzione del teatro di quegli stessi anni in cui l’attore è riuscito a scardinare le regole del teatro tradizionale, andando per strada e dimostrando che il teatro è ovunque, non solo nel luogo ad esso deputato. L’importanza pregnante del gesto, il toccare la terra con i piedi nudi liberandosi delle scarpe, con l’estremo giungere alla presenza del solo corpo dell’attore illuminato da una candela, nascono proprio in questo periodo, come ricorda lo stesso Marconcini.
E in effetti questo spettacolo già rappresentato dai due attori quindici anni fa, può essere visto come una sorta di summa del lavoro di entrambi. È quindi come assistere a un rito dove anche la scelta dei motivi musicali — Shönberg e i Madrigali di Gesualdo da Venosa (scelti personalmente da Marconcini) che segnano alcuni dei passaggi chiave della vicenda — e degli stessi oggetti non è casuale ed esclusivamente finalizzata ad uso di scena, ma ha un preciso significato nella vita e nella storia stessa degli attori, come le lampade acquistate ad Ashanti e la maschera donata da un mascheraio di Bali in uno dei tanti viaggi fatti.
Si arriva quindi a dimenticare Shakespeare e si guarda piuttosto all’attore, al suo vissuto.
E per un breve istante anche noi entriamo a far parte di quel teatro sperimentale che ha fatto storia, sedotti e affascinati dall’aurea del grande attore.

Ilenia Vecchio

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Giornalisti di confine
Teatri e giornalisti di confine 2016, Pistoia

Canale del progetto di formazione su giornalismo-critica-comunicazione attivo durante la rassegna “Teatri di Confine”, dal 9 al 30 giugno 2016, Pistoia